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Antonis Fostieris - Nostalgia del presente

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Il suono del mondoantonis fostieris

Mia piccola ammaliatrice non respingere il mio amore
Sappi comunque che non ti amo. E se ti hanno cantata
I poeti di ogni tempo, se ti hanno celebrata
Sulle loro cetre dalle corde di crine
Sappi dunque che i poeti sono tutti segaioli
Altrimenti non si lascerebbero
Chiamare poeti. Posa
La tua mano delicata d'acqua e di vento
- Non ti dicevano così i buffoni? -
Sulla mia fronte. La febbre
La temperatura naturale di un corpo
Che orina sull'alloro e dispregia il fruscio
Dello spirito che esala. Posa
Il tuo capezzolo sulle mie labbra
E lascia che la mia lingua lecchi silenziosa
Il vaso del tuo brivido. Piccola ammaliatrice
Con le poesie non si raggiunge l'orgasmo
Neppure i babbei che intorno a te rovesciano
Gargarismi di parole. Ascolta
Il muggito, il fragore, il pianto:
Di simili suoni è fatto il mondo. Ascolta
Il gracchiare - o il ruggito
Del leone che è il mondo. Ascolta
Il rombo dell'oceano; il rombo;
Non il canto spensierato dei pescatori.



Genesi

Quanto più procedevo nella luce
Impallidivano i colori
Si addensavano, vorticavano come un disco
Diventavano
Quel colore che non era più
Colore.

Nel cuore della notte un diramarsi di strade
Un aprirsi a nuove combinazioni
Dissi "buio" ed ecco generata
La terra con le sue piante i suoi animali
Invisibili enormi delicati
Che mi somigliano.



Planetario personale

Respiravo tanta oscurità, che dal mio
Espirare scaturivano stelle.
Si diffondevano nell'etereo infinito
Fulgide formazioni
Volti parole città segreti
I timori più intimi
Nella volta interna di un nuovo
Planetario mondo.

Tu là, Io là
Costellazioni del sangue
Galassia dello sperma
Fonda simboli grovigli particolari
Che solo la conoscenza immaginazione
Sa interpretare.

E da un punto all'altro il tempo scorre
Ampio fiume che irriga
Con le cose finite quello che verrà
Ciò che dorme tranquillo dentro ognuno
- Atti in embrione
Pene appena nate -
Serpe che attorciglia il mio misero universo
Serpe che morde la sua grassa coda.



Nostalgia del presente

Ho nostalgia del presente che vivrò.
(L'attesa si accorda con la memoria:
Entrambe falsificano quanto più possono
La sventurata realtà. Lo vedi.)

Quali eventi macchineranno di nuovo
La mia partecipazione? Quale variopinto
Straccio di passione
Imiterà di nuovo la porpora?
Mi stupisce
A che velocità si genera la noia. Se conoscessi
La matematica dei sentimenti correrei
Immobile come Achille (l'idea di Zenone)
Più lento della tartaruga della mia vita.
Non dobbiamo aver fretta.
Come osare sorpassi con il clacson
Quando davanti a te sono imbottigliati gli inferi.

Come puoi prevedere qualsiasi cosa accada,

In questo presente così remoto.



Simulazione di cinguettio

Dentro il legno un uccello asprigno
Cinguetta.
Simulazione di uccello e simulazione
Di cinguettio. Anzi è un merlo che batte insistentemente
Il becco. Piove, non ha un altro
Rifugio e sulla finestra si ode
Un tic tic, come il suono della pioggia
Ma più intenso. Ma dentro il legno
Né pioggia né finestra. Oscurità di visceri
E umori secchi che altri uccelli
Sulle foglie, sui rami,
Tempo addietro. Proprio un merlo, chissà
Come ha trovato un varco per infilarsi
Intatto
-Veliero in miniatura dal collo
Di una bottiglia -
E fa sempre tic tic e cip
Con gorgheggi
Disarticolati e
Invisibile,

Così come nel miracolo
Spesso senti apparire
Dio
            tra i suoi eletti.



Nostalgia di quel presente

Mentre mi chino sulla culla di mio figlio
Per dargli un bacio, inattesa
Mi sommerge una nostalgia di lacrime per la dolcezza
Di questo istante che vivrò
Interamente,
Di questo, proprio di questo istante.

Ma è mai possibile?

Eppure lo è, a quanto pare. Giacché in un passato remoto
Un'altra poesia testimonia ancora le stesse cose.
             Non è questa la nostalgia del presente? L'assoluto,
             diciamo così, strazio per la distanza
             che ti separa dal corpo che abbracci? L'abisso
             che ti appiccica addosso
             ciò che hai amato.

Ora quel presente della poesia
Ha smesso ormai da tempo di essere presente.

E così come ho ricordato
La nostalgia di quel presente,

Ho nostalgia
Di quella nostalgia.



Fossile di un suono

Sono passate due poesie e
Invisibile
Nel legno s'ode ancora
Il merlo.
Un legno di pietra, a quanto pare,
Avrà ingabbiato il suono di un uccello
Antidiluviano
Nello stadio
In cui il becco sta per
Cinguettare
Sospeso
Dal tic
Fino al ramoscello
Della cima
Il cip.
Non c'è altra spiegazione.
Mentre sugli altipiani
Ippocampi arrampicati, stelle marine
Pesci montani nel quarzo
Resine che sciolsero la loro lava
E integri
Animali piante si cullano
Nella fosca immortalità del Pleistocene.

Vedrai dunque che sarà il fossile di un suono.
Non Dio.

Né un merlo
Né un verme
Né un incurabile
cancro del legno.

Una ventriloqua memorizzazione del tic.

Un metodo per apprendere il cip.



Il ragno

Sedevo da ore nella mia noia inerte
Come chi è spossato dalle troppe cose
Che spera di aver vissuto
Nel tiepido vuoto del non pensare sedevo
Osservando un ragno che si librava.
Immaginavo che lui pensasse qualcosa
Perché scalava la sua tela ripugnante,
Restava immobile scuotendo le antenne
Lanciandosi con impeto nel vuoto.
Non vidi passare una mosca né un insetto.
Ma la caccia continuava senza preda
Con la saggezza di chi sa che occorre un'arte riso
Per afferrare l'inesistente.
Bella saggezza di un minuscolo mostro
Che in una trama sottile di saliva
Tendeva agguati all'inafferrabile.
E con grandi bocconi inghiottì infine
Le mie ore, la noia, il vuoto.


Testi tratti da Antonis Fostieris - Nostalgia del presente - Crocetti Editore 2000 (senza testo a fronte), traduzione di Nicola Crocetti, introduzione di Massimo Cazzulo.

Fostieris cerca di liberare il senso riposto del| le cose, squarciando l'involucro fonetico che le avvolge, inserendole nelle caselle di una tassonomia quasi scientifica. E' come se il nome che designa ogni realtà percettibile formasse intorno all'oggetto una sorta di velo che ci impedisce di raggiungerne il cuore, di riportarne alla luce l'antica purezza (...) Di qui scaturisce una delle caratteristiche della poesia di Fostieris: l'essenzialità del verso, un'espressione ridotta all'osso, un'aggettivazione semplice e lineare che conferisce spesso al discorso un tono di nudità epigrammatica e di aforisma. E' una poesia che procede più per sottrazione che per addizione, che acquista significato più dal sottaciuto che dall'espresso, secondo una linea di principio ben testimoniata nella poesia di questi ultimi anni, in cui il silenzio è diventato per molti poeti l'unico vero antidoto contro il rumore assordante (in senso concreto e metaforico) del mondo moderno.
Ma con quali mezzi Fostieris persegue il suo scopo di liberare la parola? Scardinando la lingua dall'interno, riplasmandola nelle sue strutture, aprendola a nuove significazioni, come fecero i cubisti con la pittura. Fostieris scompone e ricompone la lingua, accostando i termini in modo da provocare il corto circuito che mette in moto il flusso delle emozioni. (...) La necessità di scavare negli strati successivi della lingua fino a rivelarne la verginità primigenia, restituendola alle sue suggestioni semantiche, fu a più riprese affermata anche da Elitis, ed è interessante notare la diversità degli approdi dei due poeti: mentre per Elitis, infatti, la parola poetica, una volta ricondotta alla sua purezza, ci consente di vedere l'essenza delle cose, la loro parte eterna e incorruttibile, per Fostieris la poesia può soltanto prendere atto della realtà; essa non è uno strumento per trasformare il mondo, ma il veicolo per materializzare il pensiero, e il pensiero, come recita il titolo della sua opera più recente, "appartiene al dolore". (...) Ma se la parola da sola non riesce ad esaurire l'umana necessità di esprimere le proprie emozioni e di comunicare con gli altri, occorre l'intervento del silenzio, che in Fostieris non è l'antitesi dell'espressione ma il suo lato complementare, cosi come il buio lo è della luce. La sua è una poesia di chiari e di scuri, di vuoti e di pieni, di studiate architetture sorrette dall'alternanza di suoni e di silenzi che, anziché annullarlo, scandiscono il ritmo verbale. "Il solo modo per farti ascoltare", dice il poeta in una intervista, "è sussurrare [...] La poesia è un sussurro stentoreo. [...] Il silenzio è l'ingrediente più significativo della poesia. Non si tratta di un paradosso: la poesia è fatta con grandi dosi di silenzio e piccolissime dosi di parole. Pretende che si scriva solo ciò che è realmente necessario...".  (Massimo Cazzulo)

Antonis Fostieris è nato ad Atene nel 1953 da una famiglia originaria di Amorgòs. Ha studiato Giurisprudenza ad Atene e Storia del Diritto a Parigi.
Ha pubblicato le seguenti raccolte di versi: Il grande viaggio (1971), Spazi interni o I vénti (1973), Poesia nella poesia (1977), Amore oscuro ( 1977 ), Il diavolo ha cantato a tempo ( 1981 ), Il futuro e l'imperativo della morte (1987, 1991).
Ha tradotto: Max Jacob, Consigli a un nuovo poeta; Henry Miller, Il tempo degli assassini; Boris Vian, Poesie.
Dal 1974 al 1976 ha diretto la rivista "I nea piisi" (La nuova poesia). Dal 1981 dirige, insieme con Thanasis Niarchos, la rivista "I Lèxi" (La parola).
Sue raccolte e poesie sono state tradotte in molte lingue.



