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Fabio Orecchini - PER OS

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Fabio Orecchini - Per osFabio Orecchini - Per Os - Sigismundus Editrice, 2016
Conosco Fabio da un po', seppure alla lontana come permettono i mezzi attuali. Lo conosco almeno dal 2011 (v.QUI ), da quello che posso considerare, per quello che ne so, l'inizio di un percorso poetico (ma non solo) attraverso una realtà che per lui non era possibile accantonare o considerare come elemento illeggibile e buonanotte, o qualcosa da aggirare "ermeticamente", come intorno a un idolo di pietra che ci restituisce indietro l'eco dei nostri inutili lai, ancorché alti. Almeno da Dismissioni la realtà ha una faccia precisa, si manifesta concretamente come espressione del potere totalizzante, una feroce sineddoche, una parte che si prende il tutto, in una lotta (di classe? perché no?) che lascia sul terreno vittime altrettanto reali. Il punto di caduta si realizza nei luoghi dove si condensano le dinamiche e gli attriti tra singoli e sistema, dove la chimica e la fisica degli scontri residuano sul campo scorie significative, e ferite. Dove i nodi vengono al pettine. E' il lavoro, è l'ambiente, è la vita chiusa in un cerchio produttivo/riproduttivo regolato quasi sempre da altri. E' il cataclisma, il disastro , qualcosa cioè che in principio attiene a qualcosa di destinale, ma che poi ricoagula rapporti asimmetrici tra singoli e sistemi, tra colpiti e chi è chiamato a fornire una risposta. Dismissioniera, come scrivevo, il libro "di una tragedia, anzi di una catastrofe industriale, del lavoro, della salute, della disgregazione sociale e familiare che a quella catastrofe si accompagna, la chiusura degli stabilimenti, il loro smantellamento e - prima, contemporaneamente, dopo - lo smantellamento chirurgico di chi ci ha lavorato rimettendoci i polmoni"; qui invece lo spunto di una riflessione poetica è il sisma che ha colpito L'Aquila e il territorio circostante, non tanto nella sua immediatezza quanto nella sua sedimentazione di strati, fisici e morali, da cui è necessario risalire dolorosamente alla superficie. In altre parole (quelle di Fabio), una "allegoria della crisi antropologica e politica del contemporaneo".
Dette così le cose, potrebbe sembrare che il lavoro di Orecchini sia ascrivibile alla vasta e indefinita categoria della poesia (o altra arte) civile, categoria che quasi inevitabilmente porta con sé almeno due connotazioni, una "politica" (nobile quanto rigida), e una "realistica" (idem come sopra). A me pare, in realtà, che l'espressione artistica di Fabio (scrittura e non solo) sia sufficientemente moderna (e forse post-) da sfuggire a certe secche, soprattutto perché i "luoghi" di cui si diceva sono qui eminentemente metaforici (o metonimici) ma anche - e forse qui in maniera precipua - luoghi del linguaggio, dove il linguaggio riprende la sua forza ove si libera da schemi per così dire "economici", legati ad una produzione di senso di basso livello. Quindi, tuttavia, politica lo è, ed è certo, se mi si passa un aggettivo un po' desueto, militante, anche nel senso dello studio della materia e della ricerca "sul campo" che sta dietro a questo lavoro. Un approccio complessivo a cui Orecchini non può rinunciare, può solo sottoporlo a critica, rivederlo, saggiare il suo grado di adattabilità all'oggetto della sua attenzione artistica.
Ci sono diversi livelli in quest'opera, come già nella precedente, un lavoro non facile da descrivere. Direi che Fabio ha portato a maturazione espressiva un formato di fruibilità multipla, per canali diversi. Anche questo libro non è solo un libro. E' un testo, riguardo al quale occorre tener conto della sua struttura, della sua forma grafica, della sua lingua; è nello stesso tempo Terraemotus, una installazione multilivello multimediale (anzi intermediale), che dopo aver girato varie collocazioni ora è in rete (e quindi fruibile senza allontanarsi dal testo ma che col testo canonicamente inteso ha un rapporto non strumentale nè di mero supporto iconico, ma apporta semmai una somma di prospettive, la generazione di una biosfera culturale a sua volta generativa, diversa da quella della seconda edizione di Dismissioni, per la quale parlavo di "estensione ipertestuale"). Come libro si affida ovviamente alla parola, anche qui a diversi livelli. Per osè termine medico, ed è una via a doppio senso, attraverso cui entra la medicina, esce talvolta il male, qualcosa si installa e si espelle. "Per os, - scrive Fabio - per bocca e per la bocca, somministrate siano le parole, le poche che restano". Questa rarefazione delle parole mi pare che rappresenti diverse cose, tutte importanti, che Orecchini vuole far risaltare: la perdita di parole è perdita di potere, anche senza scomodare Foucault, perdita di voce antagonista, delle "parole per dire"; è perdita di voce, progressiva estinzione del fiato, lamento che proviene da sotto macerie reali e simboliche, che si affievolisce e tuttavia non cessa di lanciare il proprio grido di protesta, di rivendicazione di un diritto (alla vita, ad esistere, ad essere identità rilevabile) irrinunciabile; il diradarsi delle parole nel bianco della pagina, rappresentazione grafica, eidetica di questo "resto" di parole, che diventa manifesto politico proprio perché, paradossalmente, questa rarefazione non decade - anche retoricamente - a mero slogan, cioè non si semplifica. Non parla troppo e tuttavia dice molto, come un cieco che non vede ma vede oltre (ilTiresia di Giuliano Mesa che lo stesso Mesa recita nel Livello -2, Sismografie, della installazione). Siamo, in altre parole, nel campo dell'epos degli sconfitti, un epos moderno.
Naturalmente il linguaggio, specie per un esploratore come Fabio, non basta più, anzi tende a somigliare mimeticamente ad altro con cui entra in simbiosi, che sia esso ciò che tenta di descrivere, la maceria, le scorie, oppure i mezzi di espressione comprimari con i quali peraltro è difficile competere, per ovvie differenze di codici. E' un'altra delle ragioni, credo, di questa frantumazione linguistica. Tuttavia queste poche ma buone parole, a volte lacerti, esclamazioni, ma comunque ben pesate, bastano ad articolare un discorso efficiente ed efficace, un testo strutturato in sei sezioni intimamente correlate: Ananke | I due mondi, ovvero l'elemento destinale ma anche la "necessità di riconnettere", come dice Fabio, i frammenti di un dolore profondo siano essi psichici, fisici o mnemonici; de generare | la casa dentro, con un esergo che recita"la verità rende ciechi, la cecità tutto più vero" (che vedremo poi a che rimanda), una visione "esplosa", come si direbbe in termini tecnici, come di interni visti dall'esterno, anche qui fisici e psichici, similmente a case sventrate dal sisma, in cui da fuori si vedono suppellettili, oggetti, intimità; per os | somministrare parole, è "il fuoco di parole che devasta / mentre tutto d'intorno si tace", i perché senza risposta, "il fallimento dell'immortalià / domestica di morire non senza aver pulito" e insieme la parola gettata come una rete di salvataggio, " una vocec'è qualcuno? / che crepa nel muro / crepa"; OO | la memoria della crisi - SS | la crisi della memoria, ove - ipotizzo - si recita il dramma degli equivoci di una memoria che da una parte registra (la crisi, il dolore, la morte ed è - ipotizzo ancora - memoria dei singoli, delle vittime, dei superstiti) e dall'altra è pronta, a-criticamente, a ripercorrere i consueti circoli viziosi o errori ed è la memoria corta collettiva (singoli compresi), istituzionale, è in ultima analisi "[ l'assedio della Storia // sedimenta ] si dimentica"; segue Ifigenia | sequenza mancante, che sembra affrontare l'incomprensibilità, quasi decimatoria, del sacrificio, del caso che uccide i giovani e risparmia i vecchi, come l'anziana signora quasi centenaria di cui raccontano le cronache, che sotto le macerie attende i soccorsi sferruzzando il suo uncinetto e tuttavia, col recupero, avviene una "assunzione" al cielo, una rinascita, una dilazione del tempo (ed è la sezione in cui più la scrittura si dirada, diventa pura fonazione, lamento, annotando qui che il linguaggio continua a rarefarsi, poiché, come giusto, fa le spese del suo emittente, il corpo medesimo, la sua crisi di elemento sempre più periferico del mondo e della natura, perfino quando vittima che non capisce. Il linguaggio allora diventa articolazione, gemito. Magari dovrebbe farsi bestemmia, ma questo è un altro discorso, ci vorrebbe una dimensione del sacro che non ci appartiene più. Del resto, come dice Giuliano Mesa in un esergo, "Non c'è che questo andarsene dal dire"); infine a chiudere la sezione iato | apertura delle ore, che immagino il tempo sospeso, e che pure c'è, tra la fine dell'evento e la ricomposizione di una realtà del "dopo", "tra rimozione e rigenerazione", come fosse la contemplazione immota della polvere che silenziosa si riposa sulle macerie.
Varrebbe la pena di accennare a quanto avviene sul versante installativo, come è possibile vedere al link riportato. Ma credo che sia un'esperienza da fare direttamente, dedicandoci il tempo che ci vuole, immaginando l'installazione come uno spazio da attraversare, dove il percorso è verticale, ma contrario, è un diverso scavo, va verso l'alto (da Livello -2 a Livello 2), verso una uscita, l'aria, il cielo, del corpo, attraverso le barriere fisiche, e della voce, che urta i denti quasi a spezzarli, forse anche della ricerca di una verità non necessariamente raggiungibile, ma sempre necessariamente perseguita. Immaginandola come un luogo fluido, a suo modo sismico - come le sismografie (v. ancora il Livello -2 dell'installazione) di Fabio, "trascrizioni continue, che avvengono in disgrafia autoindotta, su rulli di carta", di alcuni versi sempre di Mesa - ma potente produttore di senso. Immaginandola insomma come un luogo del pensiero, da cui forse proviene il testo, o a cui forse approda. (g. cerrai)


da per os | somministrare parole

a togliere via dai resti le macerie le carni dalle vesti
a togliere via le bocche recuperare i denti
a togliere via le lingue le gole dai tormenti

lasciare intatti gli occhi, intoccate le orecchie
i corpi materia dell'acedia, le zone interdette,
il fuoco di parole che devasta / mentre tutto d'intorno si tace



*


un termitare dolente che freme, compatta palpita la terra

fessura, l'anima negl'occhi l'incavo la cruna tellura

palpebra duole si ritira la bocca l'ossario che resta

una voce                                            c'è qualcuno?

che crepa nel muro

                                                                             crepa





da la memoria della crisi | la crisi della memoria

corpo nell'errore, nel farsi termine, tramite noi, come termite
nel dolore, a fare buchi cavi, valicare travi su travi, come cavia
per tornare ai noi, ai giorni terminali                    e scavi e scavi


*


tre vani devastati abitarne l'habitus il recesso
due vani e mezzo per eccesso il catino verandato
da ristrutturare al più presto, il condono regresso


C'è qualcuno?


Crolla in quiete il cielo defibrilla
demolire il tempo prova a dire
il rumore bianco dell'alba dentro ai monti di Sibilla





da Ifigenia | sequenza mancante

madre a nascondere i polsi, le artriti
dei legamenti, il nodo ritorto dei legami
l'incedere a passi lenti sommovimenti,
il padre a mostrare i denti, i lacerti, incerto
se ridiscendere verso i catrami mostrami
il martirio di pose le forze arrese, i reperti
non per trascinarsi -iridescente- non per non dire
i come ancora i se resti - resisti -
ridere di quanto vissuto per niente


*


di casa in casa, a stanare a far mambassa hanno mannaie
e tubi col gas, per amnesie ordinarie, manuali di rito ortodossi al
martirio di anime hanno l'anima, l'anonimato li preserva
sono abili, abilitati al male pre-ordinato, sono morfine mordono
i polsi le caviglie vene in combustione sono muta di cani
leccano i crani ancora aperti, le ferite dei colpevoli
parti adunche sbavando di sorrisi e suppliche





da iato | apertura delle ore

il vento lascia tracce in dissolvenza, opaco desistere non teme pose

sia pur saturo di resine solventi -assorbono il dolore delle cose

il colore, tundra di getto, espanso tepore negli occhi

dal centro dell'ora e il suo verso, contra tempo l'animale muove il passo


*


per astrazione, per muta dei moti inestinguibili forme, pietrificate estinte, laddove tutto muove in levare,

per estrazione dì forme, remote l'orme pietrificate estinte, inestinguibile moto in levare,

tutto muove verso dove, verso il peso lieve del dolore, deforme, stantio, d'istante mostrami che tutto muore


Davide Castiglione - Non di fortuna

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Davide Castiglione - Non di fortuna - Italic 2017Davide Castiglione - Non di fortuna - Italic 2017

"> Ho già scritto qualcosa su Davide Castiglione (v. QUI ), a proposito del suo Per ogni frazione, uscito per Campanotto nel 2010. In quell'occasione terminavo l'articolo con una sospensione, aspettando di "osservare Davide alle prese con qualcosa di più progettato", dopo aver sottolineato non pochi elementi di interesse in un libro forse un po' frammentario ma dotato di "una sorta di raffinato understatement emotivo di discreto effetto".
Credo che un po' delle cose che scrissi allora debbano essere accantonate, non necessariamente nel senso di "meglio o peggio di". Semplicemente o le cose cambiano o si assumono come parte dello stile di un autore, di una sua maniera di vedere poeticamente la faccenda.
La poetica di fondo mi pare infatti che rimanga immutata. Una inquietudine a volte irrelata, cioè non esattamente definita nelle sue motivazioni, che si riflette sulla realtà o da essa proviene, mediante una osservazione bifronte o bidirezionale, non sempre attivamente esercitata, ma semmai riverberata in uno spleen il più delle volte solitario, una cogitazione riguardo all'esseree in quel momento, dove però "giustamente è tardi", "tutto è appena", essendo "fuori tempo massimo". Si ha in effetti, leggendo questo libro, l'impressione di una ricerca di collocazione nel reale, in cui però il caso, e non la volontà, abbia una parte preponderante (anche nella fornitura di "occasioni"), e dove la scrittura cerchi di mettere ordine, cedendo però talvolta alla tentazione di mimare il disordine stesso del caso. Se si ottiene così un effetto di scoppio ritardato, Davide ha però ben presente la necessità di cogliere, in questi nodi, quanto vi è di poetico o di registrare quelle piccole manifestazioni epifaniche che nel quotidiano (il tempo è quasi sempre, anche qui, uno scorrevole presente) si incistano. Il problema (e la necessità) della poesia di questa ispirazione, o con questa linea, sta nel dilemma tra trovare e cercare il poetico, con una ricerca che - rispondendo ad un bisogno di deformazione del tangibile "ordinario" -è affidabile solo al linguaggio, alla sua capacità di trasformare l'impoetico in poetico (ovvero, secondo un pensiero leopardiano, nell'illusione che allontana la visione del nulla). Dico questo perché non sempre è possibile trovare, nel qui e ora - e scriverne -, un'illuminazione, un simbolo, una parafrasi dell'esistenza, senza, diciamo così, lasciar fare un po' anche all'immaginazione, andare a vedere cosa c'è davvero dietro e sotto, o inventarlo. Castiglione ha un certo talento, per quanto discontinuo, nel fare questo, nel tentativo cioè di dare una lettura sovrareale alle cose, e mi ricordo di aver parlato, a proposito del suo libro precedente, di "corti circuiti poetici addirittura eccellenti", forse in quest'ultimo lavoro un po' più dispersi. E' una poetica dell'esistente, e quindi di un habitat, da abitare e forse adattare alla propria sensibilità, nel quale le memorie non si sono ancora sedimentate, è tutto ancora in divenire, da farsi, un divenire tuttavia in cui il tempo ci sorpassa, come dicevamo prima, e questo farsi non sembra implicare una speranza, un investimento nel futuro. E' tutto molto attuale, da questo punto di vista, e tutto molto individuale, voglio dire dietro c'è una generazione e insieme non c'è, c'è qualcosa di critico e non c'è, c'è insomma una solitudine. Da un altro punto di vista, divergente, in Per ogni frazione mi pareva ci fosse una diversa aderenza alla realtà così com'è, o più flânerie, proprio nel senso baudelairiano del termine, uno sguardo su una realtà che però era forse possibile mutare simbolicamente. Ora la proiezione del tempo in Davide è decisamente cambiata, mi pare più frantumata e disillusa, per quanto anche allora lo fosse, vi fosse una questione in sospeso, un punto interrogativo sotto traccia riguardo alla leggibilità degli accadimenti. In alcuni testi questa sospensione ripiega in una oscurità del dettato non sempre traducibile, che a volte prende le mosse da un oggetto, evento, fatto sfumato o criptico, come una conoscenza esoterica che compete a pochi. E' vero che a questo concorre una padronanza della lingua notevole, a volte funambolica, con costruzioni a volte precipitanti, paraipotattiche e seriali subordinate nelle quali il dubbio, l'interrogazione, la domanda inevasa nuotano a proprio agio, sfociando non di rado in qualche postura filosofica. E' pure vero che in questa scrittura capita anche di incontrare qualche ingenuità, qualche forzatura, qualche jeu de mots palese che non ti aspetteresti: "a brutta posta", "lo propelle una passione gelida", "fatto sta che / ma il fatto non sta", "iniziare e frinire","commutano: nel senso del fare / avanti e indietro", "confessa chi fa gli orrori di casa", "l'opera di sapone, soap, / sob", "gli animaletti sbadati eternati nel bitume". Ma anche questo credo che rientri in una ricerca e ne sia un po' lo scotto da pagare, Davide è un critico troppo raffinato (altra sua attività che apprezzo molto) per non saperlo e prendersi qualche rischio. Assumiamolo semmai come specimen di una qualche pressione sul piatto significante della bilancia espressiva. Sbilanciamento che tuttavia (generalmente parlando, non solo nel caso di Davide) può contribuire egregiamente a quella "obliquità" o significanza (superiore alla informatività del significato) della poesia a cui allude M. Riffaterre ("la poesia esprime i concetti e le cose tramite obliquità. In parole povere, una poesia dice una cosa e ne significa un’altra"). E' solo un problema, direbbe un pianista, di pedale.
Di che parla la poesia di Castiglione? Be', in parte l'ho accennato, parla di star solo sul cuor della terra, ma senza una singolarità che rischi di farsi massa critica, che sia prodromo di tempi diversi, parla di un "io immerso nel divano", che "non [sa] scegliere né rinunciare". Il giorno, il presente di cui ho parlato altre volte, non può che avere la sua ripetizione come condanna. C'è anche una privatezza, che qui ad esempio trova la sua espressione nella sezione, appunto, "Privati", che peraltro è a mio avviso la migliore, forse perché mi pare essere quella in cui di più Davide parla di sé, più direttamente lega l'esperienza al suo sentire anche lirico, senza troppe intermediazioni, dove anche il paesaggio urbano, postindustriale, appare dotato di una sua umanità, per quanto residuale, perfino di una certa affettività. Ma lo sguardo sulle cose, anche sui rapporti sociali, sembra non solo disilluso ma volutamente privo di emotività, come se si fosse ulteriormente allontanato quell'io"immediatamente al di fuori del cerchio degli accadimenti, a volte un interessato osservatore esterno, a volte uno che attraversa come un passante l'area poetica per poi lasciarsela accaduta alle spalle" di cui parlavo a proposito del libro precedente.
Il versante opposto è in qualche caso anche acribico, uno sguardo gettato su una realtà microscopica, pixellizzata (e quindi scontornata), dalle stelle agli acari, quasi che il calarsi nella realtà fosse un attraversamento di strati e livelli, come in certi film dove il satellite zoomando si cala nel poro della pelle del protagonista. La realtà cambia se la si guarda da molto vicino? (ma qui bisognerebbe per l'ennesima volta riaprire il discorso sul divario tra realtà e reale). Temo di no, temo che sia troppo complessa per poterla sistematizzare in questo modo. Rimane certo il grido solitario e cocciuto di fronte al vuoto, non potendo comprendere ciò di cui si fa parte come minuscolo frammento, come la scheggia di uno specchio immenso, against the fog but part of it, come recita un esergo di Sean O'Brien. E non posso fare a meno di trovare, oltre agli esiti letterari, qualcosa di eroico in questa battaglia perdente, che non è solo di Davide e di altri della sua generazione, ma nella quale Davide è un buon soldato, con le sue armi, con le sue paure, le sue perlustrazioni in terre di nessuno, le sue ritirate. (g. cerrai)

da Privati

All’ingiù

a Franco

Sì ho tagliato i capelli, colpa del caldo,
domani nevica, mi sa! e mi sarei
guardato le scarpe, davanti agli amici,
no, meglio un punto tra i cespugli
cui non appartengo. Nevica
infatti. La neve, i familiari in visita
mi hanno informato, tu l’hai messa in una domanda
senza tenerla sulla voce la neve
hai chiesto se c’era, lasciando sgomenti
l’afa alle finestre, l’urgenza loro il
policlinico, giugno. Non vengono meno
i giochi all’ingiù, il mio stare occhi all’ingiù
come una conta a nascondino con la colpa
di una frase che quando è fatta è fatta
il tuo scompenso da non dire da dirne male da uscirne
pronunciati male, l’andirivieni,
i fiocchi indaffarati sì ma solo lievemente
contro le gravità, a carezzarle.