John Taylor - L'oscuro splendore

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John Taylor - L'oscuro splendoreJohn Taylor - L'oscuro splendore - Mimesis Edizioni, collana Hebenon

Secondo libro di poesie, questo di John Taylor, tradotto in italiano dopo Gli Arazzi dell'Apocalisse, a parte il libro di prose brevi Se cade la notte (Joker Edizioni), tutti nella versione di Marco Morello. Bisogna ricordare brevemente, per chi non lo conoscesse, che John pur essendo nato negli States è uno scrittore molto europeo, non solo perché vive in Francia dal 1977 ma soprattutto perché ha con la cultura europea un rapporto strettissimo e profondo, che non è azzardato definire di vero amore. Traduttore di autori francesi o francofoni come Jaccottet, Dupin, Perros, Jourdan, Calaferte e altri, Taylor ha anche un forte interesse per la poesia italiana, che negli ultimi anni si è concretizzato in due eccellenti volumi antologici in inglese dedicati a Alfredo de Palchi ( Paradigm: New and selected poems, 2013 - v. ancheQUI ) e Lorenzo Calogero ( An Orchid shining in the Hand: Selected poems 1932-1960, 2015), entrambi Chelsea Editions. Da ricordare anche nella bibliografia di Taylor, sempre in riferimento al suo legame con la cultura europea, i suoi importanti lavori Paths to Contemporary French Literature, in tre volumi, e Into the Heart of European Poetry, tutti pubblicati da Transaction, oltre al più recente A Little Tour through European Poetry (2015).
Dunque come si vede John è davvero, sotto molti aspetti, uno scrittore europeo. E non solo per i suoi studi, ovviamente, o perché vive in Europa da lungo tempo, ma anche perchè quella cultura e quelle frequentazioni letterarie le ha accolte, quegli stimoli li ha fatti permeare nella sua scrittura creativa. Questa raccolta ne è una buona testimonianza, poiché mi pare vi si possa rilevare per prima cosa, almeno ad una prima lettura, una distanza dalla poesia contemporanea americana (per quanto essa sia una categoria troppo generica) non minore di quella che c'è tra le due sponde dell'Atlantico. Naturalmente questa affermazione va presa con una certa cautela, poiché John, al di là delle suggestioni culturali, elabora in questi versi una sua personale idea di poesia, una sua visione delle cose che certo trasmettono nei versi anche le sue origini ("frammenti di patria sbiadita") e i suoi studi, ma indubbiamente accoglie in pieno (poiché la ama) la lezione soprattutto dei suoi prediletti autori francesi. Una influenza che è sostanzialmente lirica e forse, sullo sfondo, simbolista, orientata a gettare sul suo personale mondo uno sguardo attento ma sufficientemente disilluso, che non guarda tanto gli "oggetti" quanto l'atmosfera, anche interiore, nella quale essi e l'autore sono immersi e si trovano ad esistere. Manca qui, tornando a quanto appena detto, quella"concretezza" anche un po' pragmatica che si ritrova in tanta poesia americana, quel confronto dell'uomo con la natura e l'ambiente, sia esso quello dei vasti spazi o quello urbano delle strade di New York (e tuttavia nelle "cose" - things - che qui troviamo c'è un pizzico di imagismo statunitense). L'uomo europeo, e con lui Taylor, guarda soprattutto dentro sé stesso, anche per tradizione filosofica e, per tradizione letteraria, almeno fin da Baudelaire e dai suoi eredi. In Taylor ci sono certo queste suggestioni e potremmo ritrovare anche molta della leggerezza malinconica e venata di ombre di Paul Verlaine, trasfusa in un linguaggio trasparente e aereo (talvolta un "verso scarno", come lo chiama Marco Morello) che ben trasmette inquietudini e interrogativi sospesi, alla ricerca di qualcosa che penetri l'"oscuro splendore". In questo ossimoro si cela il mistero stesso dell'esistenza di ciascuno, sempre esposta ad un imperscrutabile destino o al caso, al calare di una notte anche in pieno giorno, di una"luce striata di nero", che tuttavia, portando appunto in sé un arcano, non può che essere splendida per la mente del'uomo, e ineludibile per l'artista. Una dimensione crepuscolare (ma non nel senso letterario del termine, o non solo) in cui è presente la coscienza "che questo crepuscolo sarà oscurità / alla fine // un'assenza di luce // non questa mezza luce consolante / sopra la neve". C'è spesso nella poesia di John uno sguardo che tenta di penetrare l'incerto, trapassare una foschia reale o metaforica, andare oltre una marea che svela e nasconde fondali o scogli anch'essi simbolici, giungere fino a decifrare "iscrizioni / sul fondo del lago deserto" (Il fondo del lagoè la sezione principale del libro) che ha sommerso "qualcosa che era prezioso // i suoi bordi incerti smussati / dall'acqua". Come in un cerchio creativo, quell'"incerto" nebuloso (che è in ultima istanza ricerca di senso) che John cerca di diradare con i suoi versi, è lui stesso che lo tratteggia per mezzo di una scelta appropriata di termini "blurred", sfumati, deittici "vaghi" (qualcosa, talvolta, forse, tutto questo, come se solo allora) o interi versi ("eppure le onde // sono questo / e quello // e nessuno dei due // e uniche // anche se / vengono / e vanno"; "o semplice ombra // o miraggio // cosa si trova oltre // ma è difficile da guardare") che concorrono a dipingere questo"incerto" (vago, indefinito) e che, soprattutto a un lettore italiano, richiamano inevitabilmente certi stilemi, questi sì, del decadentismo, che tuttavia devono essere ricompresi in una matrice simbolista a cui tutta la poesia francese e europea attinge. C'è da dire che nella traduzione italiana questo senso di indeterminatezza viene in qualche minima misura accentuato, sia per una naturale scelta di termini legati alla cultura di chi traduce, sia - per fare un piccolissimo esempio - per l'eliminazione di elementi determinativi come gli articoli o i pronomi soggetto, in inglese sempre presenti. Ma, al di là di queste marginali considerazioni, la cosa importante è che il verso tayloriano derivante da tutto ciò è assai suggestivo, limpido, efficace nell'espressione e tutt'altro che incerto sui suoi obbiettivi, anzi perfettamente consapevole riguardo a ciò che intende dire a chi legge. Qualità che da un certo punto di vista risultano ancora più evidenti nei testi in prosa poetica, come John aveva già dimostrato ne Gli Arazzi dell'Apocalisse dove erano una gran parte, o nei frammenti (qui presenti nelle sezioni Il boschetto e Il recinto), brevi aforistici lampi illuminanti nei quali con grande piacere ho ritrovato echi e suggestioni di Pierre-Albert Jourdan, un grande autore a cui Taylor ha dedicato molto del suo lavoro ( The Straw Sandals: Selected Prose and Poetry - Chelsea Editions, 2011). Testi nei quali, potremmo dire per concludere, John trova unaintensa rarefazione. (g. cerrai)


Falling Upwards

Nous nous trouvions malgré tout au début mais aussi à la fin de notre
insertion dans le paysage

—Michel Fardoulis-Lagrange, L'inachèvement

every feeling
we feel ourselves feeling

this forest
this field

a few steps forward
or many

amid the spring sprouts
or the teeming undergrowth
shade beneath a canopy of trees

our will to reach
to see through

while the scorched clearing emerges
or the dark clearing
fallow mound
circle or square
formulas falling apart

chaos of points
motes of matter

falling upwards

to blank blank
space


Cadere in su

Ci trovavamo malgrado tutto all 'inizio ma anche alla fine del nostro
inserimento nel paesaggio

— Michel Fardoulis-Lagrange, L'incompiuta

ogni sentimento
che ci sentiamo sentire

questa foresta
questo campo

pochi passi avanti
o molti

in mezzo ai virgulti primaverili
o il brulicante sottobosco
ombra sotto una volta di piante

la nostra volontà di arrivare
di vedere attraverso

mentre emerge la radura bruciata
o la radura scura
collina incolta
cerchio o quadrato
le formule crollano

caos di punti
particelle di materia

che cadono in su

verso lo spazio
vuoto




The Thicket

no paths; or paths; no chosen path

*

or both paths equally traveled by. where the wood had stood, and
burnt, now high grasses, shrubs, scarred trees. signpost at this
divergence. hazy sky offering the same perspective, whether one
veers southwest or southeast

*

sunlight in the high branches, among the blossoms, but this—mere
eyesight. the dark path below

*

sunlight falling on the farthest field. here and now sown by the
shadow of death

*

seeking winter, a leafless thicket that can be peered through

*

leaves, bony branches, doomed to drop

*

only the remembrance of leaves lifted up by the wind

*

eyes still drawn to those highest-reaching rooted trees

*

up trunks, onto branches; dangling, with an impression of
levitation

*

better to venture willingly into what offers no immediate beauty,
no obvious geometry

*

as if at dawn, an impenetrable thicket could suddenly comfort with
its own hidden coherence


Il boschetto

nessun sentiero; o sentieri; nessun sentiero scelto
o entrambi i sentieri ugualmente percorsi. dov'era il bosco, poi
bruciato, ora erbe alte, cespugli, alberi sfregiati. indicatori di
questa divergenza, cielo nebbioso che offre la stessa prospettiva,
virando sia a sudovest che a sudest

*

luce solare sui rami alti, tra i fiori, ma questa—pura vista. sotto, il
sentiero oscuro

*

luce che cade sul campo più lontano, qui e ora seminato dall'ombra
della morte

*

cercando l'inverno, un boschetto spoglio per spiarci dentro

*

foglie, rami scheletrici, destinati a cadere

*

solo il ricordo di foglie sollevate dal vento

*

occhi ancora attratti da quegli altissimi alberi radicati

*

sui tronchi, sopra i rami; sospeso con un'impressione di levitazione

*

meglio avventurarsi volontariamente in ciò che non offre né
bellezza immediata, né ovvia geometria

*

come se all'alba, un boschetto impenetrabile potesse
improvvisamente confortare con la sua stessa celata coerenza




da Il fondo del lago

threads ropes cables
floor plans
corroded names

left behind

wandering amid the debris
you overturn with your toe
an effaced negative

draw a line through the past
to another present

so little stands

a layout
something estranging you

this place lost forever
is your homeland

the roads and byways
form a net

or it resembles your heart
with its dark edges

*


fili funi cavi
planimetrie
nomi corrosi

lasciati indietro

vagando fra i detriti
capovolgi coll'alluce
un negativo cancellato

tiri una riga dal passato
a un altro presente

così poco resiste

un progetto
qualcosa che ti estrania

questo posto perduto per sempre
è la tua patria

le strade e le vie traverse
formano una rete

o assomiglia al tuo cuore
coi suoi bordi scuri

*


what seemed sturdy
full
rounded shape
neither skeleton
nor structure

was mist

or sunlight
projected onto a memory
until then dark and mostly forgotten
like the final darkness

now another shape
nameless and luminous
rises in front of you

it seems lit by some hidden source
of light

until it shows itself

to be only mist

or sunlight beamed out
from a fire

nothing but fire

*


ciò che pareva forma solida
piena
arrotondata
né scheletro
né struttura

era foschia

o luce solare
proiettata su un ricordo
fino allora oscuro e in gran parte dimenticato
come l'oscurità finale

ora un'altra forma
ignota e luminosa
sorge di fronte a te

pare illuminata da qualche fonte di luce
nascosta

finché non si rivela

essere solo foschia

o luce irradiata
da un fuoco

nient'altro che fuoco

*




da Onde

a patch of dark sea
seaweed
rock

or mere shadow

or mirage

what lies ahead

yet it is hard to watch

just the water
the waves
what lies ahead

the shadows

they are not shadows
they are shadows

cast from clouds
onto the restless water

*


una zona di mare scuro
alghe
scogli

o semplice ombra

o miraggio

cosa si trova oltre

ma è diffìcile da guardare

solo l'acqua
le onde
cosa si trova oltre

le ombre

non sono ombre
sono ombre

gettate dalle nuvole
sull'acqua irrequieta

*


Gabriele Galloni - In che luce cadranno, nota di G.D.V.

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Gabriele Galloni corre da sologabriele galloni - in che luce cadranno

Metto le mani avanti. Non sono giovane e non sono poeta, benché qualche mio verso sia stato tempo addietro (tanto!) fortuitamente accolto in riviste come Nuovi Argomenti o Paragone – e chi si ricorda la gloriosa Il cavallo di Troia?

Non sono dunque poeta, ma appassionato lettore indubbiamente sì. E ancora oggi, tra acciacchi di ogni tipo, mi avventuro quotidianamente nella giungla delle nuove pubblicazioni poetiche. Prediligo i giovani, perché di leggere i quarantenni o i miei coetanei poco mi frega.

Leggo i giovani perché cerco, leggendoli, di provare ancora un poco l'invidia che a vent'anni mi spingeva a voler superare tutto e tutti.

Io non ci sono riuscito mai. Gabriele Galloni sì.

In che luce cadranno (RPlibri, 2018)è stato, dapprincipio, il consiglio svagato di una cara amica poeta. Poi, a lettura ultimata, il libro che ha ridefinito per me il concetto di Sacro. E non esagero: per giorni ho meditato sulla musica di Galloni come qualcun altro avrebbe potuto meditare sul Libro dei Salmi o sul Talmud. Meditazioni circolari, da sbronza apollinea più che dionisiaca.

Possibile, mi sono detto, che un ventiduenne, un millennial come si dice oggi, sia stato in grado di sondare queste profondità? E chi gli ha permesso di portare con sé questi detriti di lune sconosciute? A quali e quante divinità ctonie ha chiesto udienza?

Invidio profondamente Galloni, non lo nascondo. Molto ho rimesso in discussione con il suo libriccino. Ho pensato che una qualunque Verità ultraterrena, su noi e sui nostri predecessori, l'avesse colta ed espressa meglio lui in quaranta brevi poesie che migliaia di filosofi pensatori e teologi in tomi e tomi d'angoscia. Ma un poeta non è portatore di Verità – e sono certo che a Galloni dispiacerebbe questo mio volo pindarico; forse ne riderebbe.

La cosmogonia galloniana non ha universi altri di riferimento. Immagino quante salme, sue e solamente sue, lo abitino giorno e notte. I suoi amati corpi che, ritornati alle cellule, rinascono nella luce abbagliante di un verso perfetto, di un fulmen in clausola che tutto ribalta come nel gioco dei dadi, nello scherzo tragico di un baro caravaggesco.

In che luce cadranno parte dall'epigramma (sfiorando sovente la narrazione), attraversa l'idillio e approda a un obliquo teatro della coscienza. Su tutto il libro, inestinguibile, quella che Baeumker teorizzò come Metafisica della Luce. Non mi sovvengono paragoni contemporanei con il lavoro di Galloni. Forse i suoi parenti più prossimi sono i lirici greci da bambini; forse certi mistici medievali le cui opere non sono mai giunte a noi.

Un libro importante, In che luce cadranno. Tra i più rilevanti di questi ultimi anni e della sua generazione. Poi staremo a vedere. Per ora, la poesia italiana ricomincia anche da qui. (Giovanni D.V.)


***


I morti tentano di consolarci

ma il loro tentativo è incomprensibile:

sono i lapsus, gli inciampi, l'indicibile

della conversazione. Sanno amarci

con una mano – e l'altra all'Invisibile.


***


Si parlava dei morti. Sulla tavola

i resti sparsi della cena – quelle

bistecche appena cotte. Il frigorifero

in segreto colloquio con le stelle.


***


Così un giorno, per caso,

i morti costruirono

il primo cimitero sotto il mare.

Se ne dimenticarono

in un tuffo soltanto.


Gabriele Galloniè nato a Roma nel 1995. Studia Lettere Moderne all'Università La Sapienza. Ha pubblicato Slitta­menti (Augh Edizioni, Viterbo 2017) con una nota di Anto­nio Veneziani.



Antonetta Carrabs - L'incendio dell'amore, nota di Rita Pacilio

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L’incendio dell’amore di Antonetta Carrabs, LVF, 2017L’incendio dell’amore di Antonetta Carrabs

Versi, luoghi intimi, sonorità sono gli elementi portanti che costituiscono la raccolta poetica di Antonetta Carrabs dal titolo L’incendio dell’amore, LVF, 2017. La messa a fuoco del sentimento più nobile, l’Amore, segnala il bisogno di considerarlo come un valore sociale, etico, eterno. È la coscienza di tutti i tempi che si mette al servizio del corpo e viceversa per favorire il massimo grado di concentrazione sull’interno/esterno, divino/materia, un circuito che avvampa e si prende cura, in versione poetica, delle stagioni che fioriscono e rifioriscono grazie alla fiammata dell’illuminazione/ispirazione. Questi versi sono torce analogiche in cerca di struggimento e passione, in continuo cammino verso luoghi e atmosfere emozionali. Il vessillo del sangue aleggia potentemente sul mistero che accosta lo spirito alla carne. Un emblema che trasmette al lettore l’elevazione dal quotidiano in maniera certa, grazie all’incontro straordinario, che inevitabilmente accade, tra persone/personaggi che si amano. Affini. Autentici, fragili. (rita pacilio)



Continua a leggere "Antonetta Carrabs - L'incendio dell'amore, nota di Rita Pacilio"

Henry Bataille - poesie, a cura di Emilio Capaccio

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henry batailleHenry Bataille , ovvero Henry Felix Achille Bataille, nasce a Nîmes, nella regione dell’Occitania a sud della Francia, il 4 aprile del 1872.

Il padre, Léopold Bataille, e la madre, Alice Mestre-Huc, erano di famiglie borghesi e originari del dipartimento dell’Aude. All’età di 11 anni, mentre studia a Parigi, perde prematuramente il padre, che in quel periodo ha un incarico di magistrato presso la corte di appello di Parigi, e 2 anni più tardi perde anche la madre. Il giovane Bataille viene allevato dalla sorella, Marguerite e dal marito, Ernest Blagé, direttore di una delle più antiche compagnie ferroviarie francesi. Dimostra fin da bambino un talento per il disegno e la pittura. Con l’aiuto dei suoi tutori intraprende a Parigi gli studi artistici, presso l’‘École nationale supérieure des beaux-arts’ e l’ ‘Académie Julian’, ma al contempo si appassiona anche di letteratura e di poesia.

Pubblica nel 1895, su incitamento dell’amico Marcel Schwob, la sua prima raccolta di poesie dal titolo: La Chambre Blanche, caratterizzata da uno stile che oscilla tra decadentismo e simbolismo, tra malinconia e disillusione del soggetto poetico. La vhenry batailleera svolta avviene nell’ambito teatrale, in particolare con opere contraddistinte da grandi drammi passionali e conflitti morali, come:Maman Colibri (1904), La Marche Nuptiale (1905),La Femme Nue (1908), Le Scandale (1909), La Vierge Folle (1910), L’Enfant de l’Amour (1911), che gli valsero una grande popolarità, la rappresentazione nei teatri più prestigiosi di Parigi e a Broadway, oltreché molte trasposizioni cinematrografiche.

Si lega sentimentalmente a grandi attrici di teatro dell’epoca. Spesso furono proprio queste donne a interpretare le sue opere, come nel caso di Berthe Bady e soprattutto di Yvonne de Bray che gli resterà accanto fino alla morte. Molti intellettuali della Belle Époque ammirano il suo teatro, primo fra tutti Louis Aragon, che si ispira a lui per il personaggio del suo romanzo: Les Cloches de Bâle (“Le Campane di Basilea”), pubblicato nel 1934.

Tra le raccolte poetiche di Bataille, si ricordano, oltre La Chambre Blanche (1895), Le Beau Voyage (1904), La Divine Tragédie (1907), La Quadrature de l’Amour (1920).

Muore in seguito a un’embolia, a Rueil-Malmaison, nel dipartimento dell’Hauts-de-Seine, nella regione settentrionale della Francia, presso la sua tenuta: “Vieux Phare”, il 2 marzo del 1922. Viene sepolto nella cripta di famiglia a Moux nel dipartimento dell’Aude.


Presentazione e traduzione a cura di Emilio Capaccio



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Stelvio Di Spigno - Fermata del tempo

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Stelvio Di Spigno - Fermata del tempo - Marcos y Marcos, 2015

Di Spigno, come ad esempio De Lea (v.QUI , - ma con altri esiti, altre tonalità, un dStelvio Di Spigno - Fermata del tempoiverso uso plastico della lingua), è poeta in cui la scritturaè ricerca di rassicurazione e identità. Lo è per diversi aspetti, a cominciare dal suo "sforzo di frenare o addirittura di arrestare il flusso del tempo, di illuminarne una fermata" (Umberto Fiori in prefazione), il che mi pare significhi, anche alla luce dei testi di questo libro, non solo una ricognizione per momenti e luoghi topici della propria vita, ma anche la ricerca in essi del proprio essere attuale. E' in altre parole un ragionato ritorno a casa (dovunque in realtà essa sia), in cui però la nostalgia ha un'importanza relativa, è più motivo lirico/elegiaco che epico o tragico, poiché mi pare vi manchi un'eco lancinante, come se Di Spigno di quella "casa" riconoscesse più la forza evocativa e identitaria che la sua mancanza. Luogo che tuttavia certamente non "sembra proprio una casa qualunque e indolore" (in La nudità, Pequod, 2010, v.QUI ), una specie di disperso, molteplice e personale "posto delle fragole" su cui Di Spigno posa uno sguardo essenzialmente rivolto al passato, facendo un po' il punto della propria vita. Se il tempo ha un senso, quindi, - e qui sta parte della rassicurazione - , è per il suo essere storia e replica (come rappresentazione) di eventi e luoghi (Roma, Gaeta, Napoli, Anzio, la Calabria...) per così dire filogenetici, di cui cioè il poeta reca traccia in sé. E poiché storia è narrazione di sé stessa e di chi trascina con sé, ecco che ne consegue naturaliter la scrittura che Stelvio ritiene più adatta, un flusso di cui avevo già parlato brevemente a proposito de La nudità, appunto narrativo, a volte ipertrofico, a volte predittivo, e in cui, come accennavo prima, trova talvolta il suo spazio anche l'elegia pura, quasi foscoliana, come ad esempio in Faville, ma con un certo equilibrio (ha ragione ancora Fiori in prefazione) e poco timore di lanciarvisi pur col rischio calcolato di qualche sbandata, conoscendo come un pilota il suo mezzo, le sue parole. In un certo senso Di Spigno cerca e trova un'altra rassicurazione proprio in questa lingua in cui quel che devi dire e la forma in cui lo dici sono indissolubili, nella quale cioè elemento fàtico e funzione poetica sono così fusi che il carattere lirico/elegiaco vi trova la sua collocazione naturale, non extra ordinaria. Ne è così convinto che a volte si allunga e dilunga, come già avveniva ne La nudità, non è poeta che lavori per sottrazione, tende semmai a non buttare via niente di quel che ha da dire, fossero anche i nomi di persone e luoghi che risuonano, per ovvie ragioni, solo per lui. Sia i luoghi che la scrittura sono per Di Spigno, a mio avviso, spazi mentali o ricordi "affidabili", che è necessario in qualche modo non tradire, omaggiando e rinovellando i primi con la seconda, anche con una certa maestria lessicale, con una capacità connotativa e a volte esornativa del "fatto" che tende a dare una certa aura "mitica" all'oggetto del poetare, ma che crea in definitiva una tessitura di rilievo. Quando Stelvio riesce ad allentare un po' la pressione sull'acceleratore del dire, a favore di una emotività meno mediata, consegue gli esiti più alti come quelli (v. Il distacco) contenuti nella sezione Generazione mortale, a mio avviso la migliore del libro insieme  a Le radici sepolte.