Di misura

Caseggiato all’uscita ovest
di… una scatola povera
da scarpe da qui
l’era industriale c’è ancora

uno stabilimento a nome Alexandria
il lato lungo io volevo
misurarlo nel semibuio
tu stimasti a quattro metri e un po’

quel furgoncino bianco Iveco
un’accidentata
estranea unità di misura
scordata all’angolo di una strada

uscita ovest di Alessandria.
C’era a contorno l’anguraio
la stazione di servizio
a vista, non lontano il platano

il mio platano storico nel viola elegia
assurda fuoriposto e poi
ma perché elencare
perché fare mio,

stimare un intorno a occhi
e una croce di meno
ma allora,
nel senso del tempo.




Ape

Sul battiscopa la sua mite industria
le rimane aliena. Parlo di cose più grandi
di noi, di un’ape che si arrampica,
malamente – ti suono lontano, al telefono, e quella pena
in salita, che non potrà salvarsi
dai ricami sull’esistenza e i merletti accaniti
si stacca; è un corpo
per terra; tòrto; terminale.
Capiterà di pestarlo; passare
l’aspirapolvere la spugna e via.
Avrò strisciato un ciao in minore
e chiuso, avrò passato l’aspirapolvere, e via,
l’acino scheletrito ascende e va alle stelle
la fiducia alla tele, l’annuncio
che la stagione si apre in grande
e macché cadere lei dolcemente scendeva
dal pendio domestico, che l’inverno è anche questo.




Quello che non c’è

Ho deciso per me un segnale, un camion
svoltare dove c’è l’insegna gialla.
Di scatto, quindi, la mente – fermarla.
Ma non su noi che ci sopravviviamo
intuendo il fiorire da lontano,
solo e caparbio, dell’uno e dell’altra.
Scusate, ma in autunno ci si ammala
d’intimismo, si indugia nel malanno
del verso che si appoggia con dolcezza
al verso precedente. Uno il bene
che viene dalla lama, dall’accetta,
la forza che ne brilla, lo risente.
Uno il bene, due diviso, poi brezza
che non c’è. Svolta il camion, banalmente.




Stava come un’attenta protesta, silenziosa e che fotografava
dei ritrovati su bancarelle nell’entroterra recente,
più avanti il porto, qui oggettistica offuscata;
o su dalle scale di un molo o dal cavalcavia come la ragazza delusa
in After Life, film di chi censisce e soppesa devoto
il poco da tenere, la medietà da scordare
di persone ordinarie venute
a mancare senza dramma – allo stesso modo
lei stava lì e dall’obiettivo
se era di altri si tagliava via
con l’accortezza di quando il suo aveva incluso il resto,
cattedrali gotiche o sagome sotto gli ombrelli;
via, si tagliava via perché l’immateriale
più è vicino e più perdura negli altri, credeva.


da Le bolle azzurre (e altre province)

Le bolle azzurre - III

anni prima                    sedici fa scendo in acqua
c’è cloro indelicato i riflettori a timpano in alto
una mappa stellare facilitata andando a dorso
su onde a guanciale, mai nuotare a cane o fare il morto
testa sotto soffiate piano fate tante bollicine
mi assaltano loro l’ho contro il tempo più cronometro
più colpi d’istruttori battuti ritmati sul bordo…
capire il respiro come corpo mi avrebbe risolto
circola invece allo stato attuale liquidità e molta
va in onda magnanima include
la solitudine del sodio il non ricordo il non sarà
stata la soluzione ma noi all’oscuro di noi




Corsa senza andata

C’è il guardrail fossile di serpente
ma nessuna tentazione di superarlo o di
interromperlo – è indiscutibile dal pullman che si limita
a spostarsi mentre tu sai viaggiare. Una svolta,
eppure si ripropone
al pari delle centrali
e delle fabbriche un po’ museo per non parlare
dei campi – che a guardarli misurano soltanto
la nostra lontananza
dalle nostre mani. È che molto non se ne va,
molto è nuovo sempre: questa ora attraversata di anni
ne vale trenta – i tuoi, quelli di un paese
in cui le fermate sono una sola
che è sconfinata e ripaga l’attesa
con il culto dell’attesa. Piuttosto si comincia
con chi scende alla lettera da qualche vigalfo
italia villanterio
o cambia provincia con il più in là
del finestrino sugli occhi: sui tuoi si è impressa
una bimba che dà un sorriso e se stessa
correndo porta via.




Non so scegliere né rinunciare, pertanto questa
compresenza di erba incolta e di erba pareggiata sembra
in grado di appagarmi. Come gli alberelli piantati contro
l’insperata assenza di fastfood, gli steccati in legno
grezzo che aprono alle case di famiglie immigrate e che,
anni dopo, rasentano un tenore da classe media. I loro
figli si arrampicano comunque sulle tettoie chiamandosi
a distanza, inondando i nuclei limitrofi, immettendo
una musica ruvida, un tessuto come di cavi appesi che
percorre la comunità in parte. Li intravedo dietro i
platani imponenti, altri ai bordi dei binari, penso che si
portino dentro un fuoco popolare. Forse idealizzo, e con
presunzione, ma sono attimi in cui si tenta di ricostruirsi
a ritroso, finché un’intensità nell’accettarsi ci assale e
basta, una pace forte dove le nostre idiosincrasie sono
preziose, e scintillano appena prima del rientro a casa.



Anne Sexton, poesie tradotte da Chiara Serani

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anne sextonAnnoverata tra quei confessional poets che negli anni Cinquanta e Sessanta rivoluzionarono la scrittura poetica coeva con la messa in scena di drammi personali ed esplorazioni sfrontate di interiorità ora realmente patologiche, ora performativamente isteriche, Anne Sexton è stata di certo una poetessa originale e innovativa. In parte, anche più di Sylvia Plath, di cui fu amica e alla quale viene sempre accostata (anche qui, invero) in un confronto che in genere la vede perdente. In realtà, la Sexton fu sì meno colta e meno raffinata dell’altra ma, a rileggerla oggi, ben più modernamente ambigua, soprattutto nei confronti della cruciale rappresentazione, per entrambe, del rapporto uomo-donna. Se infatti la Plath declina il suo immaginario di ribellione al maschile soprattutto nella diade “padre”-“marito”, la Sexton si confronta con una quaterna composta da “padre”, “marito”, “amante” e “Dio” e la investe di un’ambivalenza in cui, per esempio, le figure dell’amante e del divino si sdoppiano e si moltiplicano di ruolo. Se l’amante può, semplicemente, essere donna (come fu anche, talora, nella vita della Sexton) o farsi, da un punto di vista simbolico, figura edipico-paterna, Dio rappresenta sia l’ipostasi suprema di un patriarcato puritano e repressivo sia un accogliente rifugio materno verso cui anelare (e del resto la Sexton dirà che “Dio è donna”). Al di là di questo precoce e antesignano tentativo di andare oltre il genere, la Sexton scompagina le carte dell’imperante femminismo ideologico dell’epoca (che invece della Plath fece, notoriamente, il santino) proprio per la sua feconda irresolutezza nei confronti del desiderio per l’uomo-amante. La relazione adulterina e i suoi oggetti libidici rimangono difatti sempre in bilico tra volontà di fusione e rifiuto doloroso, erotismo estatico e rabbia rivendicativa, liberazione fisica e intimo senso di colpa, gioia e angoscia.

Propongo dunque qui alcune nuove traduzioni di testi della poetessa incentrati proprio sul ruolo dell’amato-amante. I primi tre provengono da una delle raccolte più note e fortunate della Sexton, Love Poems (1969), dedicata al rapporto extraconiugale da lei intrattenuto con il suo psicoanalista dell’epoca, Ollie Zweizung, mentre il quarto proviene dall’opera postuma 45 Mercy Street (1976). Si legge, in queste poesie della sua maturità, tutta la capacità dell’autrice di trasfigurare il confessionalismo autobiografico in scenari filtrati da una spiccata, talora melodrammatica, performatività (non per nulla la Sexton non apprezzò mai l’etichetta “confessional”, preferendo definirsi una “storyteller”), come nel caso della famosa The Ballad of the Lonely Masturbator, audace e ironico canto di riappropriazione del corpo e del piacere femminile in una società perbenista come quella americana dell’epoca, agli albori della rivoluzione sessuale. Ma tale riappropriazione, più che politicamente rivendicativa, discende dalla perdita dell’amante, ed è quindi frutto di un dolore che in realtà inscena la debolezza e insicurezza della donna, la quale si sdilinquisce rievocando gli incontri perduti con il suo uomo e meditando sulle menzogne dell’amore. Anche la splendida Usè percorsa da una forte drammatizzazione poetica, in cui l’amplesso diviene una sorta di unio mystica dalla quale far scaturire un oro che è quasi un simbolo alchemico di rinascita corporea e spirituale. Se l’esaltante esperienza erotica funziona qui da grimaldello emancipatorio, persino in questo caso la donna risulta volontariamente agita dall’uomo, da lui liberata dagli orpelli della sua vita borghese e incoronata principessa. Mentre in Us l’amante è il tramite per l’estasi, in December 11th – che fa parte di una serie di testi intitolata Eighteen Days Without You, esito della rottura della relazione con Zweizung – la sua assenza sprofonda la donna in una solitaria rêverie mnestica improntata, ancora, a un’appassionata nostalgia per il corpo maschile e i passati incontri amorosi. Infine, la traboccante sessualità di The Fierceness of the Female si confronta con un Dio-amante al quale offrire un orgasmo che è insieme grata affermazione vitalistica per l’eros e proclamazione di una “fierezza femminile” che va oltre il maschile e sfida persino il divino disincarnato. Perfetta bussola per la ricchezza e reversibilità dei ruoli amorosi nella poesia della Sexton è, in fondo, l’epigrafe che, da un saggio di W.B. Yeats, introduce proprio Love Poems: «One should say before sleeping, “I have lived many lives. I have been a slave and a prince. Many a beloved has sat upon my knees e I have sat upon the knees of many a beloved. Everything that has been shall be again.”»[1]. (chiara serani)



[1]«Ci si dovrebbe dire, prima del sonno: “Ho vissuto molte vite. Sono stato uno schiavo e un principe. Molti amori ho tenuto sulle ginocchia e sulle ginocchia mi hanno tenuto molti amori. Tutto ciò che è stato, di nuovo sarà”» (traduzione C. Serani).



The Ballad of the Lonely Masturbator

The end of the affair is always death.

She’s my workshop. Slippery eye,

out of the tribe of myself my breath

finds you gone. I horrify

those who stand by. I am fed.

At night, alone, I marry the bed.

Finger to finger, now she’s mine.

She’s not too far. She’s my encounter.

I beat her like a bell. I recline

in the bower where you used to mount her.

You borrowed me on the flowered spread.

At night, alone, I marry the bed.

Take for instance this night, my love,

that every single couple puts together

with a joint overturning, beneath, above,

the abundant two on sponge and feather,

kneeling and pushing, head to head.

At night, alone, I marry the bed.

I break out of my body this way,

an annoying miracle. Could I

put the dream market on display?

I am spread out. I crucify.

My little plum is what you said.

At night, alone, I marry the bed.

Then my black-eyed rival came.

The lady of water, rising on the beach,

a piano at her fingertips, shame

on her lips and a flute’s speech.

And I was the knock-kneed broom instead.

At night, alone, I marry the bed.

She took you the way a woman takes

a bargain dress off the rack

and I broke the way a stone breaks.

I give back your books and fishing tack.

Today’s paper says that you are wed.

At night, alone, I marry the bed.

The boys and girls are one tonight.

They unbutton blouses. They unzip flies.

They take off shoes. They turn off the light.

The glimmering creatures are full of lies.

They are eating each other. They are overfed.

At night, alone, I marry the bed.


Ballata della masturbatrice solitaria

La faccenda si conclude sempre con la morte.

È lei la mia officina. L’occhio infido,

dalla tribù di me stessa è il respiro

che ti scopre sparito. Terrorizzo

chi mi sta vicino. Mangio.

La notte, da sola, sposo il mio letto.

Un dito dopo l’altro, la faccio mia.

È a portata di mano. Me la trovo davanti.

La suono come una campana. Mi stendo

nel canto dov’eri solito montarla.

Mi prendevi in prestito sulla coperta a fiori.

La notte, da sola, sposo il mio letto.

Pensa per esempio a stanotte, amore mio:

ogni singola coppia si unisce,

all’unisono s’inverte sossopra,

un’abbondanza fatta di due su gomma e spugna,

in ginocchio, spingendo, testa a testa.

La notte, da sola, sposo il mio letto.

Così facendo schizzo via dal corpo,

è un miracolo irritante. Posso forse esibire

il mercatino dei sogni?

Sono spalancata. Mi tormento.

Mia piccola susina, dicevi.

La notte, da sola, sposo il mio letto.

Alla fine venne la rivale dagli occhi neri.

La signora delle acque, sorta dalla riva,

un pianoforte alle dita, la vergogna

sulle labbra e parole flautate.

Io, un manico di scopa con le gambe storte.

La notte, da sola, sposo il mio letto.

Ti prese come una donna che prende

un vestito a saldo da uno scaffale,

e io mi sbriciolai come una pietra.

Ti rendo i libri e la roba da pesca.

Dice il giornale che non sei più scapolo.

La notte, da sola, sposo il mio letto.

Ragazzi e ragazze stanotte sono tutt’uno.

Sbottonano camicie. Abbassano cerniere.

Si tolgono le scarpe. Spengono la luce.

Creature scintillanti colme di menzogne.

Si mangiano l’un l’altra. Sono sazi.

La notte, da sola, sposo il mio letto.


*

Us

I was wrapped in black

fur and white fur and

you undid me and then

you placed me in gold light

and then you crowned me,

while snow fell outside

the door in diagonal darts.

While a ten-inch snow

came down like stars

in small calcium fragments,

we were in our own bodies

(that room that will bury us)

and you were in my body

(that room that will outlive us)

and at first I rubbed your

feet dry with a towel

because I was your slave

and then you called me princess.

Princess!

Oh then

I stood up in my gold skin

and I beat down the psalms

and I beat down the clothes

and you undid the bridle

and you undid the reins

and I undid the buttons,

the bones, the confusions,

the New England postcards,

the January ten o’clock night,

and we rose up like wheat,

acre after acre of gold,

and we harvested,

we harvested.


Noi

Io ero avvolta in una pelliccia

bianca, e nera, e tu

me la togliesti e poi

mi adagiasti nella luce d’oro

dove mi hai incoronata

mentre dardi di neve

fioccavano di sbieco alla porta.

Quella spanna di neve cadeva

come una pioggia di stelle

in briciole di calcio,

e noi eravamo nei nostri corpi

(quella stanza che ci seppellirà)

e tu nel mio corpo

(quella stanza che ci sopravvivrà)

e dapprima con un panno

ti asciugai i piedi

perché ero la tua schiava

quando tu mi proclamasti principessa.

Principessa!

Ed ecco, allora

io sórsi nella mia pelle d’oro

e mi sbarazzai dei salmi

mi sbarazzai dei vestiti

e tu sciogliesti le briglie

sciogliesti le redini

e io slacciai i bottoni

scardinai le ossa, le incertezze,

le cartoline del New England,

le notti di gennaio alle dieci,

e noi ci levammo su come grano,

campi e campi d’oro,

e mietemmo, noi

mietemmo.


*

December 11th

Then I think of you in bed,

your tongue half chocolate, half ocean,

of the houses that you swing into,

of the steel wool hair on your head,

of your persistent hands and then

how we gnaw at the barrier because we are two.

How you come and take my blood cup

and link me together and take my brine.

We are bare. We are stripped to the bone

and we swim in tandem and go up and up

the river, the identical river called Mine

and we enter together. No one’s alone.


Undici dicembre

Ed è a te che penso, a letto,

alla tua lingua d’oceano e cioccolato,

alle case in cui svicoli via,

a quei capelli che hai di lana d’acciaio,

così alle tue mani onnipresenti, e poi

a come in due erodiamo la barriera di essere due.

A come vieni e impugni la mia coppa di sangue,

riunendomi a me, bevendo il mio mare.

Nudi. Siamo nudi fino all’osso

e nuotiamo insieme, su sempre più

su per il fiume, per l’identico fiume di me stessa

in cui insieme ci inoltriamo. Nessuno da sé.


The Fierceness of Female

I am spinning,

I am spinning on the lips,

they remove my shadow,

my phantom from my past,

they invented a timetable of tongues,

that take up all my attention.

Wherein there is no room.

No bed.

The clock does not tick

except where it vibrates my 4000 pulses,

and where all was absent,

all is two,

touching like a choir of butterflies,

and like the ocean,

pushing toward land

and receding

and pushing

with a need that gallops

all over my skin,

yelling at the reefs.

I unknit.

Words fly out of place

and I, long into the desert,

drink and drink

and bow my head to that meadow

the breast, the melon in it,

and then the intoxicating flower of it.

Our hands that stroke each other

the nipples like baby starfish –

to make our lips sucking into lunatic rings

until they are bubbles,

our fingers naked as petals

and the world pulses on a swing.

I raise my pelvis to God

so that it may know the truth of how

flowers smash through the long winter.


La fierezza della femmina

Roteo,

roteo sulle labbra,

mi spogliano dell’ombra

e del fantasma del passato

forgiando uno scandire di lingue

che mi assorbe interamente.

E non vi sono stanze, lì,

né un letto.

L’orologio non batte

se non al vibrare delle mie 4000 pulsazioni,

e dove tutto era assenza

tutto è due,

due che si toccano come un coro di farfalle,

e come l’oceano,

che si protende alla terra

e arretra

e si protende

con quell’urgenza che mi galoppa

ovunque sulla pelle,

gridando agli scogli.

Mi sciolgo.

Le parole volano fuori sesto

e io, da tempo nel deserto,

bevo e bevo

e riverisco quel giardino,

il seno, il melone che alberga

e il suo fiore inebriante.

Le nostre mani che si sfiorano l’un l’altra

i capezzoli come piccole stelle marine –

per fare delle labbra avidi anelli di follia

sino a che non diventano bolle,

sono nude come petali le dita

e il mondo pulsa ondeggiando.

Innalzo il ventre a Dio,

che si sappia la verità

su come i fiori fracassano il lungo inverno.



Chiara Seraniè Dottore di ricerca in letterature straniere moderne. Ha insegnato Scrittura critica e Lingua inglese all’Università di Pisa, dove si è laureata in Lettere nel 2001. Si è occupata di postcolonialismo e poesia anglofona moderna e contemporanea. Tra le sue pubblicazioni Salman Rushdie. La storia come sperectomia, Aracne 2010;The August Presence. T.S. Eliot nell’opera di Philip Larkin, Aracne 2010; Teoria e prassi intralinguistica. Letture anagrammatiche di testi poetici anglofoni moderni e contemporanei, Ets 2010;The Creation Story of Civilization. Cosmogonia e mito eroico nell’opera di Ted Hughes, Ets 2010. Ha pubblicato saggi in volumi collettanei e su rivista, tra cui Strumenti Critici, Anglistica Pisana, Soglie  e Il Grandevetro. È traduttrice freelance dall’inglese all’italiano.