A pensarci bene più che di nostalgia o di ritorno ai lari, di tratta di malinconia/rimpianto, spesso con uno schema classico e abbastanza ricorrente di enunciazione/ipotiposi del ricordo seguita da una ripresa attualizzante/riflessiva ("Eppure quando torno...", "E ora eccomi qua...","Ma intanto passano i treni...", "Qui ho vissuto tra gente...", "Ora io ti penso...", "L'alba ride come allora...", "Ecco cosa ripetono i miei anni...", "Li rivedo in lontananza...") con un andamento leopardiano, come ne La quiete o ne La vita solitaria per capirci, che si ritrova anche in un uso esteso del verso libero ipermetrico che già avevo notato a suo tempo, segnato più da spezzature che da enjambement significativi (ma vale la pena rimarcare anche qualche eco pasoliniana, come in Trastevere ore quindici). Tutto sommato quello di Di Spigno non è un mondo particolarmente complesso, perché non è particolarmente moderno (e nemmeno postmoderno), descrive - spesso molto bene - dinamiche intime su sfondi che, al di là della geografia, da un punto di vista lirico potrebbero essere ovunque, salta a pie' pari (per fortuna) tutti i mugugni della crisi dell'uomo di oggi di fronte al nulla, preferendo cantare le sfumature di un esistenzialismo semplice. Entro il quale, in una prospettiva ben definita, contenuta nelle due direttrici passato/presente che tendono a riprodursi (il presente è già un passato), l'individuo/poeta si pone come custode di una memoria che aspira ad essere"non per rimpiangere, piuttosto per sapere dove andare". Cioè una memoria non lapidaria, malleabile. Ma, dice l'autore, "siamo una specie senza predizione", cioè senza futuro, senza contare che "il tempo non avanza di un momento". Solo la poesia (ed è la fede di Stelvio) può sperare di risolvere una tale aporia. (g.cerrai)



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Writing surrealism, nota di Elisa Castagnoli su "I rivoluzionari del 900", in mostra a Bologna

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Duchamp - LHOOQ (Elle a chaud au cul) - 1919Writing-Surrealism (suggerito dalla mostra "I Rivoluzionari del 900", Palazzo Albergati, Bologna)

Uno degli aspetti più interessanti della sperimentazione surrealista_ tale che essa appare rivisitata nella mostra bolognese, "I Rivoluzionari del'900" attualmente a Palazzo Albergati_ è la ricerca di un automatismo nella creazione, nella “scrittura automatica” per esempio, modalità che libera l’artista o il poeta dal controllo della ragione intesa come quella gabbia di pensiero positivista borghese o del retaggio asfittico di una certa tradizione estetica in inizio ventesimo secolo. L’automatismo, permettendo di eludere il controllo della coscienza, costituiva una via privilegiata per attingere a una sorgente più antica, perlopiù inconscia e liberare in questo modo radicalmente l'arte dai vincoli della realtà quotidiana. L’artista doveva semplicemente limitarsi a lasciar affiorare le linee e le forme quasi casualmente nei disegni automatici di Arp e Masson, nell’universo di segni primitivi di Joan Mirò o diversamente nelle solarizzazioni e sovrapposizioni fotografiche di Man Ray. Il surrealismo, liberando in tal modo il potere dell’immaginazione, intendeva riallacciarsi direttamente alla sfera del sogno, dell’inconscio, in qualche caso all’allucinazione prodotta dalla follia o al tutto possibile del gioco d’infanzia.

Nella scrittura automatica, secondo Breton, l’intento surrealista del poeta è quello di ottenere “ la rivelazione istantanea di tracce verbali la cui carica psichica si comunica direttamente al sistema percettivo-cosciente”. Gli accostamenti sorprendenti di soggetti su una tela, la scrittura prodotta da sensazioni, memorie o idee in libera associazione o gli incontri fortuiti con gli “oggetti trovati” sono alcune delle vie percorse dal surrealismo per infondere nuova linfa vitale alla creazione artistica di inizio novecento. Vorremo leggere qui di seguito alcune delle opere viste a Palazzo in senso surrealista giustapponendo immagini e parole con una simile libertà espressiva scaturita dall' incontro fortuito tra la scrittura le linee, le forme i e colori.

Joan Mirò, “Women and birds”

“Comincio a dipingere e la forma diventa indice di qualcosa”




“E’ la traccia grossolana lasciata da un colpo di spatola nero, una pennellata spessa e corposa su una tela bianca. La neve si riempie di forme guizzanti, colorate e libere in un mare cromatico e gioioso, fluttuante sullo sfondo. Chiazze di colore primario entrano in lotta tra loro come degli opposti attraendosi e respingendosi senza sosta: rosso ardente e infuocato, verde genuino, giovane e rigenerante, giallo vivido e splendente, blu intenso e oltremarino. Al di sopra, una nera impronta si avvolge a spirale, la trama di un gioco avverso del destino; una nuvola oscura si propaga attraverso la tela, sopra il taglio netto di una corda avvinghiante che si annoda su sé stessa fino a soffocarla. Si viaggia attraverso i sensi nel campo magnetico creato sullo sfondo dai colori primari: giallo, sensuale forza di vita, rosso essenza-radice, blu oltremare, azzurro etereo, celestiale come il vagare di una mente nel sogno, poi la traccia nera a raso, esposta e barrata in esterno sul bianco candore. Esplosione violenta di un tratto che marca irreversibile e essenziale.


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Bloatware I, una strenna natalizia

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Strenna natabloatwarelizia, e per di più gratis: Bloatware I - Incrostazioni (o dell'amor molesto), un libretto. Trattasi di giuoco o sberleffo se preferite, di/a/da/in/con/su/per/tra/fra la poesia come materia più malleabile di quanto possa sembrare e contemporaneamente materiale di scarto, garbage, déchet, rumenta - sia detto con tutta la simpatia possibile verso i poeti, me compreso. Un minuscolo cut 'n' paste nato da perplessità, soprassalti e divertimenti ricevuti nella maggior parte dei casi da poesie di terzi che mi è stato chiesto di leggere in varie occasioni. Frammenti autentici estrapolati e rimontati a piacere ironicamente et sine iniuria.  Non so se avrà un seguito, ma roba ce ne sarebbe.

Trovate il pdf  QUI.  A tutti auguri di buone feste.




La parola liberatoria, nota di Rita Pacilio

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La parola liberatoria nasce nella nostra coscienza. Si accresce, ininterrottamente, di epoca in epoca, per superare i luoghi comuni dellaconfessione personale e trasformarsi in coralità conoscitiva della materia linguistica. È la ricerca del vero che muta e (incupisce o illumina?) il patema di essere vivi nell’estro creativo dell’esistenza. Per questo motivo occorrono simboli autentici e spontanei per ipotizzare e/o negare esempi tematici e stilistici. Alcuni autori viventi mantengono valido e saldo questo assunto senza manifestare il narcisismo di artista, né manomettere il moralismo. La parola detta di Stefania Di Lino– La Vita Felice, 2017, ne è testimonianza. Il ricordo, il tempo, la resilienza, si connettono con la sperimentazione del verso che va oltre il noto e prevedibile schema novecentesco. La lingua prende forma e definizione in una tensione narrativa e narrante come una trasformazione genetica: il rigo contiene l’essenzialità del reciproco senso quotidiano e, nello stesso tempo, pause/respiri (la punteggiatura ha il suo perché) dettati dal mistero dell’interiorità e dal suo movimento verso l’esterno. Poesie pregne di problematiche umane sentite/lette nello stato profondo delle cose, con impegno etico, con grazia, riconoscenza.


pianta casuale caduta dal cielo / negli interstizi angusti di una crepa / tra sassi inerti / depositati
tra rotaie / che stringono attorno / come fosse lapidazione / eppure in alto va / eppur si muove
nell’atto leggero del volare / che non si adegua al passo greve della terra / se orizzontale è il gesto
largo della semina /orizzontale fui io /e mi feci letto e mi feci sponda / pronta ad accogliere il seme


orizzontale dunque fui / e parallela alla terra /ma verticale è la pianta nata / che in alto il suo stelo
tende / ed è albero che come mani / in alto allunga i suoi rami / infinita ingenuità c’è nel crescere /
e nel portarsi avanti con la vita / una gentilezza tenera e sacrale / una proiezione che si nutre del
domani / e nel domani crede e spera,


Stefania Di Lino nata a Roma, dove vive e lavora. Allieva dello scultore Pericle Fazzini, e del poeta, critico d’arte Cesare Vivaldi, presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, si specializza alla Calcografia Nazionale del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, e si abilita all’Insegnamento per i Licei, occupandosi anche di formazione. è presente da anni in numerose manifestazioni artistico letterarie, coniugando spesso la parola con l’immagine in opere di Visual Poetry. Da anni partecipa a reading pubblici di poesia. Nel 2012 pubblica la sua prima raccolta di poesie Percorsi di vetro (DeComporre Edizioni). è presente in numerose antologie e riviste letterarie, tra cui I fiori del male (2016). Con un suo testo critico partecipa al X Festival Mondiale di Poesia, Caracas, in Venezuela; nel 2014 alcuni suoi testi vengono selezionati dall’unesco di Torino, per la giornata de «Etica Globale e Pari Opportunità: il contributo delle donne allo sviluppo dell’Europa e del Mediterraneo», pubblicati e tradotti in diverse lingue. Nel 2015, nell’ambito del programma dedicato alla Rassegna Poetica, presso la Galleria Biffi di Piacenza, con il poeta Franco Di Carlo, partecipa con una sua performance denominata Dialoghi poetici



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Viola Amarelli - Il cadavere felice

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Viola Amarelli - Il cadavere feliceViola Amarelli - Il cadavere felice - Edizioni Sartoria Utopia, 2017

Torno a parlare di Viola Amarelli, che trovate su IEin altri post , perché mi piace come scrive e come pensa, semplicemente. Inoltre questo "cadavere" è anche un oggetto che ha una sua presenza materica, essendo stato cucito artigianalmente dalle Sarte Utopiche Manuela Dago e Francesca Genti, e lo vedi sgomitare tra gli altri libri della libreria con lo spessore delle sue cuciture. In più tende anche a sottolineare la magnifica inutilità della poesia, perché vive in pochi esemplari ed è orgogliosamente fuori da certi processi produttivi. È quindi, in questo senso, un oggetto estetico, oltre che artistico, qualcosa che si pone consapevolmente fuori dalle mappe.
Ah, sì, le mappe. Perché lo dico? C'è qualcosa che assilla (o solamente interessa) Viola Amarelli, e mi pare che sia la ricerca e possibilmente la scoperta dell'essenziale che è possibile dire con il linguaggio che ci è concesso in dote, depurando il linguaggio stesso dai fronzoli che ne costituiscono il velame primario. Fronzoli che sono anche di fatto culturali, prodotti di una esondazione del mondo sulla scrittura, in sostanza alibi quando si rigetta la fatica di sezionare il reale preferendone il topos o la mera rappresentazione. Scrive Viola:

[gli accademismi, le traduttologie, le lectiones serpentiformi,
i periodi uroborici, l'armamentario lulliano, il bilame
del computo binario, disegnassero almeno una traccia, una via di,
un sentiero, altrimenti di bravi, bravissimi, ce ne sono già tanti]

È evidente la critica, in primis della poesia stessa, ma anche la critica della critica. Almeno come espressioni del linguaggio, non tanto come mezzi in sé, visto che tuttavia alla poesia Viola ancora crede. È che l'essenzialità dell'espressione è essenzialità del pensiero, soprattutto nel momento in cui la rozza materia linguistica diventa, come una amigdala di selce, uno strumento. Che deve essere infine consumato:

le parole sono pietre.

tu scheggiale

fino a che non diventano sabbia, polvere.

fine.