Illustrazione tratta da Pinterest


L'è el dì di mort, alegher! - I morti, Caporetto, Tessa

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Un'occasione in questi giorni per prendere due piccioni, anzi tre, con una fava. Delio Tessa visto da GiannelliRicorrono i morti (e lasciamo perdere le barzellette al riguardo), è il centenario della disfatta di Caporetto e, tertium datur, le due cose si combinano in un poeta che ha avuto alterne fortune, come gran parte della poesia dialettale italiana. Parlo di Delio Tessa e della sua Caporetto 1917, «L’è el dì di Mort, alegher!», Sonada quasi ona fantasia, contenuto in L'è el dì di mort, alegher ; De la del mur e altre liriche, a cura di Dante Isella, Einaudi 1985, che peraltro è possibile reperire in rete, anche se privo di apparato critico. Tessa, come afferma P.V. Mengaldo includendolo nel suo Poeti italiani del Novecento, è "uno dei più grandi del nostro Novecento senza distinzione di linguaggio", aggiungendo che "il disinteresse per questo poeta è una vergogna per la critica italiana" (ma si era nel 1978 e a quel tempo Isella, uno dei massimi studiosi della letteratura lombarda, stava ancora lavorando sull'opera di Tessa). Sta di fatto che questi giudizi possono essere ancora in parte sottoscritti, poiché è certo vero che Tessa è un eccellente poeta, basta leggerlo anche solo nelle "traduzioni" in lingua italiana per rendersene conto, ma è anche vero che Tessa, come la poesia dialettale in genere (ma è categoria però piuttosto generica, basti pensare alla reinvenzione dialettale di Scataglini e la rilevanza particolare che assume un poeta che amo, Emilio Rentocchini), rinnova qualche interesse nella critica. Cito a mero titolo di esempio l'edizione della stessa opera a cura di Mauro Bignamini, per i tipi delle Edizioni dell'Orso, 2014, che prende in esame le concordanze dell'opera di Tessa a partire proprio dall'edizione iselliana; e in ambito più generale, sempre a titolo di esempio, citerei i volumi L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila , a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi, Giuseppe Nava e Christian Sinicco per i tipi di Qwynplaine, 2014; e inoltre (ma qui siamo decisamente sulla produzione attuale) Guardando per terra. Voci della poesia contemporanea in dialetto (LietoColle 2011). Il Sud, come sempre, è minoranza nella minoranza, con buona pace degli "eredi" di Pierro e Buttitta, sebbene non manchino anche oggi voci molto interessanti (ad esempio gli apprezzabili Giuseppe Samperi - v.QUI , o Marco Scalabrino - v.QUI ), tanto che per la poesia dialettale sembra quasi inevitabile parlare di linea settentrionale. Da ricordare infine, facendo un passo indietro, Franco Brevini, autore dell’antologia Poeti dialettali del Novecento (Einaudi, 1987), coeva dell'impegno di Isella, e i tributi seppur non esaustivi che a Tessa hanno dedicato Pasolini, Fortini, Loi, Giuseppe Anceschi, Cases e altri.
Il libro L'è el dì di mort, alegherè l'unico pubblicato in vita da Tessa, nel 1932, ma la "sonada" risale al 1919, appena un anno dopo la conclusione della Grande Guerra, e nello stesso anno della dannunziana"vittoria mutilata" dal Trattato di Versailles che secondo Salvemini rientrerà a pieno titolo nella mitologia patriottica fascista. E questo è un fatto già abbastanza singolare, leggendo quanto e come il testo mette in scena. Non c'è nessuna vittoria da celebrare, per Tessa, c'è semmai da ricordare l'impatto fortissimo sul sentire popolare della tragedia di Caporetto, di quella "inutile strage" della Lettera ai capi dei popoli belligeranti di Benedetto XV, un centenario anche questo (1 agosto 1917), se proprio vogliamo ricordarcelo. E proprio il punto di vista popolare che Tessa cerca di interpretare, un punto di vista forse poco patriottico, di gente comune anche preoccupata delle sue cose e della sua vita, quella stessa gente che ha fornito i fantaccini mandati al macello, "quelli che marciscono là... che hanno finito la guerra e, se Dio vuole, sotto terra, a macero...", e che teme perfino che i tedeschi arrivino fino a Milano. Da lì viene questa lunga corale intrecciata di voci, la sua ispirazione e la sua giustificazione anche morale: "Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla. Squisitamente parla ancora un suo mutevole linguaggio sempre ricco, sempre vario, sempre nuovo come le nuvole del cielo", scriverà Tessa nella "Dichiarazione" che precede la prima edizione del libro. Da lì, quindi, dal popolo, per Tessa giunge anche una patente di verità, di realtà, in qualche modo un mandato, e insieme una forma e una sostanza, un metro e una lingua adatta allo scopo, ordinaria, disarticolata come un cicaleccio, dialogica, idiolettale, scenica e fortemente icastica, anche in forza del ritmo sostenuto e insieme sincopato che la innerva, come una piazza affollata e inquieta in cui tutti parlano tutti insieme. E' un popolo tutto sommato senza speranza, che di lì a qualche anno sarà inquadrato nelle adunate oceaniche del fascismo, del quale Tessa, fondamentalmente anarchico, sarà un oppositore fino alla morte, avvenuta nel 1939, prima di vedere l'ulteriore immensa "macelleria" della Seconda Guerra. Considerato da alcuni un bozzettista, da altri un crepuscolare, tuttavia, come aveva notato Fortini, il recupero di certi motivi e stilemi e il ricorso ad una lingua popolare - peraltro, più che sorgiva, secondo me abilmente manipolata - va considerato, specie nelle opere seguenti, pubblicate tutte postume, anche come una posizione antiretorica, "quanto più la contemporaneità gli si presentava con i tratti odiosi del fascismo" (Mengaldo), venata, sembra chiaro, del "radicale pessimismo antropologico" che gli attribuisce Fortini. Ma forse, leggendo Tessa, il carattere che più sembra colpire è l'espressionismo che Pasolini aveva individuato, se non erro in Poesia dialettale del Novecento, un espressionismo europeo, per le tinte anche forti (bisognerebbe leggere ad esempio La mort della Gussona) che richiamano Dix, Grosz, Kokoschka; e per lo stile fonico-ritmico, l'imitazione del parlato, la frattura linguistica e lessicale fino talvolta a segnare un passaggio "dal semantico all'asemantico" (Gibellini), la narrazione per frammenti trasposti e rimontati, e così via (e non bisogna dimenticare che, a quanto sembra, era anche un abile performer delle sue poesie). Non è difficile immaginare, al di là del confinamento, specie nei primi anni, in una cerchia ristretta e della questione lingua/dialetto talvolta usata in funzione ghettizzante, quanto fosse e apparisse moderno Delio Tessa. (g.c.)


Caporetto 1917 - «L’è el dì di Mort, alegher!» Sonada quasi ona fantasia

Alla Signora Elisabetta P. Keller

Torni da vial Certosa,
torni di Cimiteri
in mezz a on someneri
de cioccatee che vosa,
de baracchee che canta
e che giubbiana in santa
pas con de brasc la tosa.

L’è el dì di Mort, alegher!
Sotta ai topiett se balla,
se rid e se boccalla;
passen i tramm ch’hin negher
de quij che torna a cà
per magnà, boccallà:
scisger e tempia... alegher

fioeuj, che semm fottuu!
I noster patatocch
a furia de traij ciocch,
de ciappaij per el cuu,
de mandaij a cà busca
m’àn buttaa via la rusca,
scalcen a salt de cuu,

scappen, sti sacradio,
mollen el mazz, me disen,
mollen i arma, slisen
de tutt i part, el Zio
me l’à pettaa in del gnàbel
longh quatter spann e stàbel,
l’è el dì di Mort e dio!

Passen i tramm ch’hin negher
gent sora gent... lingera...
tosann e banch de fera!...
«Oh i bej coronn!»
«Alegher!»
«oh i bej lumitt!»
«oh i pizzi,
le belle tende, oh i pizzi!»
«L’è el dì di Mort... alegher!»

... e giò con sta missolta
de locch che a brigadella
canta alla-loibella:

«O macchinista
ferma il diretto
perchè al distretto
me tocca andà...»

- questa l’è bonna! scolta:

«stacca la macchina,
ferma il diretto
che son costretto
d’andà a soldà!»
... a furia de batost
tirom là...
«Caldarost!»
... e giò vers porta Volta,

adree con sto mis-masc
de ciocch che se balanza...
Te vedet?! No me vanza
pu che i nost quatter strasc,
l’eredità l’è andada,
semm in bolletta in strada
tornèmm a fà el pajasc!

Comincia adasi... adasi...
a vegnì sira... e là...
– canten anmò, dà a trà –

«... che al mio paese
voglio tornà...»

giò vers Milan l’è quasi
scur... rong e semineri,
navili e cimiteri
suden adasi, adasí,

umed e nebbia... Ottober,
cocober... pover nun!
vun per vun, vun per vun,
me perteghen i rogher!
Oh Gesù, che sbiottada
de piant! che pertegada
là sù!... Ottober... cocober!...

Turines giolittian,
milanes socialista,
coragg, lustrev la vista!
Tognitt de San Damian,
slarghev el coeur, hin chì...
torna i todisch... hin chì...
riven qui car pattan,

qui car barbis, qui rost
de cojn!
A stondera
per i banch della fera
pavani e pensi ai nost
miseri:... rogn, deslippa
e generaj de pippa!...
e quell dì... «Caldarost!...

Caldarost!...» ... e quell dì
vedi... (Madonna! Dò?
tre settimann ammò?...)
... che in piazza o forse lì
dal Briosch: «T’ée sentii?...
– me diran – ... t’ée sentii?...
riven... ghe semm... hin chì...

mòllen di part de Bressa,
riven... hin a Veston!
de Desenzan, Gardon
scàppen... cara el me Tessa,
stemm d’oca!...» e mi, de slanz,
foeura!... lì inscì denanz
del Campari... gh’è ressa...

pienna la Galleria...
gent che rebutta... duu
che vosa... «... A pee in del cuu
vemm inanz! ... sansesia
m’àn sfottuu!» «Non bisogna
cedere!»... gent che rogna...
gent che inziga sott via...

che rebuij e che baja.
Balengo, rocchetton,
vasco, batta-bastion,
vàrdela la loccaja,
ch’è sbottida di boeucc
foeura in Piazza! Linoeucc,
coo d’aria, razzapaja,

foeura a fagh festa al Zio!
«Silenzio!» «Taja!... Taja!...»
Sèntela la loccaja
che se scadenna!... «... Mio
oeij Majo!... tirel piatt!
mócchela, ciccolatt!»
«Ma silenzio... per Dio!»

«Citto!» Dai ammezzati
lèggen a ona finestra
el Bolettin «... a destra
del Brenta, incendiati
i depositi, in dura
lotta nella pianura,
ci siamo ripiegati...»

«Te sèntet?... ripiegati!»
«Silenzio!» «Cóppet! Faccia
de cuu de can de caccia!»
«... coi reparti alleati...»
«... bon quell’oss!» «Ma tralasci
i suoi commenti e lasci
terminare!» «... e schierati

combattendo fra Po
ed Adige, sul Mincio,
secondo i piani...» (... crincio!
tè lì dov’hín gemò!
sul Mincio... propi!) «abbiamo...»
«Cossa l’à ditt? Abbiamo...
e poeu? se capiss nò!»

L’à ditt – evacuato! –»
«Coss’è?» «Mah!» «ad occidente...
abbiamo nettamente
respinto...» «... Evacuato
putost!» «... in nostre mani...»
«Tutt ball!» «... areoplani...»
«... Ghe voeur alter!» «... firmato

Cadorna!» « Bolletton!
va a scóndet, brutt malann
e càscen pu de cann!»
«Se sent gemò el canon
foeura di dazi!» «Lei,
non si vergogna, Lei!»
«De coss’è? gh’è el canon,

segura! gh’è el canon
che se sent!» «Allarmista!»
«Napoli!» «Disfattista!»
«Va al tò paes, rognon
de fidigh!... aria!» «Lei,
Lei, venga con me, Lei!»
«Mi, con lu?! L’è el padron

del vapor lu? dà a trà,
oeuj, el voeur menamm sù,
el voeur! ... ma chi l’è lu?
chi l’è?» «Làssel andà!»
«Napoli!» «Rinnegato!»
«L’è vun del Comitato!»
«Daij che l’è on sciatt! ... sà... sà...

oeuj!» «Làssel andà!» «Giò!
pèstegh giò!» « Italiani
senza patria! a domani!»
«Doman, sì!... speccia bò!»
«Lobbia!» «va al tò paes,
o crist d’on milanes
arios! va a digh ai tò
ch’àn sbagliaa el primm botton,
tiren inanz la guerra
per coppamm, tramm in terra,
eccola la reson!»
«Mascanbroni, l’è ora
de finilla!» «In malora
m àn traa!...» «Rivoluzion,

sù!... sù!... Rivoluzion!»

«Avanti, o Popolo, alla riscossa!
Bandiera rossa, bandiera rossa!»

... Signor! Signor! ... deslippa,
rogn, generaj de pippa,
vemm a tocch e boccon!
... Rivoluzion... vardee!...
Car Signor, compagnee
qui de per lor...

«Bandiera rossa la s’innalzerà,
Bandiera rossa della libertà!»

Canzon
de guerra, della trista
guerra, sù! sù bandera
rossa de temp de fera!
Anarchich, socialista,
sù che ghe semm... l’è ora!
sbragee, scarpev la gora,
allon, lustrev la vista,

slarghev el coeur, ghe semm!
E intrattanta che dì
per dì, giò, dì per dì,
d’ora in ora andaremm
giò, giò, a pocch a pocch
tutti in d’on mucc a tocch
e boccon, a patremm,

che sulla Madonnina
«Bandiera rossa...» là
sù... «... la s’innalzerà!»
e che faran tonina
per i cà, per i straa,
per i piazz... «... àn coppaa
l’Albertin, stamattina,

viva nun!... l’àn traa là,
pugn, pesciat... “l’eet voruda
la guerra, porco giuda!...
daij, sassat... gh’àn faa fa
la mort del Prina!» intanta
che se coppa e se canta,
tè lì... cominciarà

per Milan la passada
di legor... on mis-masc,
on mes’cioss, mucc de strasc,
gent stremida, sbiottada
e che in fuga... «... i croatt...
i croatt...!» van a sbatt
i so oss su ona strada!

Paisan ch’àn lassaa
là... terra, vacca, roij
e se rusen... «Madoij,
na poss più!»... caregaa
come muij, coi fioeu
e la donna «O Tanoeu,
scià... gnèman...» e soldaa

e soldaa in filera
trista, in filera grisa...
«... taja la corda, slisa,
femm societaa... bandiera
rossa... suu!» e el canon
che brontolla, el canon
che rogna in la scighera...

Scolta! vers Melegnan
giughen ai bocc col Zio,
riven sta volta e dio!
... vegnen sù de Drusan,
passen de Modigliaa,
Colturan, San Donaa,
passen l’Adda a Cassan,

salta el pont de Paderno,
brusa stabiliment,
cà, gent che sgara, gent
che se calca... e l’inverno,
la nebbia, fora... fora...
areoplan che sgora,
bomb che s’cioppa! on inferno!

fora... fora... scappemm!
E me pader che balla
per cà... «... ma coss te calla
ancamò? vemm o stemm?»
« Senio, cià, damm i sent,
vardi là... gh’è pu nient
de mett dent?» «... prest, andemm,

sara sù... dove veet,
Clara!... la macchinetta
del spirit? petta, petta
tè la chì, coss te gh’eet
de mett dent ancamò?
quisti chì?...» «... secca nò,
lassa stà, se te gh’eet

d’andà alla Banca, va,
ciappa temp, va alla Banca
putost, va – l’è puranca
on toeu fiaa quell’omm! –» Là
ai cassett gh’hin là tucc
del scior Cerutti in mucc
ai sporteij... «Firma, cià

sto librett... la ciavetta...
derva...» e foeu... cinqu per cent,
cartell, posat d’argent,
trii e mezz... e impacchetta,
liga... «... e quj della Lina?
quj della zia Angelina?
e quj dell’Erminietta?

(gh’óo pienna la cassetta
della roba di alter...)
cossa en foo? ghe voeur alter
chì che sta valisetta!...
cià... cià... quj della zia,
tuscoss...» e via, e via
a pescian vers Corbetta,

a pescian vers Baregg,
Sedrian, vers Tesin
e dree-via (on trattin
trenta mia!) a paregg
che vivee! che missolta!
(e la nebbia! e la molta!)
on mes’cioss, on bodegg

in ombria... e se va,
e se va... e la sira
intrattanta, la sira
che ven foeura de cà,
che s’invia e col sò
smorziroeu la ven giò,
per incoeu, a requià

trebuleri, a quattà
miseri... e la nott poeu
che la gattona foeu
con la pattonna!... e va
che te va... dove vemm?
a Tesin? a patremm?
dove semm?... giò de là...

(vers Milan? vers Baregg?)
... giò de là... che scuroeu!
Gesù-dio! o fioeu,
degh on oeucc! a paregg
(dove sont?) on vivee...
baracchee... cioccatee...
(fegh a ment!) on bodegg

in ombria... dessèdet,
sù descàntet!... lingera,
tosann e banch de fera!
Gamba-de-legn... te vèdet,
ghe semm denter! tramm negher,
gent sora gent, alegher!
l’è el dì di Mort... dessèdet!

Torni de la Bullona,
torni di Cimiteri,
in mezz a on someneri
de vasco che slandronna,
de trionfa... «La vita,
– passa on carell – La vita
sciori!»... che se dondonna,

che giubbiana e che baja.
Là di part del Rondò
–  fèrmet on bott – là giò,
sèntela la loccaja
che la ghe va su bella!

«Cadorna per le feste
l’à scritto alla Regina:
– la voeur vedè Trieste?
gh’el mandi in cartolina! –
Bim, bom, bom
Al rombo del canon!»

a rosc e a brigadella
sotta la nivolaja
umeda, pien de vin,
cànten su la bassora,
cànten a scarpa-gora...

«... e m’ànno destinato
al sesto fanteria
per essere mandato
alla macelleria!...
Bim, bom, bom,
al rombo del canon!»

A pos al Sempionin,
vàrdela là la faccia
del sô che la se quaccia
sotta al so prepontin

de nivol... sotta ai dobbi!
– tosann, andemm a nana
sotta i covert de lana! –
Sbarlusa sora ai stobbi...
(di part della Bullona
gamba-de-legn che sona!)
... sbarlusa in mezz ai pobbi

del stradon de Musocch
dree-terra ona rianna
de foeugh... là... che sanguanna!
«... ma el general Cadorna
el magna, el bev, el dorma
bim, bom, bom
al rombo del canon!»

... canzon che riva a tocch
e boccon e slontanna
di part de là... rianna
de sang che a pocch a pocch,

gott a gott, sui camin,
sui copp di lavoreri
de guerra – semineri
de sced, de magazzin,
de campat – gott a gott
la còla sang a sfott
l’asnin caga-zecchin

dell’ingeniee Titola-
Babeo ch’el fa grassa,
sotta quella faciassa
(e gotta sang, e còla sang)
sotta alla faciassa
del sô...

«bim, bom, bom
al rombo del canon»

... che la se sbassa,
rossa come ona polla,

su quij che se morisna
là... ch’àn finii la guerra
e se dio voeur, sott-terra,
in màser... (e carisna,
e scender...) – che fameja! –
dormen sotta ona preja!
(... e scendera, e carisna!)

Pàssen i tramm, scampànen!
Molla Tanoeu...! brisaola,
scisger e tempia e a tavola!
Canten e se slontànen
– scolta – i compaa del Zio...
L’è el dì di Mort e dio!
L’è el dì di Mort e àmen!