Be', qui entrerebbero in gioco altri fattori, diciamo così ideali, a parte quella chiusa che può essere intesa in diversi modi. Uno di quei fattori è che rarefazione del dire, frammentazione del verso, sospensioni sintattiche e altro ancora non sono iconografia nichilista, o rappresentazione di una realtà sfuggente e spappolata, o balbettio stupefatto dell'uomo. Sono semmai ammiccamento, anzi avvicinamento al silenzio come perfezione inattingibile, come forma d'arte suprema, o mistica. Naturalmente Viola sa bene che esiste un punto di rottura in questo avvicinamento, un culmine oltre il quale tutto precipita nel vuoto. Come scrittrice, perciò, cerca di raggiungere semmai l'arte di avvicinarsi al limite e ritrarsi, e questo significa, ancora una volta, depurare la parola mantenendone da una parte intangibile il senso, per qualunque orecchio, e dall'altra dandole un riverbero disvelante o sapienziale (ma siamo ormai lontani da Notizie dalla Pizia). Il limite fascinoso è, in altre parole, una scarnificazione "pulendo all'ossoessenza / quello che resta, quel che m'interessa". Processo consapevole quindi, mentre di converso il cadavere felice, come spiega la poesia eponima, è chi non sa di essere morto, come un arto fantasma che si illuda di afferrare brandelli di vita, mentre invece ha subito o accarezzato "uno sciame di mediocrità". Nella visione di Viola, critica del linguaggio e critica della mediocrità umana ("l'imbecillità dilagante") si sovrappongono, anzi sono indistricabili, perché è nel modo di dire, nella costruzione facile, nel sintagma assestato nella consuetudine (gli stessi che Amarelli talvolta destruttura ironicamente) che precipita la dismissione del pensiero.

Composto di cinque capitoli ( narrazioni, cronache, dèmoni, fantasmata e cerchi), la maggior parte dei quali inclusi, in tutto o in parte, in Fantasmata e altri inediti di cui avevo già parlato QUI (e quindi rimando anche a quel post, a quanto scrissi e alle poesie ivi contenute), il libro appartiene a quel genere di poesia che se ne frega altamente di essere lineare o assertiva, che cerca uno stile non autotelico (lo scopo in sé) e che se fa ricerca (termine che noterete ho usato solo una volta prima d'ora) è proprio per trovare qualcosa, non foss'altro, al bisogno, come scrivere "una poesia semplice" (trovate il testo nel post sopra citato) o il modo di confrontarsi a testa alta con le cose, ancora le"nudecrude cose" che, loro sì, "se ne fottono o, più esattamente, restano imperturbabili", o con la presenza sempre sotto traccia della morte, tenuta d'occhio e di conto, ma da una distanza "spirituale" e tutto sommato disciplinata. Ecco, credo che questo sia un concetto appropriato, applicabile su più versanti, sul lato soleggiato e sul lato in ombra della collina, per dirla in termini che Viola potrebbe apprezzare. Ovvero su quello della scrittura, per ciò che abbiamo detto prima ma non solo, la cui sintesi espressiva, rarefatta e contundente insieme, non viene contraddetta dai testi più lunghi, quelli ad esempio che è possibile leggere nella bella sezione cerchi; e sul versante dello sguardo, specie quando rivolto all'esterno, come alla sua città e alla gente (qualche esempio ancora in cerchi e nelle poesie contenute ne La disarmata - v.QUI ), sguardo sempre selettivo negli elementi, pochi e fondamentali, che vanno a comporre un'immagine che oserei dire compassionevole e partecipata di un comune destino di impermanenza (purché non si parli di imbecilli, naturalmente! o di certi orrori della modernità). È in fondo la disciplina della misura, che non è ritegno né understatement, è caso mai consapevolezza dei limiti e dei confini, anche di quel silenzio che la stessa parola poetica contraddice, proprio nel momento in cui lo prefigura: "le belle parole / le giuste / le sufficienti / quelle necessarie / finiscono nello stesso / punto dove nascono. / il silenzio - sipario". Nel frattempo però... (g. cerrai)



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Elia Malagò - Lalange

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Elia Malagò - LalangeElia Malagò - Lalange - Ed. Fuocofuochino, 2017

Eccolo qua, un altro libriccino artigianale, quasi fatto a mano, un'esile creatura di cinque fogli A4 piegati in due e spillati, stampati dalla "più povera casa editrice del mondo", messa su da Afro Somenzari in quel di Viadana ( www.fuocofuochino.it ), con un catalogo che, insomma, mica male. Se nel caso di Viola Amarelli la tiratura si attestava su 120 esemplari numerati (v. post precedente), qui siamo all'edizione speciale numerata in venti copie, tutte autenticate da "un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova l’originalità". Ma non siamo al minimalismo, né allo snobismo, né al samizdat. Sono "solo" entità poetiche che amano manifestarsi così ai nostri occhi.

Di Elia Malagò  ho già parlato qualche volta (v. QUI), sebbene non quanto avrei voluto e dovuto sia per il suo valore sia per l'amicizia che mi ha sempre dimostrato. Valore che questo libretto non smentisce, nella estrema sintesi delle sue sette poesie, nella raffinatezza del versificare, nella trasparenza della scrittura, sempre costante da molti libri a questa parte. "Lalange  è un refuso della memoria di lalangue  con cui ciascuno si parla", scrive Elia in una nota. Sappiamo a cosa allude: in primis, al di là del rimando culturale, a quel "resto di una lingua cancellata" di cui parla Antonio Prete nella brevissima introduzione. Cioè qualcosa che va (come solo poeticamente è possibile fare) oltre il neologismo di conio lacaniano che, come altre idee dello psicanalista francese, si presta a interpretazioni ed equivoci che qui non ci interessano. Il refuso/lapsus in questo contesto prende la sua rivincita, guarda caso freudianamente verrebbe da dire, sulla "tecnica" lacaniana (cioè qualcosa che è interno alla disciplina), perché viene da qualcosa di più profondo e personale che nemmeno avrebbe bisogno di definizioni, dalla memoria. Niente è per caso. Se lalangue  è la lingua preverbale, quella abitata dal corpo e con cui il corpo si parla, se è l'aspetto primevo e materno della comunicazione, il refuso ci dice che la poesia ha già agito su di essa, raddolcendola e riportandola al livello simbolico che è proprio del linguaggio. Qui lallazioni, incertezze, regressioni non ce ne sono, o almeno non servono come idoli sperimentali. Ci sono eventualmente invenzioni/restauro di parole dai molti echi (frastorno, rabbiume, sfrombolata, calenda, garbino, verbi come guazzano, insalano), cioè - mi pare - recuperi di "antichi lallalli spersi nel deserto". C'è ancora quello che avevo scritto a proposito di Golena, "è certo che in quanto a parole Elia lascia poco o nulla al caso, la sua è una scrittura esatta", senza nessun tipo di compiacimento. C'è ancora la limpidezza dello sguardo con cui Elia osserva le cose, la sua pianura, sempre presente anche quando non espressamente evocata, e le idee. E tuttavia la riflessione sulla lingua c'è ed è l'oggetto principale di questi versi. Ma, a differenza di altri esempi rinvenibili nella poesia contemporanea, Elia non ne fa metapoesia, cioè non pensa alla sua lingua concettualmente. È semmai una riflessione radicale, proprio nel senso di una "liberazione" alla radice della parola, di un suo "etimo" implicito, perfino di una sua "blasfemia", ovvero di una rottura violenta del canone. Il punto è che Elia sa, o si domanda, se da qualche parte c'è una lingua cancellata, un idioma di cui rimane qualche segno, qualche "chiodo". Se scrive "ho dimenticato la lingua del pianto" non vuole dire che non sa più descrivere il dolore col linguaggio ma che il linguaggio del pianto non risuona più a dovere in lei, e c'è necessità di qualcosa che potremmo definire empatia del sé. La lalangue  lacaniana? Forse, ma qui si tratta se permettete del primato della poesia, come linguaggio specifico. Non si tratta di sciogliere un nodo psicoanalitico, si tratta di attingere a profondità diverse da quelle meramente psichiche, scendere al di sotto di certe superfici, recuperare un livello di comunicazione senza orpelli salvandone nel contempo la carica poetica. La ricreazione di una nuova lingua "esatta", ciò che ha tutta l'aria di essere un'evoluzione. (g. cerrai)


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Elia Malagò, due plaquettes - Addendum a Lalange

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Per espresso desiderio dell'autrice, che ringrazio, pubblico conElia Malagò grande piacere, in aggiunta al post del 6 gennaio dedicato a Elia Malagò, il testo completo della plaquette lalange da cui avevo estratto solo due poesie, con la prefazione di Antonio Prete, seguito dall'altra breve raccolta pubblicata sempre da Fuocofuochino nel 2015, dal titolo del disamore, con prefazione di Zena Roncada. Entrambe le plaquettes dovrebbero rientrare, insieme a diversi altri testi, nel prossimo libro a cui Elia sta lavorando con impegno da qualche tempo, un lavoro che personalmente attendo con grande interesse. Con l'occasione ringrazio anche l'editore Afro Somenzari per la sua amichevole disponibilità.