Torno da viale Certosa, torno dai Cimiteri in mezzo ad un semenzaio di avvinazzati che vociano, di festaioli che cantano e che scherzano in santa pace a braccetto della ragazza. È il dí dei Morti, allegri! Sotto le pergole si balla, si ride e si tracanna; passano i tram neri di quelli che tornano a casa per mangiare e sbevazzare: ceci e tempia... allegri figlioli, che siamo fottuti! I nostri fantaccini a furia di intontirli, di prenderli per il culo, di mandarli a prender botte hanno gettato la divisa, scalciano a salti di culo, scappano, questi sacrati, hanno mollato, mi dicono, buttan le armi, se la svignano da tutte le parti, lo Zio ce lo ha schiaffato nel deretano lungo quattro spanne e stabile, è il giorno dei Morti e dio! Passano i tram neri gente su gente... teppa... ragazze e bancarelle da fiera!... «Oh le belle corone!» Allegri! «Oh i bei lumini!» «Oh i pizzi, le belle tende, oh i pizzi!» È il di dei Morti!... allegri!... e via, con questa accozzaglia di giovinastri che a brigatelle cantano spavaldamente: «O macchinista, | ferma il diretto | perché al distretto | me tocca andà...» – questa è buona! ascolta: «stacca la macchina | ferma il diretto | che son costretto | d’andà a soldà!»... a furia di batoste tiriamo innanzi... «Caldarroste!» ... e giú verso porta Volta e via con questa baraonda di barcollanti ubriachi... Lo vedi? non ci restano piú che i nostri quattro stracci, l’eredità è sfumata, siamo in bolletta in strada; torniamo a fare il pagliaccio! Comincia adagio... adagio... a venir sera... e là... – cantano ancora, ascolta – «... che al mio paese | voglio tornà...» giú verso Milano è quasi buio... rogge e seminati, navigli e cimiteri trasudano adagio, adagio, umido e nebbia... Ottober... cocober... poveri noi! ad una ad una ci abbacchiano le roveri! Oh Gesú, che spogliata di piante! che battuta lassú!... Ottober... cocober! ... Torinesi giolittiani, milanesi socialisti, coraggio, rallegratevi! Austriacanti di San Damiano, allargate il cuore, son qui... tornano i tedeschi... sono qui... arrivano quei cari patàni, quei cari baffoni, quei poco di buono! A zonzo, mi aggiro fra i banchi della fiera, e penso alle nostre miserie... rogne, sfortuna e generali da pipa!... e quel giorno... «Caldarroste!... Caldarroste!...»... e quel giorno vedo... (Madonna! due? tre settimane ancora?...)... che in piazza o forse lí dal Brioschi: «Hai sentito?... – mi diranno – ... hai sentito?... arrivano... ci siamo... son qui... cedono dalle parti di Brescia, arrivano...sono a Vestone! da Desenzano, Gardone scappano... caro il mio Tessa siamo fritti!...» ed io, d’un balzo, fuori!... lí davanti al Campari... c’è ressa... zeppa la Galleria... gente che si urta... due che gridano...  «A calci  in  culo   andiamo   avanti!...  Oramai  ci  hanno sfottuti!» «Non bisogna cedere!»... gente che brontola... gente che aizza sotto sotto... che ribolle e che urla. Balordi, ruffiani, teppisti, finocchioni, eccola la feccia che è sbucata dalle bettole, fuori in  piazza!  Fannulloni,  svaniti,  marmaglia fuori a festeggiare lo Zio! «Silenzio!» «Basta!... Basta!...» Sentila la teppaglia che si scatena!...  «... Mio  ehi  Maio!...  spiàccicalo!  piantala,  sciocco!» «Ma silenzio... per Dio!» «Zitti!» Dagli ammezzati ad una finestra leggono il Bollettino «... a destra del Brenta, incendiati i depositi,   in   dura   lotta   nella   pianura,   ci   siamo   ripiegati...»   «Lo senti?... ripiegati!» «Silenzio!» «Va’ al diavolo! faccia di culo di cane da caccia!» «... coi reparti alleati...» «... buoni quelli!» «Ma tralasci i suoi commenti e lasci terminare!» «... e schierati combattendo fra Po ed Adige, sul Mincio, secondo i piani...» (Accidenti!   ecco   dove  sono   già!   sul  Mincio...   proprio)   «abbiamo...» «Che cosa ha detto? abbiamo... e poi? non si capisce!» «Ha detto – evacuato! –» «Cosa?» «Mah!» «ad occidente... abbiamo nettamente   respinto...»   «Evacuato   piuttosto!»   «...   in   nostre   mani...» «Tutte frottole!» «... aeroplani...» «Ci vuol altro!» «... firmato Cadorna!» «Bollettone! va’ a nasconderti brutto malanno e non cacciarne piú di trottole!» «Si sente già il cannone fuori dai dazi!» «Lei, non si vergogna, Lei?» «Di che cosa? c’è il cannone, proprio c’è il cannone che si sente!» «Allarmista!» «Napoli!» «Disfattista!» «Va’ al tuo paese scocciatore!... aria!» «Lei, Lei, venga con me, Lei!» «Io, con lei? È il padrone del vapore lei? ma sentilo, vuol mettermi dentro, vuol mettermi!... ma chi è lei? chi è?» «Lascialo   andare»   «Napoli!»   «Rinnegato!»   «È   uno   del Comitato!» «Dàlli a quel rospo!... andiamo, andiamo... ohi!» «Lascialo andare!» «Giú! pesta giù!» «Italiani senza patria! a domani!» «Domani, sí... aspetta bue!» «Lobbia!» «va’ al tuo paese, o cristo di un milanese arioso! va’ a dire ai tuoi che hanno sbagliato fin dal primo bottone, tirano avanti la guerra per accopparci, buttarci a terra, eccola la ragione!» «Mascambroni, è ora di finirla!» «In malora ci han ridotti!...» «Rivoluzione, sú!... sú!... Rivoluzione!» «Avanti, o popolo, alla riscossa! | Bandiera rossa, bandiera rossa!»... Signore! Signore!... sfortuna, rogne, disgrazie e generali da pipa, andiamo a tocchi e bocconi!... Rivoluzione... guardate!... o Signore non abbandonate quelli che son soli... «Bandiera rossa la s’innalzerà | Bandiera rossa della libertà!» Canzone di guerra della trista guerra, sú! sú bandiera rossa del tempo di fiera! Anarchici, socialisti, sú che ci siamo... è ora! sbraitate, sgolatevi, forza! lustratevi la vista, allargatevi il cuore, ci siamo! E mentre che giorno per giorno, giù, giorno per giorno, di ora in ora, andremo giú, giú, a poco a poco tutti in un mucchio a tocchi e bocconi, alla malora,  che sulla Madonnina «Bandiera rossa...» lassú,.. «... la s’innalzerà!» e che faranno scempio per le case, per le strade, per le piazze... «... hanno accoppato l’Albertini, stamattina, viva noi... l’hanno buttato a terra, pugni, calci... “l’hai voluta la guerra, porco   giuda!...”   giú,   sassate...   gli   hanno   tatto   fare   la   morte   del Prina!» intanto che si accoppa e si canta, ecco... comincerà per Milano la passata delle lepri... una confusione, una mescolanza, mucchi di stracci, gente atterrita, senza nulla e che in fuga «... i croati... i croati...!» vanno a sbatter le loro ossa su una strada! Contadini che hanno lasciato là... terra, vacca, maiali e si trascinano... «Madonna, non ne posso piú»... carichi come muli, coi ragazzi e la donna «O Tanino, qui... andiamo...» e soldati e soldati in colonna triste, in colonna grigia... «... taglia la corda, scappa, facciamo lega... bandiera rossa... sú!» e il cannone che brontola, il cannone   che   ringhia   nella   nebbia...  Ascolta!   verso   Melegnano giuocano alle bocce collo Zio, arrivano questa volta e addio!... vengono su da Dresano, passano da Mediglia, Colturano, San Donato, passano l’Adda a Cassano, salta il ponte di Paderno, bruciano stabilimenti, case, gente che urla gente che si pigia... e l’inverno, la nebbia, presto... presto... aeroplani che volano, bombe che scoppiano! un inferno! presto... presto... scappiamo! È mio padre che balla per casa... «... ma cosa ti manca ancora? andiamo o restiamo?» «Senio, qua, dammi le cinghie, guardale là... non c’è piú nulla da metter dentro?» «... presto, andiamo, chiudi... dove vai, Clara!... la macchinetta dello spirito? aspetta, aspetta eccola qua, che cosa hai da metter dentro ancora? questi?...» «... non seccare, lascia stare, se devi andare alla Banca, va’, prendi tempo, va’ alla Banca piuttosto, va’ – è puranco asfissiante quell’uomo!» Là alle cassette di sicurezza ci sono tutti... si accalcano agli sportelli dal Signor Cerutti... «Firma, sú dammi questo libretto... la chiavetta... apri...» e fuori... titoli al cinque per cento, cartelle, posate d’argento, rendita al tre e mezzo... e impacchetta, lega... «... e quelli della Lina? quelli della zia Angelina? e quelli dell’Erminietta? (ho la cassetta piena della roba degli altri...) che cosa ne faccio? ci vuol altro che questa valigetta!... qua... qua... quelli della zia, tutto quanto...» e via, e via a piedi, verso Corbetta, a piedi verso Bareggio, Sedriano, verso Ticino e in strada (una bazzecola, trenta miglia!) a fianco che folla! che calca! (e la nebbia! ed il fango!) una confusione, un subbuglio nell’ombra... e si va, e si va... e la sera frattanto, la sera che esce di casa, che si avvia e col suo spegnitoio scende, per oggi, a dar requie alle tribolazioni, a coprir miserie...   e   la   notte   poi   che   gatton   gattoni   vien   fuori   col   suo coltrone!... e va che si va... dove andiamo? a Ticino? alla malora? dove siamo?... giú di là ... (verso Milano? verso Bareggio?)... giú di là... che scurolo! Gesú-dio! ragazzi, guardate! al mio lato (dove sono?) una folla... scioperati... avvinazzati... (badate) un tramestio nell’oscurità... svégliati, sú disincàntati!... teppa, ragazze e bancarelle da fiera!   Gamba di legno... lo vedi,  ci siam dentro! tram neri, gente su gente, allegri! è il dí dei Morti... svégliati! Torno dalla Bullona, torno dai Cimiteri, in mezzo ad un pigío di gradassi che vagabondano, di teppisti... «La vita, – passa un carretto – la vita signori!»... che si ciondolano, che scherzano e che schiamazzano! Là dalle parti del Rondò – férmati un momento – la giú, sentila la teppaglia che se la gode! «Cadorna per le feste | ha scritto alla Regina: | – vuole veder Trieste? | gliela mando in cartolina! – | Bim, bom, bom | Al rombo del cannon!» A crocchi e a brigatelle sotto la nuvolaglia umida, pieni di vino, cantano sull’imbrunire, cantano a squarciagola... «... E m’hanno destinato | al sesto fanteria  |   per   essere   mandato   |   alla   macelleria!   ...   |   Bim,   bom, bom, | Al rombo del cannon!» Dietro al Sempioncino eccola là la faccia del sole che si accovaccia sotto la sua trapunta di nuvole...sotto le coltri! – ragazze andiamo a nanna sotto le coperte di lana! – Lampeggia sopra le stoppie... (dalle parti della Bullona gamba di legno   che scampana!)... lampeggia fra mezzo ai pioppi dello stradone di Musocco, terra terra, una stroscia di fuoco... là... che sanguina! «ma il general Cadorna | mangia, beve e dorme | bim, bom, bom | al rombo del cannon!» Canzone che arriva a brandelli e si allontana laggiú... stroscia di sangue che a poco a poco, a goccia   a   goccia,   sui   camini,   sulle   tegole   degli   stabilimenti   di guerra – formicaio di sheds, di magazzini, di campate – goccia a goccia cola sangue a sfottere l’asinello cacazecchini dell’ingegnere Titola Babeo che si ingrassa, sotto quella facciona (e goccia sangue, e cola sangue) sotto quella facciona del sole... «bim bom bom al rombo del cannon»... che si abbassa, rossa come un tacchino, sopra quelli che marciscono là... che hanno finito la guerra e, se Dio vuole, sotto terra, a macero... (e fuliggine e cenere...) – che   famiglia!   –   dormono   sotto   una   pietra!   (...   e   cenere   e fuliggine!) Passano i tram, scampanano! Tira via Tanino...! bresàola,  ceci con   tempia,  e a  tavola!   Cantano   e  si  allontanano   – ascolta – i compari dello Zio. È il dí  dei Morti e addio! È il dí  dei Morti e amen!

Fonte immagine: Pinterest


Antonetta Carrabs - L'incendio dell'amore, nota di Rita Pacilio

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L’incendio dell’amore di Antonetta Carrabs, LVF, 2017L’incendio dell’amore di Antonetta Carrabs

Versi, luoghi intimi, sonorità sono gli elementi portanti che costituiscono la raccolta poetica di Antonetta Carrabs dal titolo L’incendio dell’amore, LVF, 2017. La messa a fuoco del sentimento più nobile, l’Amore, segnala il bisogno di considerarlo come un valore sociale, etico, eterno. È la coscienza di tutti i tempi che si mette al servizio del corpo e viceversa per favorire il massimo grado di concentrazione sull’interno/esterno, divino/materia, un circuito che avvampa e si prende cura, in versione poetica, delle stagioni che fioriscono e rifioriscono grazie alla fiammata dell’illuminazione/ispirazione. Questi versi sono torce analogiche in cerca di struggimento e passione, in continuo cammino verso luoghi e atmosfere emozionali. Il vessillo del sangue aleggia potentemente sul mistero che accosta lo spirito alla carne. Un emblema che trasmette al lettore l’elevazione dal quotidiano in maniera certa, grazie all’incontro straordinario, che inevitabilmente accade, tra persone/personaggi che si amano. Affini. Autentici, fragili. (rita pacilio)




La mia testa è piena di vento

È tutta colpa della luna

quando si avvicina troppo alla terra fa

[impazzire tutti.

William Shakespeare


Sei sull’incudine dell’alba

che guarda il fiume dall’argine e raduna le spoglie

prossimo a ricadere giù in quella dispersione di potenza

nelle sue cartilagini febbrili brulicanti di scorie.

Pazzo per abitudine all’ansia e desiderio invertebrato di penombra

il tuo risveglio è la sera impetuosa nella densità nera del bosco

che riappare sotto la ventata umida di pioggia

e la sua poca luce senza colore, né tempo, filtrata dalle tende.

Porto alla bocca questo mare bianco

il pensiero mi insegue e scuote i rami.

Nel mio universo una sola immagine versata in una gemma

ha il sapore delle tue mani

della voce trepida che mi cammina al fianco.

Io non so che rispondere, la mia testa è piena di vento

ora che raggia la giornata

il mondo riappare dietro la sua feritoia

su questa terra graffiata dall’uomo e la sua maschera di sale.


***


I poeti hanno il profumo delle rose

I poeti sanno scendere alla sorgente dell’estrema linfa

senza profeti, né apostoli o altro strano incanto

risalgono le note della scala, fino alla musica-musica

nel punto dello Zenith, fino alla piena lingua.

I poeti sono ebbri di parole

trattengono il respiro dove cadono i semi

prima di giungere al vento

rompono i germi puri dentro gli astri,

strettamente congiunti

e sono ciechi e verdissima tormenta

prima di attingere la luce.

Identità nel tempo di Parmenide, sono alfieri, dame, figuranti

volo d’api nella pioggia, alla prima schiarita.

I poeti si tendono nel diluvio delle foglie

verso l’infinita discendenza e la loro traversata verso l’alba.

I poeti fanno del dolore umano un rivo

la vertigine perpetua nel tempo del risveglio

procellosa, tra opera e preghiera

culmine di ogni creata cosa e furia celeste di raggiera.

I poeti sono soli, naufraghi tra memoria e senso

pellegrini nel loro stesso mare, nella gemmeria d’aria sottile.

I poeti hanno il profumo delle rose dopo il travaglio della fioritura

ancora tiepide nell’impercettibile bisbiglio.




Antonetta Carrabs : poeta, scrittrice anche per il teatro; giornalista freelance, collabora con alcune riviste letterarie e di informazione. Presiede varie istituzioni culturali tra cui la Casa della Poesia di Monza e il Parco Letterario “Regina Margherita Parco Valle Lambro e Parco di Monza”. Ha pubblicato Fuori è il sole (Il Leccio, 2004); Seme di fiore (Artsworks & Poems, 2004); Amor de lonh (Pulcinoelefante, 2005); Il fiore azzurro (LietoColle, 2009); I miei sogni son come conchiglie (Rizzoli, 2011) - Collana “bur Ragazzi”; Il Boncio di Chiara (Bonaccorso Editore, 2011); Le Cartorime, piccoli poeti inventano la vita (Carthusia Edizioni, 2011); Amori Sbarrati (LietoColle, 2014); VioleperEnza (LietoColle, 2014); Ribellioni (Nemapress, 2015) - Collana“Teatro".


Henry Bataille - poesie, a cura di Emilio Capaccio

Stelvio Di Spigno - Fermata del tempo

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Stelvio Di Spigno - Fermata del tempo - Marcos y Marcos, 2015

Di Spigno, come ad esempio De Lea (v.QUI , - ma con altri esiti, altre tonalità, un dStelvio Di Spigno - Fermata del tempoiverso uso plastico della lingua), è poeta in cui la scritturaè ricerca di rassicurazione e identità. Lo è per diversi aspetti, a cominciare dal suo "sforzo di frenare o addirittura di arrestare il flusso del tempo, di illuminarne una fermata" (Umberto Fiori in prefazione), il che mi pare significhi, anche alla luce dei testi di questo libro, non solo una ricognizione per momenti e luoghi topici della propria vita, ma anche la ricerca in essi del proprio essere attuale. E' in altre parole un ragionato ritorno a casa (dovunque in realtà essa sia), in cui però la nostalgia ha un'importanza relativa, è più motivo lirico/elegiaco che epico o tragico, poiché mi pare vi manchi un'eco lancinante, come se Di Spigno di quella "casa" riconoscesse più la forza evocativa e identitaria che la sua mancanza. Luogo che tuttavia certamente non "sembra proprio una casa qualunque e indolore" (in La nudità, Pequod, 2010, v.QUI ), una specie di disperso, molteplice e personale "posto delle fragole" su cui Di Spigno posa uno sguardo essenzialmente rivolto al passato, facendo un po' il punto della propria vita. Se il tempo ha un senso, quindi, - e qui sta parte della rassicurazione - , è per il suo essere storia e replica (come rappresentazione) di eventi e luoghi (Roma, Gaeta, Napoli, Anzio, la Calabria...) per così dire filogenetici, di cui cioè il poeta reca traccia in sé. E poiché storia è narrazione di sé stessa e di chi trascina con sé, ecco che ne consegue naturaliter la scrittura che Stelvio ritiene più adatta, un flusso di cui avevo già parlato brevemente a proposito de La nudità, appunto narrativo, a volte ipertrofico, a volte predittivo, e in cui, come accennavo prima, trova talvolta il suo spazio anche l'elegia pura, quasi foscoliana, come ad esempio in Faville, ma con un certo equilibrio (ha ragione ancora Fiori in prefazione) e poco timore di lanciarvisi pur col rischio calcolato di qualche sbandata, conoscendo come un pilota il suo mezzo, le sue parole. In un certo senso Di Spigno cerca e trova un'altra rassicurazione proprio in questa lingua in cui quel che devi dire e la forma in cui lo dici sono indissolubili, nella quale cioè elemento fàtico e funzione poetica sono così fusi che il carattere lirico/elegiaco vi trova la sua collocazione naturale, non extra ordinaria. Ne è così convinto che a volte si allunga e dilunga, come già avveniva ne La nudità, non è poeta che lavori per sottrazione, tende semmai a non buttare via niente di quel che ha da dire, fossero anche i nomi di persone e luoghi che risuonano, per ovvie ragioni, solo per lui. Sia i luoghi che la scrittura sono per Di Spigno, a mio avviso, spazi mentali o ricordi "affidabili", che è necessario in qualche modo non tradire, omaggiando e rinovellando i primi con la seconda, anche con una certa maestria lessicale, con una capacità connotativa e a volte esornativa del "fatto" che tende a dare una certa aura "mitica" all'oggetto del poetare, ma che crea in definitiva una tessitura di rilievo. Quando Stelvio riesce ad allentare un po' la pressione sull'acceleratore del dire, a favore di una emotività meno mediata, consegue gli esiti più alti come quelli (v. Il distacco) contenuti nella sezione Generazione mortale, a mio avviso la migliore del libro insieme  a Le radici sepolte.

A pensarci bene più che di nostalgia o di ritorno ai lari, di tratta di malinconia/rimpianto, spesso con uno schema classico e abbastanza ricorrente di enunciazione/ipotiposi del ricordo seguita da una ripresa attualizzante/riflessiva ("Eppure quando torno...", "E ora eccomi qua...","Ma intanto passano i treni...", "Qui ho vissuto tra gente...", "Ora io ti penso...", "L'alba ride come allora...", "Ecco cosa ripetono i miei anni...", "Li rivedo in lontananza...") con un andamento leopardiano, come ne La quiete o ne La vita solitaria per capirci, che si ritrova anche in un uso esteso del verso libero ipermetrico che già avevo notato a suo tempo, segnato più da spezzature che da enjambement significativi (ma vale la pena rimarcare anche qualche eco pasoliniana, come in Trastevere ore quindici). Tutto sommato quello di Di Spigno non è un mondo particolarmente complesso, perché non è particolarmente moderno (e nemmeno postmoderno), descrive - spesso molto bene - dinamiche intime su sfondi che, al di là della geografia, da un punto di vista lirico potrebbero essere ovunque, salta a pie' pari (per fortuna) tutti i mugugni della crisi dell'uomo di oggi di fronte al nulla, preferendo cantare le sfumature di un esistenzialismo semplice. Entro il quale, in una prospettiva ben definita, contenuta nelle due direttrici passato/presente che tendono a riprodursi (il presente è già un passato), l'individuo/poeta si pone come custode di una memoria che aspira ad essere"non per rimpiangere, piuttosto per sapere dove andare". Cioè una memoria non lapidaria, malleabile. Ma, dice l'autore, "siamo una specie senza predizione", cioè senza futuro, senza contare che "il tempo non avanza di un momento". Solo la poesia (ed è la fede di Stelvio) può sperare di risolvere una tale aporia. (g.cerrai)



da Le radici sepolte

***
Largo e intento
il lago dove siamo stati congedati
dal sogno di una maniera di pace
fatto per uomini con gli occhi addolorati,
le acque che avremmo voluto dentro casa
nel tranquillo fluire del traffico cancellato dal mondo,
la completa fissità, l'essere corporalmente raggiunto,
vivere con gli amati e gli antenati, insieme nel puro silenzio,
per sempre nello stesso giorno
magari d'infanzia o adolescenza,
perché molto è il desiderio
di un paradiso abbarbicato al tutto
uniti con la faccia solo in questa terra,
senza dovere niente alla fatica e al lutto,
al mancare interno e al rischio dell'eterno.


Faville

Tracce di ferro e cemento steso male
fanno da confine all'aria angolata. Poi c'è l'orto che da sempre
s'incanta col pinete, e un mucchietto di utilitarie
che stanno in silenzio, perché la loro stagione,
nel regime di viali e isolati gialli e bianchi,
non è ancora arrivata. Qui ho vissuto
tra gente che smuove la terra non per fare arazzi
per poeti ma per vivere di foglie verdi come il mare
ai confini del quartiere, quando era ancora gentile
domandare quando sarebbe stata la partenza
per un mondo migliore. Ho fatto la mia parte
e ho visto i roghi che accoglievano gennaio: bruciavamo
vecchie scope, cartoni e materassi
per sapere cosa avrebbe sopportato l'anno nuovo
. Nessuno
in casa ha un camino, e chi ce l'ha lo ha murato,
metafora perfetta di chi troppe disgrazie ha sopportato.
Troppo chiaro di luna in tutte le parole. Non si può
dire nulla a chi è partito e saggia a memoria le cose
di un tempo che non sa se rivedrà. Qui sono nato,
tra le prime parabole che mettevano allegria
e il maschio vigore del fuoco che scorre
nei muscoli di chi sa che vivere non è baldoria.
Qui voglio morire, perché l'anima piagata
non trova né una donna né un luogo migliore
per dare tutta se stessa al silenzio finale dei vecchi.
La compagnia dei fiori di campo mi farà
da corteo funebre e l'Irpinia, lontana e senza foschia,
intonerà un concerto come solo il vento,
incastonato tra i rami dei pini e i trifogli argentati,
sa fischiare tra i corridoi immensi delle case,
anche se preferirei il fuoco delle stoppie
per capire se Dio mi è stato amico negli anni di vigilia.


Apologia in sirventese moderno

Quando eravate nostri, lo rivedo nei sogni,
nel pallido di qualche luogo sconosciuto,
mai siete stati della terra per intero. Eravate
principi di un reame straniero, capitati qui
per fare bottino del mio bene e vostro amore.

Vissuti in periferia. O in una villa tra due strade.
Sempre pronti a scappare. Dalle montagne al mare,
dalle scarpate ai pendii. Sempre in vacanza, in bilico,
benché lavoraste alacremente. Essere senza essere
è la grazia di chi regge il timore. Come in una reggia
tutto si diceva ma con parole errate, statiche di rabbia.

Mio nonno, il comandante, dilaniava i giardini.
Dava fuoco all'aurora, piano piano si spartiva
dalla umana, orrenda compagnia. A ruota tutti gli altri
facevano merenda con merluzzo e uova.
In silenzio, al plurale, con nessuna meta cui arrivare.
Sempre in mezzo alle cose e quasi fuori.