lalange


La poesia di Elia Malagò è resto di una lingua cancellata. Un restoche prende respiro e energia, e sale verso la libertà dell’immagine e verso la parola essenziale e necessaria. In questo movimento, aspro e dolce insieme, la lingua porta con sé un sentire che conosce la ferita, il limite, lo scacco del desiderio. Un sentire che sa sporgersi
sul vuoto di senso, sul dolore del mondo, su quel “pianto disseminato” che è poi la storia degli uomini. Con questa nuova lingua – la riconoscibilità del poeta è proprio nell’edificazione di una nuova lingua, quella “langue nouvelle” di cui diceva Rimbaud – la poesia di Elia Malagò può farsi interrogazione del visibile, e allo stesso tempo dialogo con il visibile, con il suo mostrarsi e il suo nascondersi, con il suo distendersi nel paesaggio fluviale e il suo ritrarsi nell’aridità. Un universo stranito, opaco, doloroso prende campo: parvenze di quel che è assente, frammenti di una memoria d’infanzia che non lascia detriti ma corpi e gesti e luoghi vividi nella loro lontananza, sguardo sulle ferite e sulla cenere che il sapere della civiltà ricopre di indifferenza. Il desiderio non cessa di confrontarsi con i suoi orizzonti occlusi o offuscati. Ma in una natura che mostra la sua potenza e talvolta il suo patto con l’apocalissi, si aprono a tratti cieli liberi e fluttuano immagini di forte presenza, di cui “l’estate che correva per mare e scollinava” è quasi emblema. Che sia fosca o limpida la scena, i versi collocano
ogni volta il lettore di colpo nel mezzo dell’accadere. Ma tutto accade nella lingua, nel suo prendere luce e vento, suono e respiro, senso e dolore, libertà e vigore. Questo accadere nella lingua è la poesia.
Antonio Prete


lalange

1

ho dimenticato la lingua del pianto

e non so più
i sapori che a cascata stanziano sotto il naso
insalano le labbra guazzano il mento
sbriciolano il silenzio e
idioti
mescolano muco e arcani
vergognandosi

mi vergogno di queste parole
liberate
sconosciute
                                           forsanche blasfeme

2

dico te ma sento me

non ho lingua e preghiera tua
che trapassi scorticata
e venga fuori a brani
gutturi
inson
miei

3

so che non c’è lingua

cantilena forse
di passi d’altri
contati in sonni non sognati
in notti di prima
che il tempo ha sottratto

so che di quella lingua
cancellata

da qualche parte
resta un chiodo
una polvere
                                       bluastro il barlume

Nota. lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla


soglie

ma quante ce ne sono prima che l’oltraggio basti

limiti che la verità buca con una sfrombolata
e viaggiano e viaggiano
viaggiano findove si spacca la terra
si sfalda il muro di tufo
precipitano gambe e braccia

i piedi ancora nella sabbia
gli occhi già inghiottiti dal sale

quando tutta quest’acqua finirà di sole
e vento, comincerà la conta


il margine

non lo aggiusti come ti pare la mattina
che s’è placata la tramontana

non è la siepe che togli il dissuasore
si apre nonostante le spine

il margine è maestro che si prende corrente
garbino piene e rottami
conta i passi e le infamità
confida nei due gradoni del sottobanca
raccoglie confidenze e segreti
mulina l’aria di colma e si gonfia di collere indicibili

ma non lo aggiusti
non si aggiusta

ti ci devi mettere davanti
senza socchiudere gli occhi
spegnere


libera

solleva questo piombo di cielo

contro la quarta parete che cade fitta
di nubi a frastorno d’aria fogliame
e rabbiume

- diciotto anni prima che ancora la luna
s’avvicini tanto
misure e percentuali calibrate
il faccione di matto fisso
lì che ci guarda

da qui a diciotto fanno un mazzo di steli
l’erica svasata l’estate appena scorsa

l’estate che correva per mare e scollinava
senza campo a cercare menta e rosmarino
avvitata lì
a una menzogna che rabbiosa e cattiva
si urlava dentro la sete

la fame

che ha traversato il deserto
e succhia le ossa che trova


ogni desiderio spento

te la figuri la notte che non s’accende
quando lo scuro incappa il cielo in un sacco di plastica
e lo tiene stretto tra stelle scariche e antichi lallalli
spersi nel deserto?

che calenda di tempo e sperpero
che splendore d’occhi

                                   tutto questo pianto disseminato





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Elliott Erwitt - Personae, riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli

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elliott erwittElliott Erwitt, “Personae”: un mondo in immagini (visto ai musei S.Domenico a Forlì)

“Personae” retrospettiva che rende omaggio con un’ampia scelta fotografica ai capolavori del fotografo americano Elliott Erwitt presso i musei S. Domenico di Forlì è una molteplicità ironica, a tratti poetica o umoristica, sempre tuttavia profondamente umana di ritratti: i volti delle celebrità o quelli di gente ordinaria, cani che prendono spesso le loro sembianze e fanno loro il verso, infine i volti delle città viste attraverso punti di vista d’eccezione che li rendono unici, icone come tali entrate nella storia della fotografia. Nella prima sezione in bianco e nero fino alla metà degli anni ’70 Erwitt si sofferma in particolare sulla distorsione del punto di vista, spesso prediligendo quello degli animali che affiancano gli esseri umani e guardano quella stessa realtà dalla loro postura, nelle loro dimensioni e posizionamento sulla terra con un implicito risvolto ironico o parodico.

“ Le cose che mi divertono nella vita...le persone senza dubbio_i paesaggi meno_ quello che fanno nella vita e come si comportano. Tutta la mia fotografia riguarda questo. I cani sono un ottimo soggetto perché sono universali e li trovi ovunque nel mondo. Non obbiettano ad essere fotografati e non chiedono mai impronte.. ”

“New York city”, 1974 ( Taking the shot from a tiny dog perspective”)

Cosa significa essere o vedere la realtà dal punto di vista del piccolo e del minoritario, del basso e non dell’alto, del micro e non del macroscopico, portare l’attenzione ai piedi anziché alla testa, volgere le prospettive come in questa immagine mettendosi nei panni di un piccolo chihuahua umanizzato. La realtà percepita da quella prospettiva appare a lui enorme, disumanizzante negli stivali neri di cuoio lucidi e militari e in grandi zampe simili a quelle di un cammello che gli cammina accanto. Erwitt gioca con i paradossi e si diverte a ribaltare la superficie traslucida ed edulcorata, troppo educata delle apparenze per decentrare costantemente con ironia lo sguardo del suo obiettivo, periferico sull’animale; in particolare assume la misura dei vari prototipi di cagnetti antropomorfi, abitati di umanità parodiando la medesima per parlare del mondo che lo circonda.



Nella fotografia divenuta icona erwittiana di New York (1946) per esempio, la città è vista esclusivamente attraverso un dettaglio fotografico portato ed espanso in primo piano: i piedi della donna si mostrano enormi, ingigantiti all’ennesima potenza attraverso i sandali neri sullo sfondo di un viale alberato e di alti edifici in fuga prospettica verso il fondo. Il contrasto appare evidente e scherzoso tra la minuscola postura del Pittsburgh nano che fissa l’obbiettivo e di cui il fotografo assume il punto di vista e le dimensioni di una realtà estranea, smisurata qui resa a lui incommensurabile.


I volti delle città allo stesso modo sono filtrati attraverso lo sguardo erwittiano di questi prototipi canini alter-ego dell’umano. New York è un viale spazioso nei pressi di Hyde Park democraticamente visto assumendo il punto di vista del piccolo o del periferico in primo piano. Londra (1966) è l’interno borghese di un salotto ricoperto di moquette floreale, tappetti decorati e un sobrio camino vittoriano al centro sul quale troneggia un orologio a pendolo in suppellettile contornato da minuscole ceramiche e grandi sontuosi candelabri. Nell’immobilità del luogo un bulldog appare al centro tra il cinico e il derisorio spossato dal grigiore del lusso circostante.



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norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre

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norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre - Edizioninorbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre alpha beta Verlag, Meran/Merano, 2017

Ci sono coni d'ombra, nella poesia italiana, zone in cui il lettore arriva con grande difficoltà o per caso, paludi di oblio che spesso corrispondono ad areali linguistici minoritari ma a cui non sfuggono nemmeno altri, se non interessano all'accademia o all'editoria, un'ombra che a volte si illumina per caso. Mi è successo, per fare un esempio, con Roberta Dapunt (v. QUI ). Ed ecco, ringrazio per questo Francesca Corrias, un altro poeta che non conoscevo. norbert c. kaser (sì, proprio così, tutto minuscolo, come lui preferiva) è un caso del tutto particolare, che trova in questa ottima pubblicazione (a cura di Toni Colleselli, traduzioni di Werner Menapace, introduzione di Lorenza Rega) la collocazione antologica che merita. Poeta e scrittore altoatesino bilingue, nato a Bressanone nel 1947 e morto a Brunico nel 1978, kaser ha avuto una breve vita travagliata, vissuta in condizioni disagiate e solitarie, con vari tentativi frustrati di essere e sentirsi parte di qualcosa, fosse la religione cattolica (un anno in un convento dei Cappuccini), o la politica, nel sindacato prima e nel partito comunista poi, oppure l'università, abbandonata nel 1971. E poi vari lavori precari per sbarcare il lunario, compreso quello di maestro di montagna, e il ricorso all'alcool, che ha avuto una parte rilevante nella sua salute e nella sua morte. In mezzo una presenza di polemista, di attivista politico, di feroce critico di un rigido establishment sociale e letterario di cui soffrivano indifferentemente artisti tedeschi e italiani (a questo proposito va ricordato che kaser, al di là delle note vicende separatiste dell'epoca, ha sempre sottolineato la sua italianità). Come kaser ebbe a dire (citato da Lorenza Rega): “Lentamente svaniscono i pregiudizi nei nostri confronti. A noi spetta la parola! Qui dalle nostre parti si aggirano ancora così tante vacche sacre che non si riesce a vedere niente al di fuori di questa mandria. Ma la festa dopo il macello sarà imponente. E vi parteciperanno anche gli italiani. Anch’essi hanno una mandria di vacche sacre. I macellai hanno all’incirca la mia età. Il Sud tirolo avrà finalmente la sua letteratura e di un valore e importanza tali che nessuno può oggi immaginarseli.” Il rancore che kaser sentiva crescere nel ventre aveva anche queste dimensioni, che forse possono apparire tra l'incendiario e il futurista, ma che danno un'idea di una potente rivolta culturale, e che se contestualizzate rispetto alla realtà altoatesina del tempo possono fare affermare, anche a uno studioso attento come Claudio Magris, "atteggiamenti letterari che in un contesto culturale diverso sarebbero puberali o patetici, in Alto Adige hanno ancora un valore contestativo” (cit. da Toni Colleselli). Il che, in un certo qual modo, è un giudizio parziale, riduttivo, perché rischia di confinare kaser in una posizione decentrata, locale, o appunto contestativa, mentre stile, temi, qualità della scrittura e anche ricerca linguistica trascendono le "occasioni" che hanno generato il suo lavoro.