Se mi chiedono perché io taccio in sirventese.
Di tutto avete fatto, per rimanere puri. Anche vivere male,
con poco fuoco, con scarso vitto e alloggio,
con disamina animale difenderò l'errore. Tanto il mondo
non s'imbraca con me. Farò io la parte del demonio
se qualcuno mi chiama a testimonio.


da I testimoni

Trastevere ore quindici

Come vi ho rimediati,
e di rimedi non ce n'è, nelle tare
della terra e del cielo, santi morti e sacro passato,
in orbita breve ma stellare
ci siamo ritrovati per poco
a camminare, annusare la stessa aria,
ragazzi fermi alla fermata della scuola,
mendicanti che hanno dato al nulla il loro stato,
abbiamo la stessa forma, le stesse ossa,
ma non cadremo nella stessa fossa, le date non coincidono,
ci assomigliamo ma qualcosa ci divide,
e questa cosa è la parola che invece condivide
e che io non conosco
come vi riconosce il giorno aperto,
le stelle scese dal pendio,
la vita quando ancora era vita,
e tra angiporti e navi e battelli,
e sovrimpressioni e avverbi,
e automobili e puntali,
e cataratte e impossibili treni e frane,
qualcosa ha spostato dalla nostra parte la sorte,
mare sincronizzato, apertura di braccia,
semina di gramigna e orto,
ognuno ha lottato perché durasse
il singolo attimo del fuoco in gola,
molto il tempo ha portato via,
quando è stato il momento di partire.

Io mi alzo da questo tavolo a Trastevere,
gli occhi vedono qua e là turisti e auto
coi quali trasbordare, poi c'è via Nazionale
e il tempo, aperto come un bulbo,
che finirà per tutti è stato, per noi lattanti,
vostro e mio, consensuale e attiguo
al frangersi delle case nei poveri occhi cavi,
una fitta nel corpo, a caso, ovunque, come un tuono.


da Generazione mortale

Il distacco

a T.C.

Hai coperto bene la paura con l'assenso,
il bruciore di un osso con una cavità entrante
e mancante nella mente, mentre spiegavi
e rispiegavi che non era il tempo, quello, buono
per l'innamoramento e intorno c'era già fruscio
di ricci e castagne e foglie di platino adamantine,
su tutta la strada ragionammo su come salvare
un amore che voleva cominciare, in mezzo
alla plastica e al niente io vedevo il tuo vestito,
il suo colore di rifiuto, le mezze scuse, le mani
che battono sul volante, e tu mi chiedevi
di uscire, di non farti del male, ma da una
vastissima distanza, una danzante valle distesa
ormai tra due silenzi, tra una fine decisa, tutta
di metallo, sentivo il freddo delle tue parole
dall'anima fino alle gengive, e questo solo
è il mio ricordo: non hai portato via niente.


Quadranti

Quanti fascicoli di luce, quanti sguardi innevati,
e mattine il cui carico è dolore dovrà attraversare
questo corpo corale di tutte
le gioie distrutte, i disamori, le cadute,

prima che il tempo di ognuno anche per me
si esaurisca, sulla soglia di casa, o rinculando
con montagne di parole nella mente, guardando
solo il cielo, facile da vedere qui da Anzio,

quando, per non odiare gli uomini, storci il collo,
distrai gli occhi, punti a caso dentro una stradetta
senza uscita,

e i lavori in corso sono la sola certezza
che tutto si riabitua e si riabita,
ma non saremo noi a goderla, la felicità promessa.


Notizie dall'estate

Fuoco nell'aria mista a sale e a corpi terrestri
e incostanti. Pedalare, camminare, sterzare con l'auto
per Gaeta, Formia, Minturno. Una curva presa male
e ti ritrovi a Napoli o su una croce. Tutto sa di altro.
Ovunque luoghi troppo cari per passarci l'estate.
Troppo inutile l'estate per passarci la vita.
Dove i miei cari pendevano verso il fresco del mare
ora negozietti e rental car. Fine delle trasmissioni,
con la camicia sbottonata, cerco di essere
invisibile come loro, ma la parete della morte
non si fa attraversare. Loro sono oltre, io dall'altra
parte, non so se partire, restare, pregare
per una vita breve. Estate benedetta, che mi riporti
dove tutto è cominciato. Agosto torrenziale,
che mi fai vedere a figura intera i volti, i templi,
i tempi in cui tutto si è interrotto. Fuoco per ogni dove,
fuoco su di me. Sparate pure, non mi prenderete.
Non ancora, tra le rotonde e le spiagge con nomi
californiani, anche la fine perde l'orientamento.


Conto alla rovescia

a Mina De Simone

Torno a scuola sul litorale, animato
verso il cielo. Il bofonchiare rapido del
cancello, il registro di classe nella sacca
da lavoro. Volevo questo? Volevo altro? Volevo,
volevo, volevo sempre troppo.

Il mare è un profilo di detriti. La mia casa
è distrutta, o di certo abbandonata, volano
aerei che mi guardano con malocchio,
scrutano la pupilla delusa, sanno
che non dovrei essere qui.

Ho sognato di scriverti, svelando
ogni suono della mente nella sosta
tra la speranza e lo spot che le somiglia.
Se nessun messaggero ti è arrivato
è questo che devi sapere: ogni viadotto
del tempo, se non porta veloce a un'altra vita,
in noi si compie come un vortice
incallito, come il guaire di cani alla catena
che all'aperta campagna deplorano
il ritorno del freddo crudele dopo agosto
e la stagione a noi più prossima al digiuno.


Il giardino dei folli

Forma semplificata della mente
dovrebbe essere Forte Sangallo
coi suoi bastioni arcuati e il terrapieno,
le valli intorno di provincia romana,
la fredda pancia del cielo a chiudere,
sul litorale, la carnagione, secca, di sconfitta,
simile alla campata di una caverna infernale.

Proprio qui, mille anni fa, si muoveva
un mio pari, un essere dalle corte braccia
che conquistava armato di sangue e bava.
E ciò bastava a fare di questo luogo
una costa civile. Anzio, Nettuno, Fregene.
Spiagge viziate, granulose di voglie,
con auto di lusso tra le grate
di un carcere troppo duro da supporre.

Sempre meglio la fuga, tra onde frenetiche,
verso il tremito di un'isola al confino:
la certezza legnosa della nave,
l'addio che si sente a mille miglia,
il corpo svuotato da stanchezza,
cataratte, cervelli di fango e le cellule
di un antico io dall'odore bestiale
che affiora a cavallo di una guerra totale.


Writing surrealism, nota di Elisa Castagnoli su "I rivoluzionari del 900", in mostra a Bologna

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Duchamp - LHOOQ (Elle a chaud au cul) - 1919Writing-Surrealism (suggerito dalla mostra "I Rivoluzionari del 900", Palazzo Albergati, Bologna)

Uno degli aspetti più interessanti della sperimentazione surrealista_ tale che essa appare rivisitata nella mostra bolognese, "I Rivoluzionari del'900" attualmente a Palazzo Albergati_ è la ricerca di un automatismo nella creazione, nella “scrittura automatica” per esempio, modalità che libera l’artista o il poeta dal controllo della ragione intesa come quella gabbia di pensiero positivista borghese o del retaggio asfittico di una certa tradizione estetica in inizio ventesimo secolo. L’automatismo, permettendo di eludere il controllo della coscienza, costituiva una via privilegiata per attingere a una sorgente più antica, perlopiù inconscia e liberare in questo modo radicalmente l'arte dai vincoli della realtà quotidiana. L’artista doveva semplicemente limitarsi a lasciar affiorare le linee e le forme quasi casualmente nei disegni automatici di Arp e Masson, nell’universo di segni primitivi di Joan Mirò o diversamente nelle solarizzazioni e sovrapposizioni fotografiche di Man Ray. Il surrealismo, liberando in tal modo il potere dell’immaginazione, intendeva riallacciarsi direttamente alla sfera del sogno, dell’inconscio, in qualche caso all’allucinazione prodotta dalla follia o al tutto possibile del gioco d’infanzia.

Nella scrittura automatica, secondo Breton, l’intento surrealista del poeta è quello di ottenere “ la rivelazione istantanea di tracce verbali la cui carica psichica si comunica direttamente al sistema percettivo-cosciente”. Gli accostamenti sorprendenti di soggetti su una tela, la scrittura prodotta da sensazioni, memorie o idee in libera associazione o gli incontri fortuiti con gli “oggetti trovati” sono alcune delle vie percorse dal surrealismo per infondere nuova linfa vitale alla creazione artistica di inizio novecento. Vorremo leggere qui di seguito alcune delle opere viste a Palazzo in senso surrealista giustapponendo immagini e parole con una simile libertà espressiva scaturita dall' incontro fortuito tra la scrittura le linee, le forme i e colori.

Joan Mirò, “Women and birds”

“Comincio a dipingere e la forma diventa indice di qualcosa”




“E’ la traccia grossolana lasciata da un colpo di spatola nero, una pennellata spessa e corposa su una tela bianca. La neve si riempie di forme guizzanti, colorate e libere in un mare cromatico e gioioso, fluttuante sullo sfondo. Chiazze di colore primario entrano in lotta tra loro come degli opposti attraendosi e respingendosi senza sosta: rosso ardente e infuocato, verde genuino, giovane e rigenerante, giallo vivido e splendente, blu intenso e oltremarino. Al di sopra, una nera impronta si avvolge a spirale, la trama di un gioco avverso del destino; una nuvola oscura si propaga attraverso la tela, sopra il taglio netto di una corda avvinghiante che si annoda su sé stessa fino a soffocarla. Si viaggia attraverso i sensi nel campo magnetico creato sullo sfondo dai colori primari: giallo, sensuale forza di vita, rosso essenza-radice, blu oltremare, azzurro etereo, celestiale come il vagare di una mente nel sogno, poi la traccia nera a raso, esposta e barrata in esterno sul bianco candore. Esplosione violenta di un tratto che marca irreversibile e essenziale.


Joan Mirò: "Ballerina spagnola", 1927

Una nuvola bianca svapora in una gonna a balze di flamenco, un paio scarpe a punta brillano nere e scintillanti richiamando alla memoria i piedi della ballerina, una testa di pesce giallo boccheggia a lato mentre un verde intenso risuona dall’incavo di un corno. Sullo sfondo il fondale uniforme e ocra dell’arenaria. Poi il filo di un palloncino sale verso una sfera nera fluttuante e sospesa sopra la sua testa simile a un cappello da circo lanciato in aria. Il corpo della ballerina di flamenco appare in pochi tratti e macchie di colore, soave nella nuvola-gonna vaporosa, fiero nello stendardo posto sopra la sua testa, ineluttabile nella ritmica assoluta dettata dal battito dei piedi attraverso le scarpe evocati. La linea appena accennata è già trasfigurata, appena allusa e già dissimulata mentre l’acquarello disegna lo spazio con la forza innata di un movimento, la danza re-inventata attraverso la pittura surrealista. Così, la tela libera l’immaginario dal puro figurale affondando in un segno istintivo nato dall’automatismo di un gesto semi-cosciente.



La danza è una nuvola appesa e fluttuante, bianca e svaporata, è un impulso, un innato movente che non trova appiglio al suolo tuttavia, ma leggera, aerea come la forma accennata di un corpo vaga distante, legata alla terra da un solo filo: sottile, esile cordone ombelicale che ancora la tiene ancorata per non poter volare via altrove. E’ ancora un paio di scarpe nere, lucide e a punta, che sole danno il tempo ineluttabile, le pause e la scansione ritmica dell’attesa. E’ una testa di pesce giallo-ocra boccheggiante sulla sabbia, la nota sconosciuta di un corno verde brillante che risuona o risponde a un richiamo; è un cappello da circo, un gioco gioioso, un lancio di dadi nello svaporato etere dell’universo . E’ di quel sogno proiettato, forse, solo lo schermo della pittura.

Breton: “ La finestra scavata nella carne si apre sul nostro cuore, vi si vede un immenso lago dove a mezzogiorno vengono a posarsi libellule dai riflessi dorati e dal profumo di peonia. Che grande albero è questo dove gli animali vengono a specchiarsi…Tutto quello che dobbiamo fare è aprire le nostre mani e il nostro cuore e saremo nudi come in un giorno di sole”

Brassai, "Graffiti parisiens”

Un cerchio, una croce e una testa incisa sul muro in pochi tratti primitivi. Sulla parete nuda e grezza di cemento il segno richiama un alfabeto di geroglifici a noi sconosciuti: incisioni sulla roccia d’epoca preistorica, impronte di volti e di mani oppure un disegno infantile apparso per gioco su un foglio.




E’ un uomo che lascia la sua traccia sulla durezza della pietra, oppure un ritratto del medesimo visto dalla mente fantasiosa di un bambino. E’ una firma, un’impronta, la propria unica e singolare sul mondo impressa in segni di grafite sul muro. Sulla maschera primitiva il sigaro lascia scorrere linee di fumo mentre lentamente consumano in cenere sulla superficie della roccia. Lo sguardo è affisso simile a un manifesto su una parete; un piano inciso in solchi di vuoto.

Dopo uno scroscio di pioggia, il volto è scorto in un improvviso bagliore nel contro-luce delle ultime gocce.

“Portrait of Marchesa Casati”, Man Ray

Degli occhi che vedono in tre dimensioni attraverso la pelle, l’apparire del viso è etereo, quasi avesse attraversato una soglia di realtà per raggiungere una sfera sovra-sensibile, ultra-umana mentre l’immagine fotografica appare qui solarizzata. Lei, dalla maschera di cera, dal volto d’acqua, dallo sguardo fissato lontano, dagli occhi che trafiggono, attraverso la materia verso una sovra-realtà.




Radiografia: la luce trafigge la durezza pietra, allo stesso modo l’energia irradia attraverso la pelle, vibra dentro la materia e mostra l’aurea degli oggetti nelle loro vere forme messe a nudo.

In “Centauto nella foresta” di Hans Arp e “disegno automatico” di Masson la china affiora sul foglio portata da segni che appaiono accidentali e sul cammino si investono di un senso, di una storia.

Man Ray, “Noire et Blanc”

Il primo piano è sul volto levigato, candido e madreperlaceo, di un’idealità e una bellezza assoluta solarizzato nell’effetto fotografico contro il nero d’avorio della maschera africana. L’accostamento tra i due volti suggerisce il candore e insieme la lucentezza , l’aspetto levigato della pelle e dell’ebano, infine il bianco e il nero come la visione degli opposti che si integrano e si completano. Lo sguardo del fotografo portato su quel volto è colmo di sensualità e desiderio ma, il ritratto resta epurato, tuttavia, d’ogni forma di reale carnalità quasi fosse ricondotto a un archetipo universale del femminile .




Pablo Picasso, “Donna davanti al mare”

Dalla citazione di Breton in commento alla tela leggiamo: “la mia donna dal sesso di specchio, dagli occhi pieni di lacrime, dagli occhi di savana".




“Sempre sotto l’ascia”, affermano questi versi , vale a dire frantumata nella figura secondo l’ottica di scomposizione cubista eppure “dagli occhi d’acqua da bere” in un’ulteriore versione della “donna che piange” picassiana. Con il viso tra la linea del mare e dell’aria, il corpo scomposto nella pienezza delle masse, sintetica procede per blocchi essenziali, trascendente nello sguardo gettato sull’orizzonte azzurro-marino. E’ la donna picassiana inesorabilmente affranta nel volto ma dalla plasticità multipla e scomposta della figura vista da un punto di vista frontale e insieme obliquo sulla stessa tela. Infine appare immersa fino alla vita dentro il livello dell’acqua, poi in continuità con quello dell’aria, in ricongiungimento al piano cosmico universale.

Biomorfismo

Jean Arp: "Torso e covone di fieno"


Questa forma liquida, sinuosa, modellata e malleabile come fosse d’acqua o d’argilla appena lavorata, impastata e resa fluida al tatto appare estratta in potenza dalla materia. L’essenza organica della figura resta impressa nella durezza ineluttabile e brillante del bronzo dorato come una presenza, un’energia vitale, una forma erotica d’una sorprendente plasticità qui impressa nella definitiva linea scultorea. Il corpo femminile appare in quest’ottica surrealista messo a nudo da uno sguardo maschile intrusivo e desiderante verso un oggetto ambiguo investito di molteplici forze attrattive e repulsive: idealizzato, inseguito, distrutto e ricomposto, frammentato e manipolato come un puro oggetto del desiderio su cui si proiettano paure, fantasie, angosce e pulsioni inconsce del soggetto .




Tale sguardo erotico si esprime al massimo grado nel bronzo traslucido della scultura di Arp, mentre egli plasma la carne in forme affusolate e femminili dentro rotondità di natiche e seni, nella continuità di un movimento organico, innato al corpo che lo fa apparire come puro involucro dorato.

Tanguy “Composizione”, (1927)


Forme galleggiano in queste profondità marine e desertiche: creature fossilizzate in un fondo petroso di desolazione e solitudine dove l’universo acquatico appare prosciugato o evocato solo come un lontano miraggio della memoria per lasciare posto, unicamente, a queste dissolvenze organiche sulla pietra . Nella prima versione, le forme ancora acquatiche appaiono sul fondale blu-grigio mercurio della marina, nella seconda, esse dissolte o dissipate atterrano sulla griglia desertica di un oceano prosciugato. Un solo bagliore di luce pallida permane evanescente e riflessa in lontananza.




Le vedute desertiche e sofferenti di Tanguy riflettono da un lato la contingenza storica del secondo conflitto mondiale in Europa e il pessimismo cosmico degli anni post-olocausto; dall’altro, incarnano l'ibridazione surrealista tra forme minerali, vegetali e umane, organiche e formazioni rocciose in una forza di vita convocata.

Masson, “Goethe e la metamorfosi delle piante”

Il disegno automatico lascia affiorare linee su un foglio, per scoprire in esse il senso, il disegno come prendesse forma da un casuale tracciato di linee e di punti, come esistesse già là precedentemente e fosse semplicemente riportato in luce, restituito da una primaria nebulosa di tratti e punti.



Sempre nel surrealismo si tratta del tentativo di espandere i limiti della mente razionale e cosciente, e liberare la forza creativa dell’inconscio attraverso l'arte.

Sono simili a raggi ultravioletti, la metamorfosi prodotta dall’occhio, nel quadro di Masson. Goethe scruta attraverso il suo sguardo percuotente, in scansione ultrasensibile sulla realtà e penetra, scompone, analizza e entra in vibrazione con la vita essenziale delle piante. Secondo la teoria sulla “Metamorfosi delle piante” di Goethe cui si ispira il quadro, l’essenza della forma, quel quid immutabile sul piano ideale si materializza negli oggetti in una modalità fluida sul piano fisico di multiple grandezze e colori. L’uomo, allo stesso modo, vive in questa continuità e non-separatezza al mondo dentro uno stesso divenire cosmico. Il poeta, dunque, è per essenza "veggente e filosofo" visto nell’atto di guardare attraverso le cose e raggiungere la vera realtà, la surrealtà dell’oggetto passando per la mediazione di uno sguardo: forse di una “seconda vista”. La sua esperienza sensibile risponde a quella della vita della natura come fosse in una continuità , in una compenetrazione o quasi foto-sintesi tra la luce solare, il tessuto vegetale della pianta e la linea di luce proveniente dai suoi occhi. Per Masson come per Goethe lo sguardo e l’intuizione poetica passano attraverso il colore e la materia per giungere all’appercezione dell’essere.

Accostamenti sorprendenti dalle arti visive alla parola

La sezione raccoglie opere storiche dadaiste come l’appropriazione ironica della Gioconda da parte di Duchamps, “oggetti trovati” come la celeberrima “Ruota di bicicletta”, poi ready-made e collage, montaggi di diversi materiali su singole tele. Le opere dadaiste mettono in discussione attraverso l’accostamento sorprendente di oggetti, il fotomontaggio o la trasposizione dal piano quotidiano all’onirico la morale borghese e l’estetica realista aprendo la strada alle successive sperimentazioni surrealiste.

Joseph Cornell, “The sixth dawn” , l’alba di un cerchio d’oro e d’ angeli a forma di uccelli alati.

La mia mente, i miei anni, lo specchio del mio volto in un cerchio di fuoco e di luce. L’alba luminosa di un orizzonte che vedo troppo a distanza, aperto dentro una parentesi di infinito sulla sordità del reale circostante.

La mia mente, i miei anni, a occhi aperti visualizzati da una sfera di fuoco rischiarata dalla luce dell’alba. Una chiarezza laggiù, in quell’orizzonte lontano. Il mio sogno di infinito riflesso in quel cerchio di luce a distanza.

Tra gli oggetti surrealisti: la pianta tridimensionale di una casa aperta e riportata su un foglio, finestre e porte che danno su antri del sogno, cerchi concentrici (dell’immaginazione) tenuti stretti da una molla, un gioco di dadi.

“Il sogno di una chiave di notte” smarrita perché qualcuno la ritrovi, missive segrete, una raccolta di lettere-”allerte”, un “castello dalle mille scosse” sull’etichetta d’una bottiglia di vino svuotata. Ancora appare una scatola di legno dai tanti comparti aperta su tre dimensioni e poi richiusa dentro il vano di un muro: la mia piccola scatola dei sogni e dei ritagli, dei bijoux e degli oggetti sepolti del passato.