Il libro, un corpus di 175 testi in versi e in prosa (le poesie sono 140 di cui 15 scritte direttamente in italiano), ci restituisce un poeta di assoluto valore, a cui non è difficile riconoscere la qualifica che gli assegna Toni Colleselli di "maggior poeta italiano di lingua tedesca", tutt'altro che un poeta a cui affibbiare quella specie di apolidia che si associa alla letteratura di "confine". I temi sono molteplici, e certo kaser ha sempre in sé il concetto di heimat, fondamentale in tutta la letteratura germanofona, portatore di un legame non necessariamente costrittivo, ma anzi fecondo, con la tradizione; c'è certamente il continuo rimando alla realtà anche locale, alla cronaca, a un sentire politico e sociale, al paesaggio della sua terra spesso interpretato come grande correlativo oggettivo di un inquieto sentimento dell'esistenza; c'è una visione disincantata e certo pessimista della vita, c'è l'amore, c'è un sotterraneo dialogo con Dio, c'è la visione poetica delle città e dei luoghi visitati fuori dal Tirolo, c'è il gioco linguistico e l'invenzione fiabesca nei testi che scriveva per i bambini a cui insegnava. Ma quello che più colpisce in queste poesie è un rapporto con il mondo forse pessimistico come si diceva ma non domo, non difensivo, non ripiegato su di sé, non autocommiserativo, c'è semmai una pretesa di risposte a molte domande, l'inesausto tentativo di superare una situazione di "inceppamento" (Magris) culturale, sociale, generazionale. Anche se, aggiungo, chiudendo il libro resta un finale drammatico senso di cupio dissolvi. C'è in questa voce, come giustamente nota Roberto Galaverni in una nota apparsa su La lettura nell'ottobre 2017,"qualcosa di duro e d'irrisolto, qualcosa come un'indignazione fondamentale, come un'impossibilità di tregua [che] attraversano dall'inizio alla fine i versi di questo poeta, tanto da porsi come il suo carattere più distintivo e qualificante". E' questo carattere ad imporsi sulla scrittura stessa, che può apparire alla prima con tratti sperimentali, per aspetti visivi e linguistici, scrittura invece "motivata da ragioni niente affatto letterarie ma immediatamente storiche ed esistenziali" (ancora Galaverni). Un libro di così alto valore che, a differenza di altre mie letture, c'è davvero l'imbarazzo della scelta (comunque sempre arbitraria e ingenerosa) nel selezionare qualche testo esemplare da proporre qui. (g. cerrai)



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Alessia Iuliano - Ottobre nei viavai, nota di Francesco Palma

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Alessia Iuliano - Ottobre nei viavaiIn questo tempo si può collocare la poesia di Alessia Iuliano nell’alveo del progresso letterario, infatti, l’autrice, tramite una spontanea evoluzione dell’estetica e dello spirito, con l’opera “Ottobre nei viavai” soffia emozioni alla vita per sanare coscienze con un raro farmaco poetico. Palese come questa poesia sia un puro atto di generosità verso platee meritevoli, che dovrebbero preferirla senza esito alcuno alla luce di una visione di un amore universale che abbatte qualsiasi forma di cecità poetica:

“… i cieli piangono risposte

sulle mezzelune dei colli ma

tu non puoi sentirle …”

“… Eppure senza punteggiatura giurava

col ventaglio delle vocali amo

amo, eternamente amo

entrambi …”

Nei versi del libro, essenziali e cangianti per l’iride, si scorge, senza tema di errore, il colore di una poesia novecentesca, che ha segnato quell’epoca, la cui riproposizione della Iuliano, potenziata e inconsapevole, meriterebbe di segnare quella contemporanea: questo è l’augurio più grande che le enuncio. (Francesco Palma)



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Yone Noguchi - Poesie, a cura di Emilio Capaccio

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Io, falena senza senso del giorno,
non oso volare,
per non incrinare il silenzio.

Y. N.




YONE NOGUCHI (Tsushima, 8 dicembre 1875 – Tokyo, 13 giugno 1947)


At Night

At night the Universe grows lean, sober

faced, of intoxication,

The shadow of the half-sphere curtains

down closely against my world, like a

doorless cage, and the stillness chained by

wrinkled darkness strains throughout the Universe to be free.

Listen, frogs in the pond, (the world is a pond itself)

      cry out for the light, for the truth!

The curtains rattle ghostlily along, bloodily biting

      my soul, the winds knocking on my cabin door

      with their shadowy hands.


Di notte

Di notte l’universo cresce magro,

sobrio-brillo, di intossicazione,

l’ombra della mezza sfera cala il sipario

serratamente contro il mio mondo, come una gabbia

senza uscita e l’immobilità incatenata

da rugose tenebre forza in tutto l’universo per essere libera.

Ascolta, rane nello stagno, (il mondo anch’esso uno stagno)

      grida di luce, di verità!
Le tende spettralmente sbattono a lungo, sanguinosamente stoccando

      la mia anima, i venti bussano alla mia cabina

      con le loro mani ombrose.


The Poet

Out of the deep and the dark,

A sparkling mystery, a shape,

Something perfect,

Comes like the stir of the day:

One whose breath is an odor,

Whose eyes show the road to stars,

The breeze in his face,

The glory of heaven on his back.

He steps like a vision hung in air,

Diffusing the passion of eternity;

His abode is the sunlight of morn,

The music of eve his speech:

In his sight,

One shall turn from the dust of the grave,

And move upward to the woodland.


Il poeta

Fuori dagli abissi e dall’oscurità,

un enigma di luce, una figura,

qualcosa di perfetto

viene come viene l’impulso del giorno:

qualcosa il cui alito è un’essenza,

i cui occhi mostrano la strada per le stelle,

brezza sul suo viso,

gloria dei cieli sulle spalle.

Avanza come una visione sospesa nell’aria,

spargendo passione d’eternità;

la dimora che abita è la luce del mattino,

il brano della sera il suo parlare:

dove porge lo sguardo

si viene dalla polvere della tomba,

si sale alla terra dei boschi.



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The Wall, intorno e attraverso i muri, nota di Elisa Castagnoli

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“The Wall”: intorno e attraverso i muri (mostra a Bologna, a Palazzo Belloni) mimmo rotella - sophia

Il “muro” è immagine, traccia dai molteplici sensi e sovra-sensi oppure architettura data storicamente nello spazio, e ancora metafora letteraria in testi, canzoni o opere d’arte nella mostra attualmente in corso a Palazzo Belloni, “The Wall”. Un itinerario per farci riflettere, una mappa concettuale che dirama come un labirinto e sfalda in molteplici sfaccettature di pensiero da una sala all’altra, e ancora un viaggio attraverso il video, le installazioni, i quadri e testi letterari. Perché in fondo là è la dicotomia del suo essere, su due piani, a due facce, come ciò che difende ma anche che separa e preclude l’accesso, o ancora la barriera che qualora blocca lascia intravvedere una possibilità nell’altrove, e nascondendo rivela se le sue pareti si trasformano in superfici espressive, iscrizioni d’arte o architetture che dimorano e danno vita allo spazio.

“Parole sui muri” (installazione gruppoLoup)


Parole come pietre, dense e stratificate si aprono dal loro guscio di silenzio e incomprensibilità in diverse lingue nella prima sala come citazioni letterarie da fonti tanto lontane nel tempo quanto ravvicinate per la loro simbolica evocazione: le pietre sacre in cui fu eretto il tempio di Gerusalemme nell’Antico Testamento, le mura di Uruk sulle quali Gilgamesh incise le sue fatiche e riportò le storie del passato narrando ciò che era segreto, Italo Calvino dalle “rosse mura di Parigi”, infine E.Dickinson in avanzare è la condizione stessa dell’esistenza e le pietre tombali solo un ristoro all'eterno fluire del tempo che le rende odiose all’anima . Parole sacre o di poesia proliferano in caratteri verdi e ocra fiammanti attraverso i filtri di plastica rossa, ora blu sul piastrellato bianco e luccicante del fondo.



Se i muri sono da sempre mezzo o tramite attraverso cui i messaggi si depositano, le parole si scrivono o si proclamano magari abusivamente o nell’impeto di un momento, essi, da un altro punto di vista, appaiono come ciò che separa, ostacola e preclude un reale scambio. Ci fanno pensare ai muri di parole che non arrivano a destinazione, barriere di incomunicabilità nella profusione dei messaggi inviati o ricevuti, ancora ai muri virtuali su cui si scrive senza avere nulla da dirsi, infine al silenzio di fondo che mormora nella sovra-produzione di messaggi, notizie, cronache o delle parole urlate dai media al quotidiano.


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Luigi Fontanella - Lo scialle rosso

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Luigi Fontanella - Lo scialle rossoLuigi Fontanella - Lo scialle rosso - Moretti e Vitali, 2017

Nove poemetti o racconti in versi, scritti tra il 1999 e il 2014, ci dice in una nota lo stesso autore. Con una buona misura di anglosassone understatement, direi. E in effetti la prima cosa che salta agli occhi alla lettura di questi ampi testi lirici è come una necessità non solo di narrare una serie di eventi ma anche quella di fissarli, prima, come sopra una lastra e piegarli poi, modificarli e in sostanza gettarli sotto una nuova luce. Come si sa, infatti, ogni fenomeno varia e si modifica sotto l'occhio, magari innamorato, del suo osservatore. E' quello che fa sempre la poesia, la poesia buona, come atto di ricezione di ogni accidente, di ogni brandello di vita: diventare qualcosa d'altro, se non addirittura qualcosa di altri. Niente, per un poeta, trascorre inutilmente. Vige insomma, come scrive Paolo Lagazzi nella prefazione al libro, una "intermittente, appassionata, tenace memoria". Ricordare che sono tutte connotazioni che ci rimandano tra diversi altri a Montale è pleonastico, tanto più per Fontanella, tra le altre cose professore di Letteratura italiana alla New York State University (Lagazzi cita anche Savinio e Landolfi). Insomma, è la sua materia ed ogni eco non è altro che un indizio culturale scevro da qualsiasi epigonismo, uno strumento che si adatta perfettamente allo scopo. Come anche naturale, mi pare, è la vicinanza di Fontanella ad una consolidata tradizione letteraria non solo novecentesca, lirica soprattutto, ma che tiene ben presenti tutti gli sviluppi stilistici, appunto anche in senso narrativo e di aderenza al quotidiano, che soprattutto nel Novecento sono avvenuti.

Se i richiami, più o meno soffusi, possono essere quelli che abbiamo detto, [tuttavia] qui non c'è molto di "occasionale" e non solo per la dimensione testuale delle poesie, che denota una articolata elaborazione del materiale poetico di partenza, ma anche perché questa poesia nell'evento non si conclude, non diventa epifenomeno di qualcosa che ha colpito l'autore, dirottando magari verso un esercizio di stile, è decisamente antirapsodica, come se esplicitasse la convinzione che l'occasione, se vi è, contiene una "storia" (statica, diciamo) e un seme (dinamico), in altre parole rimanda ad altre e ben diverse considerazioni, non necessariamente soltanto"poetiche". Per quanto la memoria, in tutto il libro, sia elemento naturale fondamentale, essa non è pura rimembranza, sia per l'apporto della rêverie, come annota Lagazzi, in costante dialogo con una realtà oggettuale, sia perché Fontanella ha chiari i suoi obbiettivi poetici. Che mi pare siano quelli di evidenziare una dimensione spirituale degli eventi, per quanto eminentemente laica, e un loro ethos, cioè, letteralmente, un luogo in cui vivere, in altre parole (e non è certo un truismo) la vita medesima. Per cui il fatto, nella dimensione poetica, diventa qualcosa di rizomatoso, per dirla con Deleuze, il fatto, per sua definizione "passato" e tuttavia non muto, rivive di un'altra vita.