Infine, il " viso di Mae West" di Salvaror Dalì diviene in un’installazione contemporanea di Oscar Tusquets Blanca una camera d’appartamento ricostruita all’interno del museo dove i grandi occhi appaiono come due immagini elettroniche scomposte in unità infinitesimali, fluttuanti e sfuocate. Sedendo sul divano a forma di labbra si riflette ambigua e scomposta la nostra immagine di spettatori osservata sulla parete opposta dello specchio. Ancora, le due narici in plastica espanse divengono antri di camino rosso-carminio con fiamme artificiali brucianti al loro interno. Le luci sono basse e sfumate, la vibrazione del rosso fuoco dominante sulle pareti. La sensazione è quella di essere all’interno, nei recessi della stanza o di un corpo. Forse ancora, per l’artista, all’interno della psiche insinuandosi in un territorio abitato da pulsioni inconsce e desideranti. (elisa castagnoli)



Bloatware I, una strenna natalizia

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Strenna natabloatwarelizia, e per di più gratis: Bloatware I - Incrostazioni (o dell'amor molesto), un libretto. Trattasi di giuoco o sberleffo se preferite, di/a/da/in/con/su/per/tra/fra la poesia come materia più malleabile di quanto possa sembrare e contemporaneamente materiale di scarto, garbage, déchet, rumenta - sia detto con tutta la simpatia possibile verso i poeti, me compreso. Un minuscolo cut 'n' paste nato da perplessità, soprassalti e divertimenti ricevuti nella maggior parte dei casi da poesie di terzi che mi è stato chiesto di leggere in varie occasioni. Frammenti autentici estrapolati e rimontati a piacere ironicamente et sine iniuria.  Non so se avrà un seguito, ma roba ce ne sarebbe.

Trovate il pdf  QUI.  A tutti auguri di buone feste.



La parola liberatoria, nota di Rita Pacilio

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La parola liberatoria nasce nella nostra coscienza. Si accresce, ininterrottamente, di epoca in epoca, per superare i luoghi comuni dellaconfessione personale e trasformarsi in coralità conoscitiva della materia linguistica. È la ricerca del vero che muta e (incupisce o illumina?) il patema di essere vivi nell’estro creativo dell’esistenza. Per questo motivo occorrono simboli autentici e spontanei per ipotizzare e/o negare esempi tematici e stilistici. Alcuni autori viventi mantengono valido e saldo questo assunto senza manifestare il narcisismo di artista, né manomettere il moralismo. La parola detta di Stefania Di Lino– La Vita Felice, 2017, ne è testimonianza. Il ricordo, il tempo, la resilienza, si connettono con la sperimentazione del verso che va oltre il noto e prevedibile schema novecentesco. La lingua prende forma e definizione in una tensione narrativa e narrante come una trasformazione genetica: il rigo contiene l’essenzialità del reciproco senso quotidiano e, nello stesso tempo, pause/respiri (la punteggiatura ha il suo perché) dettati dal mistero dell’interiorità e dal suo movimento verso l’esterno. Poesie pregne di problematiche umane sentite/lette nello stato profondo delle cose, con impegno etico, con grazia, riconoscenza.


pianta casuale caduta dal cielo / negli interstizi angusti di una crepa / tra sassi inerti / depositati
tra rotaie / che stringono attorno / come fosse lapidazione / eppure in alto va / eppur si muove
nell’atto leggero del volare / che non si adegua al passo greve della terra / se orizzontale è il gesto
largo della semina /orizzontale fui io /e mi feci letto e mi feci sponda / pronta ad accogliere il seme


orizzontale dunque fui / e parallela alla terra /ma verticale è la pianta nata / che in alto il suo stelo
tende / ed è albero che come mani / in alto allunga i suoi rami / infinita ingenuità c’è nel crescere /
e nel portarsi avanti con la vita / una gentilezza tenera e sacrale / una proiezione che si nutre del
domani / e nel domani crede e spera,


Stefania Di Lino nata a Roma, dove vive e lavora. Allieva dello scultore Pericle Fazzini, e del poeta, critico d’arte Cesare Vivaldi, presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, si specializza alla Calcografia Nazionale del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, e si abilita all’Insegnamento per i Licei, occupandosi anche di formazione. è presente da anni in numerose manifestazioni artistico letterarie, coniugando spesso la parola con l’immagine in opere di Visual Poetry. Da anni partecipa a reading pubblici di poesia. Nel 2012 pubblica la sua prima raccolta di poesie Percorsi di vetro (DeComporre Edizioni). è presente in numerose antologie e riviste letterarie, tra cui I fiori del male (2016). Con un suo testo critico partecipa al X Festival Mondiale di Poesia, Caracas, in Venezuela; nel 2014 alcuni suoi testi vengono selezionati dall’unesco di Torino, per la giornata de «Etica Globale e Pari Opportunità: il contributo delle donne allo sviluppo dell’Europa e del Mediterraneo», pubblicati e tradotti in diverse lingue. Nel 2015, nell’ambito del programma dedicato alla Rassegna Poetica, presso la Galleria Biffi di Piacenza, con il poeta Franco Di Carlo, partecipa con una sua performance denominata Dialoghi poetici



Un viaggio … tra le righe
– Bagnoli Edizioni, 2013 è la prima opera di Mario Alterio. La parola l
iberatoria si manifesta, in questa raccolta delicata e intima, nella consapevolezza di vincere l’età, l’affanno della perdita, la dedizione di ri-cominciare la vita. Alcune illustrazioni contenute nel libro sono formule soddisfacenti per avvalorare il senso poetico delle parole. Per aprirsi al cammino bisogna diminuire le distanze: versi chiari e semplici per custodire elementi interiori e per intuire il lato, troppo spesso oscuro, del percorso. Il viaggio, qui, è il segreto misterioso della creazione. L’esperienza.

Shhh!

Ho scelto il silenzio

perché è il miglior nemico.

Ho scelto il silenzio

perché è il mio migliore amico.

Ho scelto il silenzio

perché nonostante tutto

è sempre il solo unico presente

che veramente ha capito …

***

Temporale

Abbiamo scatenato l’ira del tempo,

che beffardo si vide scemare

in un semplice contesto

di spiaggia,

stelle e mare.

Mario Alterio nasce a Campobasso il 29 agosto del 1986. Trascorre infanzia, fanciullezza e adolescenza a Telese Terme e si diploma all’Istituto Tecnico Statale per il Turismo di Faicchio come Perito Tecnico per il Turismo. A soli vent’anni si vede costretto ad “espatriare”, allontanandosi dalla sua terra d’origine non senza sofferenze, entrando nel mondo del lavoro come operatore sociosanitario nel centro per disabilità “Armonia” di Latina, portando con sé uno spiccato senso di humor e un bagaglio di valori di altri tempi. “Un viaggio … tra le righe” è la sua prima silloge poetica in cui esprime la sua altissima concezione del sentimento cosmico dell’Amore, che va vissuto come principio di Fratellanza Universale.



Lampi di verità– I Quaderni del Bardo Edizioni, 2017 è il lavoro recente di Donato Di Poce. Verità e realtà sono fili conduttori di questa elegante plaquette in cui l’autore investiga e denuncia, senza artifici retorici, le inquietudini del mondo rivendicando il pensiero intellettuale come prima casa. L’etica valoriale illumina il pensiero poetico esaltando, così come accade nella fotografia, il significato dei gesti e l’importanza della ricerca dei particolari. L’indignazione e la tensione civile si incontrano nella dignità filosofica, pienamente, inevitabilmente.

Essere

Nella vita come nella poesia

Bisogna imparare a volare

E a tacere per essere ascoltati

E a volte bisogna diventare invisibili

Per essere più presenti

Bisogna avere la pazienza del bruco

Che all’improvviso diventa farfalla

Bisogna essere visionari e fantastici

Ma soprattutto restare veri

Essere e voler restare umani.

*

Sassi

Si conservano sassi

Come respiri in fondo al mare

Si conservano sassi

Come trucioli di stelle clandestine

Si conservano sassi per sognare

Si conservano sassi

Quando le parole non hanno più spessore

Si conservano sassi per vivere

Si conservano sassi per costruire il futuro … (per Nadia De Gasperis)

Donato Di Poce , (Nato a Sora – FR – nel 1958 ma residente dal 1982 a Milano ). Poeta, Critico d’Arte, Scrittore di Aforismi, Fotografo. Artista poliedrico ed ironico ma dotato di grande umanità, si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica con la pubblicazione di una collana di 5 portfolio dal titolo: TACCUINO BERLINESE -East Side Gallery , Félix Fénéon Edizioni, Ruvo di Puglia (BA), 2009 dedicata al muro di Berlino. In un suo celebre aforisma ha scritto: “Il Poeta vede l’invisibile/Il Fotografo fornisce le prove”.



La poesia di Enzo Campi (Il VerbaioLe voci della luna, 2014, phénoménologieB.I.L, 2015,L’inarrivabile mosaicoAnterem Edizioni, 2017 , ex tra sistoleMarco Saya Edizioni, 2017) si manifesta con forza di seduzione nel suo registro stilistico e contenutistico. Un lavoro di recita e canto che si accolla la fatica dell’evoluzione della scrittura e del pensiero artistico/filosofico. La sofferenza, la gioia, l’amore infelice e/o corrisposto, l’esperienza della conoscenza, la vita, la morte e il tempo sono i temi ricorrenti. La lingua rompe gli argini tra i rapporti logici/idea e l’immagine. Le cose sono suggestioni/sensazioni tattili che percorrono memoria, simbologia, corrispondenze.

quale che sia la lingua irriverente
o inalberata in pavidi trasverberi di
senso o solo abbarbicata a sillabazioni
d’antica memoria quali che siano le
lingue forgiate nella bocca del vulcano
e madide di sapida saliva che cola
riversandosi nei solchi già sfibrati dal
transito della lava si tratta sempre di
scegliere il libro più adatto al gesto
che non è stato ancora compiuto

*

quale che sia il condursi se solo
indotto o congenito o rarefatto
in sapidi sentori esplosi dal cavo
o dai margini poi che allineati
lungodorso i corpi gli sguardi
i libri se mai franati a retrocedere
né più né meno di una cosa che
sia propensiva al tatto tra la
carezza e lo slancio senza una
vera causa di rottura tra le tessere
che compongono l’inarrivabile
mosaico a cui tendere la mano

*

a coltri di lampi come rinviati
a puntuali incontri tra monadi
e nomadi tra scheletri
d’albero che affiorano dalla sabbia
per meglio inciampare e dare un
senso al deserto a strali di folgori
inevase come impresse a fuoco
sul libro dei salti a retrocedere
senza processioni di formiche
a salvare il bottino la coppia della
folgore e del folgorato si rivolge
al coacervo di alghe esplose
dalla tiepida risacca interrogando
i lacci sulla funzione delle ligature
tra il sapido ceppo ove è inciso il
segno rivelatore e la serie dei libri
ove consolidare il contatto

(testi tratti da L’inarrivabile mosaico Anterem Edizioni, 2017)

Enzo Campi  Nato a Caserta nel 1961. Vive e lavora a Reggio Emilia dal 1990. Autore e regista teatrale dal 1982 al 1990 con le compagnie “Myosotis” e “Metateatro”. Video maker indipendente: ha realizzato svariati cortometraggi e un lungometraggio: Un Amleto in più. Ha pubblicato: Donne – (don)o e (ne)mesi (Genova, 2007); Gesti d’aria e incombenze di luce (Genova 2008); L’inestinguibile lucore dell’ombra (Parma, 2009); Ipotesi Corpo (Messina, 2010); Dei malnati fiori (Messina, 2011); Ligature (Sondrio, 2013), Il Verbaio – Dettati per (e)stasi a delinquere (Sasso Marconi – Milano, 2014) . Ha curato l’antologia Poetarum Silva (Parma, 2010), l’antologia Parabol(ich)e dell’ultimo giorno – Per Emilio Villa (Sasso Marconi – Milano, 2013) e numerose postfazioni e note critiche in volumi di poesia. . Ha curato inoltre due produzioni indipendenti: Trucioli (per Letteratura Necessaria), Rifrazioni (per Bologna in Lettere). Suoi scritti critici e poetici sono reperibili su riviste, su svariate antologie e in rete su siti e blog di scrittura. Ha diretto per Smasher Edizioni la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e coordinato le prime due edizioni dell’omonimo Premio Letterario. È ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria”. È direttore artistico del Festival Bologna in lettere.
Cura in rete i blog : http://letteraturanecessaria.wordpress.com/ ; http://boinlettere.wordpress.com/ ;
https://scrittureealtreofficine.wordpress.com/ ; https://parabolichedellultimogiorno.wordpress.com/


Viola Amarelli - Il cadavere felice

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Viola Amarelli - Il cadavere feliceViola Amarelli - Il cadavere felice - Edizioni Sartoria Utopia, 2017

Torno a parlare di Viola Amarelli, che trovate su IEin altri post , perché mi piace come scrive e come pensa, semplicemente. Inoltre questo "cadavere" è anche un oggetto che ha una sua presenza materica, essendo stato cucito artigianalmente dalle Sarte Utopiche Manuela Dago e Francesca Genti, e lo vedi sgomitare tra gli altri libri della libreria con lo spessore delle sue cuciture. In più tende anche a sottolineare la magnifica inutilità della poesia, perché vive in pochi esemplari ed è orgogliosamente fuori da certi processi produttivi. È quindi, in questo senso, un oggetto estetico, oltre che artistico, qualcosa che si pone consapevolmente fuori dalle mappe.
Ah, sì, le mappe. Perché lo dico? C'è qualcosa che assilla (o solamente interessa) Viola Amarelli, e mi pare che sia la ricerca e possibilmente la scoperta dell'essenziale che è possibile dire con il linguaggio che ci è concesso in dote, depurando il linguaggio stesso dai fronzoli che ne costituiscono il velame primario. Fronzoli che sono anche di fatto culturali, prodotti di una esondazione del mondo sulla scrittura, in sostanza alibi quando si rigetta la fatica di sezionare il reale preferendone il topos o la mera rappresentazione. Scrive Viola:

[gli accademismi, le traduttologie, le lectiones serpentiformi,
i periodi uroborici, l'armamentario lulliano, il bilame
del computo binario, disegnassero almeno una traccia, una via di,
un sentiero, altrimenti di bravi, bravissimi, ce ne sono già tanti]

È evidente la critica, in primis della poesia stessa, ma anche la critica della critica. Almeno come espressioni del linguaggio, non tanto come mezzi in sé, visto che tuttavia alla poesia Viola ancora crede. È che l'essenzialità dell'espressione è essenzialità del pensiero, soprattutto nel momento in cui la rozza materia linguistica diventa, come una amigdala di selce, uno strumento. Che deve essere infine consumato:

le parole sono pietre.

tu scheggiale

fino a che non diventano sabbia, polvere.

fine.

Be', qui entrerebbero in gioco altri fattori, diciamo così ideali, a parte quella chiusa che può essere intesa in diversi modi. Uno di quei fattori è che rarefazione del dire, frammentazione del verso, sospensioni sintattiche e altro ancora non sono iconografia nichilista, o rappresentazione di una realtà sfuggente e spappolata, o balbettio stupefatto dell'uomo. Sono semmai ammiccamento, anzi avvicinamento al silenzio come perfezione inattingibile, come forma d'arte suprema, o mistica. Naturalmente Viola sa bene che esiste un punto di rottura in questo avvicinamento, un culmine oltre il quale tutto precipita nel vuoto. Come scrittrice, perciò, cerca di raggiungere semmai l'arte di avvicinarsi al limite e ritrarsi, e questo significa, ancora una volta, depurare la parola mantenendone da una parte intangibile il senso, per qualunque orecchio, e dall'altra dandole un riverbero disvelante o sapienziale (ma siamo ormai lontani da Notizie dalla Pizia). Il limite fascinoso è, in altre parole, una scarnificazione "pulendo all'ossoessenza / quello che resta, quel che m'interessa". Processo consapevole quindi, mentre di converso il cadavere felice, come spiega la poesia eponima, è chi non sa di essere morto, come un arto fantasma che si illuda di afferrare brandelli di vita, mentre invece ha subito o accarezzato "uno sciame di mediocrità". Nella visione di Viola, critica del linguaggio e critica della mediocrità umana ("l'imbecillità dilagante") si sovrappongono, anzi sono indistricabili, perché è nel modo di dire, nella costruzione facile, nel sintagma assestato nella consuetudine (gli stessi che Amarelli talvolta destruttura ironicamente) che precipita la dismissione del pensiero.

Composto di cinque capitoli ( narrazioni, cronache, dèmoni, fantasmata e cerchi), la maggior parte dei quali inclusi, in tutto o in parte, in Fantasmata e altri inediti di cui avevo già parlato QUI (e quindi rimando anche a quel post, a quanto scrissi e alle poesie ivi contenute), il libro appartiene a quel genere di poesia che se ne frega altamente di essere lineare o assertiva, che cerca uno stile non autotelico (lo scopo in sé) e che se fa ricerca (termine che noterete ho usato solo una volta prima d'ora) è proprio per trovare qualcosa, non foss'altro, al bisogno, come scrivere "una poesia semplice" (trovate il testo nel post sopra citato) o il modo di confrontarsi a testa alta con le cose, ancora le"nudecrude cose" che, loro sì, "se ne fottono o, più esattamente, restano imperturbabili", o con la presenza sempre sotto traccia della morte, tenuta d'occhio e di conto, ma da una distanza "spirituale" e tutto sommato disciplinata. Ecco, credo che questo sia un concetto appropriato, applicabile su più versanti, sul lato soleggiato e sul lato in ombra della collina, per dirla in termini che Viola potrebbe apprezzare. Ovvero su quello della scrittura, per ciò che abbiamo detto prima ma non solo, la cui sintesi espressiva, rarefatta e contundente insieme, non viene contraddetta dai testi più lunghi, quelli ad esempio che è possibile leggere nella bella sezione cerchi; e sul versante dello sguardo, specie quando rivolto all'esterno, come alla sua città e alla gente (qualche esempio ancora in cerchi e nelle poesie contenute ne La disarmata - v.QUI ), sguardo sempre selettivo negli elementi, pochi e fondamentali, che vanno a comporre un'immagine che oserei dire compassionevole e partecipata di un comune destino di impermanenza (purché non si parli di imbecilli, naturalmente! o di certi orrori della modernità). È in fondo la disciplina della misura, che non è ritegno né understatement, è caso mai consapevolezza dei limiti e dei confini, anche di quel silenzio che la stessa parola poetica contraddice, proprio nel momento in cui lo prefigura: "le belle parole / le giuste / le sufficienti / quelle necessarie / finiscono nello stesso / punto dove nascono. / il silenzio - sipario". Nel frattempo però... (g. cerrai)



da dèmoni

deflagrare la piena - di pazzia

avevamo sensi senza usarli
se non per adattarci, noi e i nostri
cari (li avevamo comunque sterminati)

poveri lemming la fine sia
fu già un gioco gioioso
intemerato nel solco del ballare

nel vuoto, almeno così raccomanda
il dio del non senso, il supremo sensato
unitamente alle coorti dei magnifici 'chisenefotte' che tentiamo
di emulare

nel bolo digestivo, il chiummo int'a panza, raffazzonata
chienezza, l'ascetismo lo rimandammo
alle prossime tre - quattromila occasioni
di vita, dicevate in coro,

ce ne scampi la bufera, quella passò e, stupore,
respiriamo, ancora, almeno
un poco, grazie grazie per questi milioni di micron
inanellati nelle vene, le ex - gaudenti, le ex - stimmate,
le nostre stimate cerevella di spugna, già azoto, già
carbonio, ora impietrite - le cerevella.- ora silicio

deflagrare la piena - di saggezza

a ora a ora verso un'irraggiungibile
onniscienza (voi semprancora ci credete),

al dunque anche l'eutanasia è una fede


***


un ammutinarsi di parole, fantasima di suoni sincopato
"schizza dolcezza" frenetica l'amico, lo schizzo,

il priapèo, il cuoco ermafrodita che a Basile
rispose quale quale fosse la postura migliore

avé è meglio che dà, invidia del cerchio,
del maelstrom
la gorgonea medusa,

brucia brucia come legna le passioni
illimpidisci, tutto ha già vibrato


da cerchi

le cose non vanno come dovrebbero
come vorresti, piuttosto, dillo
non sei le cose

falle andare, resta amato un attimo
la stria di catrame degli stradini
roventi di sole al calore

la striscia di sangue, peonia su gambe
le cose la cosa che dici
che parli che ignori, non vedi
la tocchi

partirono in tanti, arrivano in molti
ricambio dell'aria al riciclo
gli affetti, silenzi che abbracciano
culle, risate nei grappoli

beata lussuria di buio e di acqua, le aringhe
sul Baltico, il freddo, corrente
il geyser e la lava, l'hai vista? l'hai detta?
che spreco di suoni, starnazzo noi oche
le cose non vanno, si fermano, splendono e
piangono


Elia Malagò - Lalange

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Elia Malagò - LalangeElia Malagò - Lalange - Ed. Fuocofuochino, 2017

Eccolo qua, un altro libriccino artigianale, quasi fatto a mano, un'esile creatura di cinque fogli A4 piegati in due e spillati, stampati dalla "più povera casa editrice del mondo", messa su da Afro Somenzari in quel di Viadana ( www.fuocofuochino.it ), con un catalogo che, insomma, mica male. Se nel caso di Viola Amarelli la tiratura si attestava su 120 esemplari numerati (v. post precedente), qui siamo all'edizione speciale numerata in venti copie, tutte autenticate da "un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova l’originalità". Ma non siamo al minimalismo, né allo snobismo, né al samizdat. Sono "solo" entità poetiche che amano manifestarsi così ai nostri occhi.

Di Elia Malagò  ho già parlato qualche volta (v. QUI), sebbene non quanto avrei voluto e dovuto sia per il suo valore sia per l'amicizia che mi ha sempre dimostrato. Valore che questo libretto non smentisce, nella estrema sintesi delle sue sette poesie, nella raffinatezza del versificare, nella trasparenza della scrittura, sempre costante da molti libri a questa parte. "Lalange  è un refuso della memoria di lalangue  con cui ciascuno si parla", scrive Elia in una nota. Sappiamo a cosa allude: in primis, al di là del rimando culturale, a quel "resto di una lingua cancellata" di cui parla Antonio Prete nella brevissima introduzione. Cioè qualcosa che va (come solo poeticamente è possibile fare) oltre il neologismo di conio lacaniano che, come altre idee dello psicanalista francese, si presta a interpretazioni ed equivoci che qui non ci interessano. Il refuso/lapsus in questo contesto prende la sua rivincita, guarda caso freudianamente verrebbe da dire, sulla "tecnica" lacaniana (cioè qualcosa che è interno alla disciplina), perché viene da qualcosa di più profondo e personale che nemmeno avrebbe bisogno di definizioni, dalla memoria. Niente è per caso. Se lalangue  è la lingua preverbale, quella abitata dal corpo e con cui il corpo si parla, se è l'aspetto primevo e materno della comunicazione, il refuso ci dice che la poesia ha già agito su di essa, raddolcendola e riportandola al livello simbolico che è proprio del linguaggio. Qui lallazioni, incertezze, regressioni non ce ne sono, o almeno non servono come idoli sperimentali. Ci sono eventualmente invenzioni/restauro di parole dai molti echi (frastorno, rabbiume, sfrombolata, calenda, garbino, verbi come guazzano, insalano), cioè - mi pare - recuperi di "antichi lallalli spersi nel deserto". C'è ancora quello che avevo scritto a proposito di Golena, "è certo che in quanto a parole Elia lascia poco o nulla al caso, la sua è una scrittura esatta", senza nessun tipo di compiacimento. C'è ancora la limpidezza dello sguardo con cui Elia osserva le cose, la sua pianura, sempre presente anche quando non espressamente evocata, e le idee. E tuttavia la riflessione sulla lingua c'è ed è l'oggetto principale di questi versi. Ma, a differenza di altri esempi rinvenibili nella poesia contemporanea, Elia non ne fa metapoesia, cioè non pensa alla sua lingua concettualmente. È semmai una riflessione radicale, proprio nel senso di una "liberazione" alla radice della parola, di un suo "etimo" implicito, perfino di una sua "blasfemia", ovvero di una rottura violenta del canone. Il punto è che Elia sa, o si domanda, se da qualche parte c'è una lingua cancellata, un idioma di cui rimane qualche segno, qualche "chiodo". Se scrive "ho dimenticato la lingua del pianto" non vuole dire che non sa più descrivere il dolore col linguaggio ma che il linguaggio del pianto non risuona più a dovere in lei, e c'è necessità di qualcosa che potremmo definire empatia del sé. La lalangue  lacaniana? Forse, ma qui si tratta se permettete del primato della poesia, come linguaggio specifico. Non si tratta di sciogliere un nodo psicoanalitico, si tratta di attingere a profondità diverse da quelle meramente psichiche, scendere al di sotto di certe superfici, recuperare un livello di comunicazione senza orpelli salvandone nel contempo la carica poetica. La ricreazione di una nuova lingua "esatta", ciò che ha tutta l'aria di essere un'evoluzione. (g. cerrai)


lalange

1

ho dimenticato la lingua del pianto

e non so più
i sapori che a cascata stanziano sotto il naso
insalano le labbra guazzano il mento
sbríciolano il silenzio e
idioti
mescolano muco e arcani
vergognandosi

mi vergogno di queste parole
liberate
sconosciute
                                               forsanche blasfeme






soglie

ma quante ce ne sono prima che l'oltraggio basti

limiti che la verità buca con una sfrombolata
e viaggiano e viaggiano
viaggiano findove si spacca la terra
si sfalda il muro di tufo
precipitano gambe e braccia

ì piedi ancora nella sabbia
gli occhi già ínghiottiti dal sale

quando tutta quest'acqua finirà di sole
e vento, comincerà la conta


Elia Malagò, due plaquettes - Addendum a Lalange

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Per espresso desiderio dell'autrice, che ringrazio, pubblico conElia Malagò grande piacere, in aggiunta al post del 6 gennaio dedicato a Elia Malagò, il testo completo della plaquette lalange da cui avevo estratto solo due poesie, con la prefazione di Antonio Prete, seguito dall'altra breve raccolta pubblicata sempre da Fuocofuochino nel 2015, dal titolo del disamore, con prefazione di Zena Roncada. Entrambe le plaquettes dovrebbero rientrare, insieme a diversi altri testi, nel prossimo libro a cui Elia sta lavorando con impegno da qualche tempo, un lavoro che personalmente attendo con grande interesse. Con l'occasione ringrazio anche l'editore Afro Somenzari per la sua amichevole disponibilità.


lalange


La poesia di Elia Malagò è resto di una lingua cancellata. Un restoche prende respiro e energia, e sale verso la libertà dell’immagine e verso la parola essenziale e necessaria. In questo movimento, aspro e dolce insieme, la lingua porta con sé un sentire che conosce la ferita, il limite, lo scacco del desiderio. Un sentire che sa sporgersi
sul vuoto di senso, sul dolore del mondo, su quel “pianto disseminato” che è poi la storia degli uomini. Con questa nuova lingua – la riconoscibilità del poeta è proprio nell’edificazione di una nuova lingua, quella “langue nouvelle” di cui diceva Rimbaud – la poesia di Elia Malagò può farsi interrogazione del visibile, e allo stesso tempo dialogo con il visibile, con il suo mostrarsi e il suo nascondersi, con il suo distendersi nel paesaggio fluviale e il suo ritrarsi nell’aridità. Un universo stranito, opaco, doloroso prende campo: parvenze di quel che è assente, frammenti di una memoria d’infanzia che non lascia detriti ma corpi e gesti e luoghi vividi nella loro lontananza, sguardo sulle ferite e sulla cenere che il sapere della civiltà ricopre di indifferenza. Il desiderio non cessa di confrontarsi con i suoi orizzonti occlusi o offuscati. Ma in una natura che mostra la sua potenza e talvolta il suo patto con l’apocalissi, si aprono a tratti cieli liberi e fluttuano immagini di forte presenza, di cui “l’estate che correva per mare e scollinava” è quasi emblema. Che sia fosca o limpida la scena, i versi collocano
ogni volta il lettore di colpo nel mezzo dell’accadere. Ma tutto accade nella lingua, nel suo prendere luce e vento, suono e respiro, senso e dolore, libertà e vigore. Questo accadere nella lingua è la poesia.
Antonio Prete


lalange

1

ho dimenticato la lingua del pianto

e non so più
i sapori che a cascata stanziano sotto il naso
insalano le labbra guazzano il mento
sbriciolano il silenzio e
idioti
mescolano muco e arcani
vergognandosi

mi vergogno di queste parole
liberate
sconosciute
                                           forsanche blasfeme

2

dico te ma sento me

non ho lingua e preghiera tua
che trapassi scorticata
e venga fuori a brani
gutturi
inson
miei

3

so che non c’è lingua

cantilena forse
di passi d’altri
contati in sonni non sognati
in notti di prima
che il tempo ha sottratto

so che di quella lingua
cancellata

da qualche parte
resta un chiodo
una polvere
                                       bluastro il barlume

Nota. lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla


soglie

ma quante ce ne sono prima che l’oltraggio basti

limiti che la verità buca con una sfrombolata
e viaggiano e viaggiano
viaggiano findove si spacca la terra
si sfalda il muro di tufo
precipitano gambe e braccia

i piedi ancora nella sabbia
gli occhi già inghiottiti dal sale

quando tutta quest’acqua finirà di sole
e vento, comincerà la conta


il margine

non lo aggiusti come ti pare la mattina
che s’è placata la tramontana

non è la siepe che togli il dissuasore
si apre nonostante le spine

il margine è maestro che si prende corrente
garbino piene e rottami
conta i passi e le infamità
confida nei due gradoni del sottobanca
raccoglie confidenze e segreti
mulina l’aria di colma e si gonfia di collere indicibili

ma non lo aggiusti
non si aggiusta

ti ci devi mettere davanti
senza socchiudere gli occhi
spegnere


libera

solleva questo piombo di cielo

contro la quarta parete che cade fitta
di nubi a frastorno d’aria fogliame
e rabbiume

- diciotto anni prima che ancora la luna
s’avvicini tanto
misure e percentuali calibrate
il faccione di matto fisso
lì che ci guarda

da qui a diciotto fanno un mazzo di steli
l’erica svasata l’estate appena scorsa

l’estate che correva per mare e scollinava
senza campo a cercare menta e rosmarino
avvitata lì
a una menzogna che rabbiosa e cattiva
si urlava dentro la sete

la fame

che ha traversato il deserto
e succhia le ossa che trova


ogni desiderio spento

te la figuri la notte che non s’accende
quando lo scuro incappa il cielo in un sacco di plastica
e lo tiene stretto tra stelle scariche e antichi lallalli
spersi nel deserto?

che calenda di tempo e sperpero
che splendore d’occhi

                                   tutto questo pianto disseminato




del disamore

La poesia di Elia Malagò si nutre di silenzi e lunghi scavi: attraversa cavità carsiche, poi erompe e trova voce per un’interna necessità. Quando vince la resistenza del riserbo e dell’indicibile, diventa un urto di immagini e parole, potente nella sua verità.

Qui, nei cinque ‘respiri’ del componimento, la poesia restituisce l’ecografia del disamore, costruendo un ponte fra la superficie (l’evidenza di una vita e di un tempo ormai a pezzi) e il lavorio occulto di talpe, larve e formiche, che ne ha logorato le radici e ne ha costruito le ombre e la fragilità.
Se il disamore, infatti, si rivela all’improvviso e incrina la quieta “lastra” del non vedere, del non ascoltare, del non dire, prima del suo affacciarsi/spalancarsi ha, però, già camminato dentro la vita, ha inquinato le ragioni dello stare insieme, ha seminato spine e intermittenze stonate.
Per questo nel prefisso dis- Elia non riassume soltanto il difetto, l’anomalia, la negazione, la diserzione d’amore, ma condensa la suggestione di un processo di lenta, insinuante, impercettibile macerazione: un inagrirsi del sentire.
Non dà, dunque, definizioni che fisserebbero quanto è mobile e progressivo, per ripercorrerne, invece, la vena sotterranea: sonda l’invisibile, la “ragione equivoca e livorosa”, scioglie (in verbi di cova e di sfaldamento) la sostanza imprendibile del sentimento, sospesa fra il vapore, il pulviscolo e le scaglie senza forma del pietrisco.
Ci lascia con la sensazione di una muta, inarrestabile colonizzazione: il disamore, nel suo farsi, non conserva niente d’intatto, neppure la memoria dei giorni buoni. Annebbia e svela, consuma pure le orme e i ricordi: “le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta”.

Zena Roncada


del disamore

I

lo scopri per ultimo e per caso

il disamore

sotto una lastra sottile di foglie
un poco macere d’acqua di riporto
o una grandinata di mezza estate
su uno sgrondo non curato

s’impasticca di larve e frutti che cadono acerbi
- forse metteranno manti di tigre o
magari faranno nido
in un brusìo -

al riparo svolterà il solito autunno

Lì covano fiele e arsura
il pianto raggelato e
nel fondo
deposita silenzioso
il formicaio del rancore

II

il disamore è talpa insonne che inebria nelle caverne di tufo
smotta e cumula insonora
la cova
dissigilla segreti e sfarina
pulviscolo senza impronte
Poi un giorno di luce né forte né piana
un giorno di questi
bassi su meridiano polso e mediastino
un giorno ordinario che scorre sul binario
e dietro risucchia l’orma di conserva

un giorno che fa somma e non si dispiace

quel giorno lì

spalanca le fauci rapido mostra

III

Cova come tutto il resto

cova figlia e s’invola
foss’anche in cabina guardaroba a sventolo
sulle stagioni e il disordine che tanto

cchessarrammai

doppiare consonanti
abbassare le vocali

spingere l’acceleratore spegnere i fari andare a manetta

a manetta
la manetta della scarpa che morbida calza
- vedi se conta la marca - sfrega il tappeto
e tornisce duro il valgo nell’impronta

IV

e il tempo frantuma in scaglie e pietrisco
un deserto di rose spinate crescono senza mostrarsi
ci sono e lo sai
perché gli occhi anche spinano

la vita va in pezzi piano piano come una cataratta
che si riprende le fughe del pavimento

lentamente le hai perse
fino a non cercarle più

intermittenze senza sussulto

V

tra l’una e l’altra vago il fruscìo

quello che sfonda l’uscio forse più liberato
le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta

nessun rendiconto
ché nessuno l’ha tenuto

il disamore è ragione equivoca e livorosa
trova un incaglio e depone
come il vapore sui fossi all’alba d’agosto
il deposito dell’ invisibile

                                                  come quando hai il nome nella mente
                                                  ma la linea che scorre sotto le palpebre

                                                  circumnaviga il viso ombra le labbra

                                                  e lì sul luminare lascia leggera
                                                  la striatura
                                                  della lumachella notturna
                                                  che insegue l’aura di una goccia
                                                  di sete


Elia Malagò (Felonica Po, 1948) si è laureata in Letteratura Italiana con Ezio Raimondi. È scrittrice e promotrice di attività didattiche legate alla poesia e alla scrittura creativa. Ha lavorato per la Forum - Quinta generazione e curato testi e antologie poetiche. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia tra le quali Ci dev'essere un posto (Firenze, 1967), Saranno gli altri a testimoniare (Forlì, 1968), I discorsi di sempre (1970) con cui ha ottenuto il Premio Cervia, Buffa sonagliera (1978), Pita pitela (1982), Maree (1986), Incauta solitudine (Passigli, 2010),  Golena (2014). In prosa, L’ombra ripresa (Sabatelli 1988, TreLune, 1999; dal 2007 ufficialmente libero da ogni
contratto editoriale). Per FUOCOfuochino ha pubblicato del disamore (2015) e lalange (2017). Vive a Mantova.


Elliott Erwitt - Personae, riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli

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elliott erwittElliott Erwitt, “Personae”: un mondo in immagini (visto ai musei S.Domenico a Forlì)

“Personae” retrospettiva che rende omaggio con un’ampia scelta fotografica ai capolavori del fotografo americano Elliott Erwitt presso i musei S. Domenico di Forlì è una molteplicità ironica, a tratti poetica o umoristica, sempre tuttavia profondamente umana di ritratti: i volti delle celebrità o quelli di gente ordinaria, cani che prendono spesso le loro sembianze e fanno loro il verso, infine i volti delle città viste attraverso punti di vista d’eccezione che li rendono unici, icone come tali entrate nella storia della fotografia. Nella prima sezione in bianco e nero fino alla metà degli anni ’70 Erwitt si sofferma in particolare sulla distorsione del punto di vista, spesso prediligendo quello degli animali che affiancano gli esseri umani e guardano quella stessa realtà dalla loro postura, nelle loro dimensioni e posizionamento sulla terra con un implicito risvolto ironico o parodico.

“ Le cose che mi divertono nella vita...le persone senza dubbio_i paesaggi meno_ quello che fanno nella vita e come si comportano. Tutta la mia fotografia riguarda questo. I cani sono un ottimo soggetto perché sono universali e li trovi ovunque nel mondo. Non obbiettano ad essere fotografati e non chiedono mai impronte.. ”

“New York city”, 1974 ( Taking the shot from a tiny dog perspective”)

Cosa significa essere o vedere la realtà dal punto di vista del piccolo e del minoritario, del basso e non dell’alto, del micro e non del macroscopico, portare l’attenzione ai piedi anziché alla testa, volgere le prospettive come in questa immagine mettendosi nei panni di un piccolo chihuahua umanizzato. La realtà percepita da quella prospettiva appare a lui enorme, disumanizzante negli stivali neri di cuoio lucidi e militari e in grandi zampe simili a quelle di un cammello che gli cammina accanto. Erwitt gioca con i paradossi e si diverte a ribaltare la superficie traslucida ed edulcorata, troppo educata delle apparenze per decentrare costantemente con ironia lo sguardo del suo obiettivo, periferico sull’animale; in particolare assume la misura dei vari prototipi di cagnetti antropomorfi, abitati di umanità parodiando la medesima per parlare del mondo che lo circonda.



Nella fotografia divenuta icona erwittiana di New York (1946) per esempio, la città è vista esclusivamente attraverso un dettaglio fotografico portato ed espanso in primo piano: i piedi della donna si mostrano enormi, ingigantiti all’ennesima potenza attraverso i sandali neri sullo sfondo di un viale alberato e di alti edifici in fuga prospettica verso il fondo. Il contrasto appare evidente e scherzoso tra la minuscola postura del Pittsburgh nano che fissa l’obbiettivo e di cui il fotografo assume il punto di vista e le dimensioni di una realtà estranea, smisurata qui resa a lui incommensurabile.


I volti delle città allo stesso modo sono filtrati attraverso lo sguardo erwittiano di questi prototipi canini alter-ego dell’umano. New York è un viale spazioso nei pressi di Hyde Park democraticamente visto assumendo il punto di vista del piccolo o del periferico in primo piano. Londra (1966) è l’interno borghese di un salotto ricoperto di moquette floreale, tappetti decorati e un sobrio camino vittoriano al centro sul quale troneggia un orologio a pendolo in suppellettile contornato da minuscole ceramiche e grandi sontuosi candelabri. Nell’immobilità del luogo un bulldog appare al centro tra il cinico e il derisorio spossato dal grigiore del lusso circostante.


Parigi sono le scarpe nere di un charlot dai piedi grandi aperti a punta verso l’esterno, un boulevard e forse un ombrello, un cagnetto che salta in aria tra il bianco e il nero prendendo il volo quasi con poeticità e ironia.




“ Ogni fotografo lotta per quel momento straordinario che trascende il tempo e il luogo presente, qualcosa che resta e può essere guardato negli anni a venire. Tale è ciò che chiamiamo magia”.

I corpi sono spesso di schiena dando le spalle allo spettatore nelle immagini di Erwitt perché si tende a non mostrare l’oggetto in maniera trasparente come un riflesso immediato di realtà ma invece a sovvertire, rompere o spostare quella superficie apparente, mondana di semplice duplicazione del mondo fisico per metterne in discussione implicitamente i presupposti. In Erwitt si tratta di vedere qualcuno nell’atto del guardare, per esempio soffermandosi a osservare i visitatori ignari nei musei, o ancora, di mettere al centro i piedi e non la testa oppure di prestare l’obbiettivo ai più inusuali punti di vista, spesso a quelli canini.

Interni dei Musei e ironia sull’arte contemporanea

Di Venezia restano le vetrate e i riflessi d’acqua dei canali che riverberano sui quadri divenuti nudi, lucidi e trasparenti negli interni dei palazzi antichi. Al Louvre è ancora la parodia sull’arte contemporanea a far sorridere al centro dell’immagine: in una galleria classica di ritratti figurativi un gruppo di turisti volgendo a noi le spalle si sofferma incuriosito su una cornice vuota con un biglietto da visita bianco al centro: un’opera d’arte concettuale si chiedono, un lavoro in allestimento, uno sbaglio dei curatori, una cornice temporaneamente svuotata oppure rimasta vuota per inadempienza. Perplessi e allibiti fissano la presunta opera contemporanea negligendo completamente le magnificenti tele classiche. Al Metropolitan, , una statua di nudo femminile troneggia in bilico al centro sorvegliando gli spettatori contro i riflessi dei cristalli che rifrangono attraverso i corridoi. Una schiera di scarpe e cappotti di visitatori al Prado compaiono di spalle di fronte a una tela: scarpe da ginnastica, in cuoio, con laccetti, lucide nere o sportive, poi impermeabili, giacche , il gruppo di uomini tutti di fronte al nudo femminile, la donna ironicamente al lato opposto di fronte alla figura vestita.

“La mia prima impressione di New York è stato nel 1939 quando sono immigrato e ho atterrato in questo paese. Una meravigliosa impressione che continua ancora oggi. Una luogo meraviglioso, quello in cui vivo, con cui mi identifico, dove è il mio centro ,le mie attività e famiglia.”

“New York”, 1955 (Empire state Building)

Solitudine e sospensione: lo skyline newyorkese immerso nella foschia mattutina. Osserva di fronte a lei quella valle di edifici e profili di grattaceli avvolti nella patina densa e opalescente di nebbia. Elegante, sobria ed essenziale nell’abito nero si cela in primo piano dietro il cappello scuro volgendo a noi le spalle. Guarda oltre il parapetto dell’alta ringhiera, oltre il limite della cancellata in lame di bronzo appuntite. Getta lo sguardo oltre, su quella valle biancastra rischiarata dalla soffusa luce dell’alba, irradiante ma velata, distante ma filtrata dalla densa patina mattutina. Là si perdono anonimi e sfuocati gli edifici della città sullo sfondo fino alla grande torre in alabastro che troneggia al centro, maestoso “Empire state building “solo in verticale in mezzo al grande mare di nebbia. Quasi assumendo l’inquadratura di quello sguardo, il fotografo ignora gli spettatori, nasconde il volto della donna e riquadra la fotografia attraverso la potenza del suo soggettivo percepito. Lei, nella sospensione mattinale dell’alba, nella nebbia di false apparenze e sembianze illusorie che impediscono una visione netta e limpida della realtà. La solitudine della metropoli ai suoi piedi ricoperta dall' ingannevole foschia mattutina.