A me pare che si tratti di qualcosa di diverso dall'epifania, dall'agnizione o da un momento meramente ispirativo. Non è qualcosa di cui l'autore dice ah, bene, ecco un frammento di vita di cui può valere la pena scrivere, o non soltanto. Mi pare che questa scrittura diffusa, così fortemente fàtica, che descrive le cose nel loro aspetto sensibile e in quello meno evidente, sia un tentativo di ridefinire certi confini, che sono soprattutto tra la vita stessa (vissuta e - scrivendo - rivissuta) e la morte come luogo in cui non è più possibile dire. Potremmo definire tutto ciò semmai come una rivelazione, un disvelamento di implicazioni che però non provengono da nessun iperuranio, o da un''ispirazione di tipo romantico. Semplicemente già c'erano, sotto lo sguardo niente affatto passivo del poeta, che è facile che magari impropriamente ci ricordi, nel suo peregrinare per le strade di Firenze o New York, una  certa flânerie baudelairiana. Uno sguardo inoltre che in molti di questi componimenti è condiviso, non solo con il lettore ma anche con chi, quasi sempre, è testimone dell'evento insieme all'autore. E se non ci sono testimoni, in queste narrazioni, ci sono personaggi letterari, gente incontrata per strada, amici e colleghi citati, exerga e rimandi letterari, che concorrono ad ampliare lo sguardo sulle cose. Sotto questo punto di vista potremmo dire che in questi testi non c'è una visione strettamente "privata", poiché mi pare che Fontanella non vi cerchi una catarsi personale, o una purificazione dell'esperienza dal prosaico a beneficio di un ipotetico lettore, ma che dia voce, per tutti, al possibile, soprattutto al possibile significato delle cose. In altre e diverse parole, non estetizza il suo materiale, e questa è una delle caratteristiche del suo stile.

Il poemetto eponimo, Lo scialle rosso, è emblematico dell'approccio di Fontanella alla sua materia. In una piovosa e ventosa giornata di fine Aprile, lo scialle rosso della accompagnatrice del poeta vola giù da un ponte di Ottawa. L'accadimento si esaurisce subito, lo scialle rosso scompare dalla scena, per fare posto in sostanza ad un sentire, a un sentimento del tempo che poi lo scialle, che riappare negli ultimi versi, avvolgerà simbolicamente, proteggendolo e chiudendo il cerchio. In mezzo Fontanella sviluppa una canzone sulla fragilità, rispetto al caso, al mondo o all'essere altrove, la fragilità individuale, e tuttavia la resistenza, della poesia soprattutto, come emblema di un nucleo forte dell'uomo. Le intemperie, anche simbolicamente intese, sul ponte di Ottawa "sbriciolano" il gruppetto di amici poeti (e testimoni, si diceva), lì presenti, come Davide Rondoni, Plinio Perilli, Irene Marchegiani, e scomparsi, come Giovanna Sicari, e lontane evocazione italiane. Ma sappiamo che tutti, o almeno la poesia che rappresentano, si ritroveranno. Lo scialle rosso quindi appare essere, come dicevo, non tanto un elemento epifanico e nemmeno un correlativo, quanto un potente marcatore mnemonico, in più carico dei segni del colore e del volo, da cui l'autore procede a costruire il suo impasto di narrazione e sogno. Nel quale la memoria non si esaurisce ma si rinnova come rappresentazione e immaginazione (lo stesso Fontanella rammenta, in una nota, il "connubio, che mi è caro, oscillante tra immaginazione e memoria, così come ne parla André Breton nel saggio Situazione surrealista dell'oggetto"), pur essendo questa poesia, va detto, ben lontana da territori surrealisti o anche simbolisti. Naturalmente questo registro, che si ripresenta anche in altri poemetti importanti come Dittico praghese e The old town, non è l'unico di cui dispone l'autore. In altri testi, che per alcuni aspetti preferisco, come Lettere al padre e Canto del distacco, il tono è più eminentemente lirico/elegiaco, o forse nervaliano come dice Fontanella, ma certo più venato di un intimo e privato sentimento di rimpianto, una affettività che in un certo senso ci avvicina maggiormente al poeta, testi in cui si allenta un poco la vena descrittiva, meno assiepati di "oggetti" e di nomi, un linguaggio che non ha necessità di articolarsi in narrazione o di dire "tutto" (come ad esempio in Old Town e Efemeridos) perché lavora sul piano di una percezione purao se volete di un'empatia in cui gioca più il cuore che l'intelletto. (g. cerrai)



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Villa Dominica Balbinot - inediti da I FIORI ERANO FERMI - E LONTANI

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Villa Dominica Balbinot mi ha mandato questi testi qualche tempo fa, chiVilla Dominica Balbinotedendomi che ne pensassi. Li ho letti con un certo interesse, perché indubbiamente escono un po' dagli schemi, se si va oltre una impressione non del tutto peregrina di forme crepuscolari innestate con dosi massicce di simbolismo. Il primo appunto che ho preso, scritto a margine, è stato per la verità "poesia barocchetta". Volendo forse significare con questo non solo una scrittura con forti circonvoluzioni e priva di spazi aperti ma anche dove il paesaggio, inteso in senso lato sia come naturale che umano, si defila, a favore della costruzione, o si rappresenta come un fondale o una quinta, in una maniera che mi ricorda l' Isola dei morti  di Arnold Böcklin. In realtà qui, restando al barocco, c'è sì molta complessità ma poco capriccio, perché il tema o quanto meno l'atmosfera prevalenti sono compatti e concentrati, tendono a dare al lettore (e qui si torna al simbolismo) il suggerimento  di una visione assai convinta e personale del mondo. Che è certo, coma annota Anna Maria Curci (altre poesie appartenenti a questo blocco sono state presentate su Poetarum Silva) un "mondo dissestato, funestato", per quanto di "straniata bellezza", su cui Balbinot getta "una luce che non teme di essere cruda". Sulla crudezza possiamo essere d'accordo, almeno se si tiene conto del lessico e relativi annessi usati dall'autrice in funzione espressionistica (e vale il breve accostamento che ancora Curci fa a Gottfried Benn - si parva licet  però): qui troviamo silenziato omicidio, acque fresche e pericolose, carnarie mosche, eterno gennaio, terreno insanguinato, bagliori lucidi e freddi, qualcosa...di cruentemente esatto, patiboli reconditi, leucemica fragilità, narrazione del sangue, consuntore morbo, dissezione delle cose maestose, anni di espiazione e delle cerimonie esequialiesasperata desolazione, degenerativo stato, camera dei suicidi in un albergo, l'innominata carne ferita dei morti, e così via. Ma non è tanto una questione di sintagmi quanto di costruzione anche sintatticamente complessa di un testo che definirei, per usare parole della stessa autrice, "livido e sontuoso e torbido" (quindi se barocco c'è, verrebbe da dire con una battuta, è barocco spagnolo). In aggiunta a queste ultime parole citate, a volte si ha l'impressione che in un certo qual modo Balbinot parli criticamente di sé quando scrive di "estetismo nero e profetico" (o forse profetizzante, direi), o di "vasto mondo crespuscolare". Ma anche in questi rari casi di espressioni didascaliche e forse un po' ingenue l'obbiettivo è il tratteggio di una atmosfera perturbante in cui il lettore deve accettare di permanere o no. Possiamo aggiungere a queste cose un uso programmatico del lei  (terza persona)  come soggetto sostituto del tu  (che come sappiamo è un ulteriore camuffamento dell'io poetico) e a volte forme verbali al passato che accentuano abilmente uno straniamento di tipo temporale e un senso di definitivo e tuttavia attuale. Immagino che questa lei  sia l'autrice, immersa nel suo "mondo", che è di volta in volta "della realtà", "crepuscolare" ma "aperto da ogni parte"  (corsivo dell'autrice), "di silenzio", "bluastro", ma più che altro "grigio" o di una "debole colorazione ossidata -  di un metallico paesaggio" (c.vo aut.) e di svariate altre connotazioni. Ma soprattutto un mondo in cui si avverte come una presenza di forze esterne non del tutto chiare né del tutto controllabili, un mondo molto poco popolato, solo da lei,  e da essi  che se capisco bene non sono tanto "altri" quanto un "noi", cioè un plurale di quello stesso lei, una condivisione dell'angoscia e forse il dolore che pervadono l'ambiente e di cui l'ambiente è proiezione. E poi i morti, evocati non solo direttamente ("nella loro innominata carne ferita") ma anche sotto forma di aggettivi (morti occhi, vie, fiori, foglie, cime), o come correlati semantici (mortalità, uccisioni, ad esempio). Insomma Balbinot ha sviluppato un suo stile, con una certa accuratezza linguistica, con molti echi, che aderisce bene alla tematica che si è scelta, e che in pari misura, va da sé, può generare interesse o respingere. Per concludere: se si aggiungono caratteri anche indubbiamente romantici come un certo senso dell'assoluto o una certa irrazionalità o un'idea di sublime che sovrasta l'uomo, allora cos'è che tiene insieme e fonde il barocco, il crepuscolare, il simbolista, l'espressionista, il romantico? in altre parole cos'è la poesia di Villa Dominica Balbinot? Ma è ovvio: è poesia gotica. (g. cerrai)


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Antonis Fostieris - Nostalgia del presente

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Il suono del mondoantonis fostieris

Mia piccola ammaliatrice non respingere il mio amore
Sappi comunque che non ti amo. E se ti hanno cantata
I poeti di ogni tempo, se ti hanno celebrata
Sulle loro cetre dalle corde di crine
Sappi dunque che i poeti sono tutti segaioli
Altrimenti non si lascerebbero
Chiamare poeti. Posa
La tua mano delicata d'acqua e di vento
- Non ti dicevano così i buffoni? -
Sulla mia fronte. La febbre
La temperatura naturale di un corpo
Che orina sull'alloro e dispregia il fruscio
Dello spirito che esala. Posa
Il tuo capezzolo sulle mie labbra
E lascia che la mia lingua lecchi silenziosa
Il vaso del tuo brivido. Piccola ammaliatrice
Con le poesie non si raggiunge l'orgasmo
Neppure i babbei che intorno a te rovesciano
Gargarismi di parole. Ascolta
Il muggito, il fragore, il pianto:
Di simili suoni è fatto il mondo. Ascolta
Il gracchiare - o il ruggito
Del leone che è il mondo. Ascolta
Il rombo dell'oceano; il rombo;
Non il canto spensierato dei pescatori.



Genesi

Quanto più procedevo nella luce
Impallidivano i colori
Si addensavano, vorticavano come un disco
Diventavano
Quel colore che non era più
Colore.

Nel cuore della notte un diramarsi di strade
Un aprirsi a nuove combinazioni
Dissi "buio" ed ecco generata
La terra con le sue piante i suoi animali
Invisibili enormi delicati
Che mi somigliano.




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