Fotografia e danza

“ Gli elementi di una buona fotografia sono la composizione in primo luogo, il contenuto successivamente e un aspetto più effimero, qualcosa che non si può costruire ma che si riesce a scorgere in alcuni momenti: l’incanto dell’immagine”

Sono sullo sfondo come profili in controluce; la danza li avvolge sinuosa come una stretta, dolce come una carezza, tenera un abbraccio. E’ lo scivolare lento e cadenzato dei corpi nel ritmo del tango, l’ avvolgere sensuale delle coppie strette nella sala sul linoleum lucido e riflettente del pavimento. Una simmetria perfetta di corpi delineati nell’ombra sensualmente danzano su una scena casuale ritagliata dalla luce che penetra attraverso una porta-finestra sullo sfondo. Svuotati di presenza divengono icone di loro stessi, “corpi della danza” nell’atto d’essere presi, rapiti, abitati da un movimento innato.



Danzano ora abbracciati nel corridoio di una cucina a Valencia. (1952).Sorpresi dallo scatto si lasciano portare dalla melodia casuale della radio sul sottofondo in pietra dove i loro corpi si muovono tra un lavabo e un mobile da cucina sorpresi nella stretta intima di un abbraccio. Ancora danzano bambini abbigliati per una festa durante un ricevimento in una hall newyorkese svuotata e fredda, forse alla fine dell’evento. Ripetono seriosamente il rituale visto perpetuarsi dagli adulti, insieme giocosi e seri, degni nel ruolo loro assegnato del ballo, e con questo sguardo di innocenza, il piacere celato del gioco mentre paiono prestarsi, di tanto in tanto in sordina all’obbiettivo.

“ Penso che la cosa più importante di una fotografia sia risvegliare emozioni, fare ridere o piangere la gente oppure entrambe le cose simultaneamente. Quando riesci a far piangere e ridere qualcuno allo stesso tempo come Chaplin faceva è il più alto dei risultati. Un obbiettivo supremo”.



La fotografia di Erwitt allo stesso modo parte da un “guardare la realtà” e “interpretare o mostrare quello che si vede” in maniera mai neutrale o con un unico punto di vista ma, invece, scegliendo di mettere a nudo spesso con ironia o umorismo la contraddizione o il paradosso insito, in quel frammento di vita, spaccato di società o di tempo che intende raccontare. In “Pittsburgh” per esempio (1950) sullo sfondo di un’America dell’apartheid raziale dominata da un establishment bianco e conservatore un bambino nero è visto ridere di fronte all’obbiettivo in una posa scherzosa frontale alla macchina eppure con una pistola giocattolo puntata alle tempie. In “North Carolina” (1950), le due metà simmetriche nell’immagine anche visivamente sanciscono la segregazione razziale e sociale dei neri in America platealmente esposta e etichettata come norma ancora negli anni sessanta. Nel “white side” una bianca fontanella in ceramica, nel “coloured side ”un putrido rubinetto arrugginito e stagnante come protuberanza marginale all’immagine dove un giovane nero sta bevendo.



In “Paris 1949” i ragazzini in strada indossano maschere di Carnevale; appaiono simili a personaggi fantastici o mostruosi dai volti deformati mentre accanto a loro si assimilano due ritratti di donne di quel rione popolare, ugualmente maschere dalle sembianze pittoresche: una venditrice gioconda di mercato , florida e pettoruta dal volto rubicondo accanto a una probabile cliente popolana anch’essa una maschera allegra e rupestre. Come se il mondo fosse questo grande affresco visivo per Erwitt, superficie meravigliosa, a volte corrosa o incrinata, da svelare con ironia, o meglio reinquadrare costantemente là dove i concetti di apparenza e “normalità” si situano sul confine sottile che li separa dal loro contrario facendoci sorridere e riflettere allo stesso tempo.



Una serie di schermi visivi mostrano costantemente la contraddizione o l’implicito sguardo parodico portato da Erwitt sul mondo. Schermi sono i finestrini, i vetri, i dettagli irrisori messi al centro dell’immagine, le maschere; infine come in “Colorado” lo sparo sul finestrino di un auto in coincidenza alla pupilla del ragazzino filtra il suo sguardo sul reale attraverso una frattura o frantumazione del vetro riflettente. Interdizione a vedere direttamente scegliendo invece la mediazione di una lente deformante, qui quella di un vetro infranto che potenzia e rende altra la visione.

Coloured Images (few shots)

“ La fotografia: un’esteriorità meravigliosa che talvolta giunge a toccare la durezza che si nasconde dietro la maschera. In quanto fotografo mi occupo di superfici, l’apparenza delle cose”.

Puerto Rico, (Pablo Casals, 1957)

Erwitt dipinse questo paese come un rifugio di grande serenità e bellezza; i suoi ritratti del noto violoncellista Pablo Casals ebbero un ruolo fondamentale nella lotta per l’affrancamento del Venezuela dal regime dittatoriale vigente negli anni sessanta.

Una sorta di dittico di presenza/assenza a colori sullo sfondo della sontuosità di una tipica dimora amerinda dove il musicista stava probabilmente ripetendo per un prossimo concerto.

Prima immagine: immersa nella piena luminosità del giorno, la luce filtra attraverso la grande porta-finestra del magnificente salone nell’ora del mezzogiorno. Su una scacchiera di bianchi e di neri scivola come la musica sinuosa e avvolgente, ora lenta e toccante del violoncello nel continuum dell’esecuzione. Casals si trova totalmente assorto, assorbito e abitato dalla melodia che sta cercando, componendo o inseguendo all’infinito nella realtà sublimata del momento presente.

Seconda immagine: una fotografia in assenza. La sedia è vuota in vimini al centro dello spazio e il violoncello immenso e splendido nel contro-luce d’ombra vi appare appoggiato contro. La grande sala bianca dalle pareti nude è immersa nel silenzio, il pavimento a piccoli riquadri è visto a distanza ora. Nella hall bianca e vuota di fronte alla grande porta smaltata e i muri decorati di stucchi penetra attraverso la filigrana sottile dell’ampio rosone al di sopra. Pervade e illumina la sala sublimando nel silenzio la spazio in una luce rischiarante, quasi divina.

Immagini d’acqua: Salamanca, Brighton and Venice

Salamanca, Spain (1964)

Stende le lenzuola appena lavate sulle rive del fiume nei pressi di Salamanca. Tessuti bianchi, grandi riquadri candidi e tersi ricoprono l’erba contro le rive spoglie del fiume immobile nello scorrimento. L’acqua è stagnante, torpida e ferma a ridosso del grande ponte in pietra a vista che lo sovrasta. Sulle rive del fiume distese di bianco candore ricoprono la superficie impervia e sassosa di scorie e sassi lì dove le acque del fiume vengono a depositarsi contro l’erba inaridita del corso.

Venice (1965)

Palazzi veneziani divorati e corrosi dalle acque; i loro muri in primissimo piano appaiono mossi, aperti in crepe irregolari, sfaldati dalle correnti che restano non visibili se non per il loro riflesso sui vetri opachi delle finestre chiuse. Panni sono stesi tra le due file di persiane. Un bambinetto esile e magro in bilico cammina ridendo sul bordo del ponte in fragile equilibrio; avanza in primo piano nello scorcio prospettico spingendosi fino a noi quasi oltre il limite della foto. L’anima del luogo, della città d’acqua essenzialmente filtrata attraverso il suo scorcio sul palazzo.

Brighton (1956)

Una spiaggia d’inverno sulle coste fredde e ventose dell’Atlantico nei pressi di Brighton, traslucida e brillante come specchio. Semi-nudi, in costume, con le scarpe levate e i piedi nudi o i pantaloni arrotolati al ginocchio camminano a riva, avanzano dentro l’acqua, corrono tra le onde, si allontanano dalla spiaggia, giocano sulla banchina impregnata di limo a ridosso dell’oceano, chiacchierano, volgono a noi le spalle. Sono di schiena, di profilo, in piedi, ora un bambinetto a carponi sull’acqua scava dentro la sabbia. Miracolo dell’istante, composizione arrestata in un attimo di verità, di vita messa a nudo, esposta e lì colta in quell’istante effimero e raro che Erwitt definisce “incanto” . Percepiamo tutto attraverso l’immagine: l’inverno, la patina d’acqua traslucida nel riflesso del mare nordico, l’Atlantico, il freddo oceano del Nord, la sabbia slavata dal pallido chiarore solare, i flutti lievi mossi dall’oceano.



Ground Zero, New Mexico (1965)

“Ground Zero”, è terra di confine, rasa al suolo, impervia, al di là della frontiera Americana o forse al limite tra questa e quella messicana, lì dove venne lanciato il primo prototipo di atomica nel ‘45 prima dell’esplosione epocale di Hiroshima. Deserto arido in una delle zone più remote e impervie della terra, gli arbusti e le asperità delle rocce si profilano al limite dell’orizzonte evocando la sierra ”oscura" in New Messico. Dal margine ultimo di una frontiera spostata all’estremo ovest nel paesaggio americano, dal miraggio di oro e libertà nel suo mito fondante a “ground zero”, in New Mexico, come a Manhattan dopo l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001. Qui, forse il limite ultimo e irreversibile di un territorio reso schegge vetrose di deserto dopo la detonazione atomica, “grado zero” di civiltà nell’estremo cosmico di distruzione prodotto dalle guerre. (elisa castagnoli)


norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre

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norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre - Edizioninorbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre alpha beta Verlag, Meran/Merano, 2017

Ci sono coni d'ombra, nella poesia italiana, zone in cui il lettore arriva con grande difficoltà o per caso, paludi di oblio che spesso corrispondono ad areali linguistici minoritari ma a cui non sfuggono nemmeno altri, se non interessano all'accademia o all'editoria, un'ombra che a volte si illumina per caso. Mi è successo, per fare un esempio, con Roberta Dapunt (v. QUI ). Ed ecco, ringrazio per questo Francesca Corrias, un altro poeta che non conoscevo. norbert c. kaser (sì, proprio così, tutto minuscolo, come lui preferiva) è un caso del tutto particolare, che trova in questa ottima pubblicazione (a cura di Toni Colleselli, traduzioni di Werner Menapace, introduzione di Lorenza Rega) la collocazione antologica che merita. Poeta e scrittore altoatesino bilingue, nato a Bressanone nel 1947 e morto a Brunico nel 1978, kaser ha avuto una breve vita travagliata, vissuta in condizioni disagiate e solitarie, con vari tentativi frustrati di essere e sentirsi parte di qualcosa, fosse la religione cattolica (un anno in un convento dei Cappuccini), o la politica, nel sindacato prima e nel partito comunista poi, oppure l'università, abbandonata nel 1971. E poi vari lavori precari per sbarcare il lunario, compreso quello di maestro di montagna, e il ricorso all'alcool, che ha avuto una parte rilevante nella sua salute e nella sua morte. In mezzo una presenza di polemista, di attivista politico, di feroce critico di un rigido establishment sociale e letterario di cui soffrivano indifferentemente artisti tedeschi e italiani (a questo proposito va ricordato che kaser, al di là delle note vicende separatiste dell'epoca, ha sempre sottolineato la sua italianità). Come kaser ebbe a dire (citato da Lorenza Rega): “Lentamente svaniscono i pregiudizi nei nostri confronti. A noi spetta la parola! Qui dalle nostre parti si aggirano ancora così tante vacche sacre che non si riesce a vedere niente al di fuori di questa mandria. Ma la festa dopo il macello sarà imponente. E vi parteciperanno anche gli italiani. Anch’essi hanno una mandria di vacche sacre. I macellai hanno all’incirca la mia età. Il Sud tirolo avrà finalmente la sua letteratura e di un valore e importanza tali che nessuno può oggi immaginarseli.” Il rancore che kaser sentiva crescere nel ventre aveva anche queste dimensioni, che forse possono apparire tra l'incendiario e il futurista, ma che danno un'idea di una potente rivolta culturale, e che se contestualizzate rispetto alla realtà altoatesina del tempo possono fare affermare, anche a uno studioso attento come Claudio Magris, "atteggiamenti letterari che in un contesto culturale diverso sarebbero puberali o patetici, in Alto Adige hanno ancora un valore contestativo” (cit. da Toni Colleselli). Il che, in un certo qual modo, è un giudizio parziale, riduttivo, perché rischia di confinare kaser in una posizione decentrata, locale, o appunto contestativa, mentre stile, temi, qualità della scrittura e anche ricerca linguistica trascendono le "occasioni" che hanno generato il suo lavoro.

Il libro, un corpus di 175 testi in versi e in prosa (le poesie sono 140 di cui 15 scritte direttamente in italiano), ci restituisce un poeta di assoluto valore, a cui non è difficile riconoscere la qualifica che gli assegna Toni Colleselli di "maggior poeta italiano di lingua tedesca", tutt'altro che un poeta a cui affibbiare quella specie di apolidia che si associa alla letteratura di "confine". I temi sono molteplici, e certo kaser ha sempre in sé il concetto di heimat, fondamentale in tutta la letteratura germanofona, portatore di un legame non necessariamente costrittivo, ma anzi fecondo, con la tradizione; c'è certamente il continuo rimando alla realtà anche locale, alla cronaca, a un sentire politico e sociale, al paesaggio della sua terra spesso interpretato come grande correlativo oggettivo di un inquieto sentimento dell'esistenza; c'è una visione disincantata e certo pessimista della vita, c'è l'amore, c'è un sotterraneo dialogo con Dio, c'è la visione poetica delle città e dei luoghi visitati fuori dal Tirolo, c'è il gioco linguistico e l'invenzione fiabesca nei testi che scriveva per i bambini a cui insegnava. Ma quello che più colpisce in queste poesie è un rapporto con il mondo forse pessimistico come si diceva ma non domo, non difensivo, non ripiegato su di sé, non autocommiserativo, c'è semmai una pretesa di risposte a molte domande, l'inesausto tentativo di superare una situazione di "inceppamento" (Magris) culturale, sociale, generazionale. Anche se, aggiungo, chiudendo il libro resta un finale drammatico senso di cupio dissolvi. C'è in questa voce, come giustamente nota Roberto Galaverni in una nota apparsa su La lettura nell'ottobre 2017,"qualcosa di duro e d'irrisolto, qualcosa come un'indignazione fondamentale, come un'impossibilità di tregua [che] attraversano dall'inizio alla fine i versi di questo poeta, tanto da porsi come il suo carattere più distintivo e qualificante". E' questo carattere ad imporsi sulla scrittura stessa, che può apparire alla prima con tratti sperimentali, per aspetti visivi e linguistici, scrittura invece "motivata da ragioni niente affatto letterarie ma immediatamente storiche ed esistenziali" (ancora Galaverni). Un libro di così alto valore che, a differenza di altre mie letture, c'è davvero l'imbarazzo della scelta (comunque sempre arbitraria e ingenerosa) nel selezionare qualche testo esemplare da proporre qui. (g. cerrai)



da 1968 (l'antologia è in ordine cronologico)

il morticino di castel neuhaus

quando un giorno
a dieci anni
per la prima volta
vidi qualcosa di morto
era un bambino

un settimino
mi dissero
con il capo
appena sfiorato
dal battesimo …

più tardi lo sognai
i fittavoli erano sì
addolorati come se
avessero perso una mucca
per il resto poco di più

per il resto niente – disteso
nell’abito da battesimo
bianche le labbra
settimino … non
mi diceva niente

mi stupivo solo
e sognavo solo
come
lui

29. 4. 68

***

molto tempo fa

molto prima di me
benn
pace all’anima sua
che fra ventidue anni come me
non sarà più ricordato da nessuno

molto tempo fa lui ha
detto quello che io
da tempo volevo
voglio
dire

riconosci la situazione

***

roveto

nella neve rigida
investito dal fuoco
fiorisce
il roveto arancione
gialloverderosso

arrostite le
bacche della rosa canina
dell’ometto del bosco
zampe di ragno abbrustolite
a tavola
pranzo dei poveri
mistica dei sazi

rossoverdegiallo
arancione il roveto
investito
dal fuoco fiorisce
nella neve rigida

***

da 1969

palla

avevo una
grande palla blu
poi mia sorella
con un lungo ago
appuntito la
bucò

ora la mia palla
è morta non è più niente
non rimbalza più
ho chiesto io a mia sorella
di fare buco

ho voluto vedere
se anche dentro è
blu e che altro c’è
dentro per farla
rimbalzare

non vedo niente
il buco è troppo piccolo
devo farlo più
grande

la palla è vuota la mia
grande palla blu
e non rimbalza
e rotola solo
perché

***

inno 3
ovvero trattasi ancora di un inno


a brunico

                  motto:
                  chi osa sfidare i piccoli
                  borghesi?

in pochi vicoli cani senza badare
alla polvere gialla sporcano i portali in granito
   sul ponte rienza uno svizzero vola
   dritto per terra molto bella la moto
   in fiamme
gli italiani locali presentano ai
locali la moda
   davanti al ristorante corso uno sbronzo stri
   sciando minaccia di mordere la gamba della
   padrona ladina (giusto
ognuno si fa gli affari propri il commerciante di
tessuti omosessuale cerca di evitare ricatti
donne e fallimento (questo non si può
dire
   tutti sanno tutto
nei giorni di mercato arriva la gente dai paesi
   il decano purtroppo è ancora in vita
il sindaco viene cambiato
   uno impazzisce uno si immusonisce
   uno muore assiderato
alcuni si credono cittadini schifosamente distinti
se ne percepisce l’olezzo
   la vecchia hinterhuber è solita camminare lungo
   l’argine del fiume suo marito era cleptomane
   e albergatore (giusto
   nisi contro i morti
il cimitero di guerra è kitsch perché vi riposano
solo soldati – anche turchi ed ebrei –
e perché piace a tutti.
   il castello è di proprietà come potrebbe essere
   altrimenti del vescovo non più per molto
tutte le corporazioni si sgranchiscono le gambe
   i pittori qui però non valgono niente (artisti
puttane e mecenati non ve ne sono (ci
mancherebbe
   tutti sanno tutto
non può essere diversamente in queste condizioni
spasmi appendicectomie
   un caro saluto a giovanna al momento
   ricoverata al macello (appendicite
padre guardiano ofmcap. è un orso (a dir
poco
   la brunico tedesca è apolitica e
   vota compatta un unico stupido partito
   la brunico italiana ha tanti
   partiti essi sono la minoranza intelligente
non si deve simpatizzare con gli italiani
non sposare mai una ragazza tedesca
   si dovrebbe avere una macchina per poter fare
   il bagno nel laghetto d’issengo di proprietà del
   ricco innerhofer (vende vasche da bagno
brunico è operosa e intelligente negli affari
   a chi non è pratico della zona si raccomanda
   la guida di larisch il direttore di fabbrica e
   chi non è pratico capisce subito quanto siamo stupidi
   etcetcetcetc …
mai
sfidare i piccoli borghesi
non riuscirai più a venirne a capo
non sei alla loro altezza
diventi tu stesso uno di loro
                   sicché bisogna
                   portarti un caffè con
                   panna montata alpina
                   per pulire
                   il becco

***

la tua terra    (in italiano)

sai che la tua terra
ti può far morire
non per nostalgia
     (questi tempi ormai son passati)
ma per l’esperienza
che nessuno ti ama

sai che la tua terra
ti può ammazzare
perchè tutti ti vogliono bene
morirai sotto i loro baci soffocanti
     tu che non li amavi mai

allontanati
torna però

***

da 1975

canto della povertà di idee

terra amata
fatta di campanacci &
risse da osteria

figlia del clima
madre dell’uva

sbuffare dei venti
vette rosseggianti
su fiumi verdi
& ai piedi
           un drago abbattuto
vicoli familiari
senso civico fiero coraggio contadino
nemica del terrone & peggio
di lui

figlia del clima
madre dell’uva

intimi paesi
grembiule blu & tori
autonoma
pagani in divisa degli schützen
pompieri musica

salteri cetre nessuno
sa cantare lo jodel

consacrata al cuore del dio

& su tutto si libra l’astore sbranagalline

040575

***

da 1977

fiera di stegona
edizione 77


piangere voglio piangere per la fiera più grande del tirolo.
gente a frotte anche persone … nient’altro.
ma la fiera non strilla più.
occhi di bimbi non si perdono sul mandorlato.
standisti automatizzati.
dove? dove i mendicanti gravemente mutilati
                    i saltimbanchi truffatori mangiafuoco
                    i santini toccasana
                    le tigri pantere scimmie dal culo rosso
                    la suonatrice di fisarmonica più grassa del mondo
                    caldarrostai imbroglioni serpente boa
                    motociclisti acrobati orso ammaestrato funamboli

insipida la mercanzia senza sale da far vergognare i fiori di
plastica.
mancano le note di colore nell’ondeggiare brulicare & viavai.
ma su tutto provenienti dal tendone della birra gli odori dei
polli
massacrati in massa fluttuano verso il paese di stegona.
piangere voglio piangere & non trovo più il fazzolettaro
con la sua cantilena:

    uno per mariolina nannarella giacomino giuseppino teresina
                   mariolina nannarella giacomino giuseppino
                   mariolina nannarella giacomino
                   mariolina nannarella
                   mariolina

mi vien da piangere!

281077

********************

die kindsleiche von schloß neuhaus

als ich damals
mit zehn jahren
zum erstenmal
etwas totes sah
wars ein kind

ein siebenmonatskind
sagte man mir
dem die taufe
kaum den scheitel
beruehrt ...

ich traeumte spaeter davon
die paechter waren
zwar traurig als
haette es eine kuh gekostet
sonst nicht viel

sonst nichts – es
lag da im taufkleid
weiß um die lippen
siebenmonat … war
mir kein begriff

ich staunte nur
und traeumte nur
wie
es

29. 4. 68

***

lange schon

lange schon vor mir
hat benn
gott hab ihn selig
den in zweiundzwanzig jahren
wie mich keiner mehr kennt

lange schon hat er
gesagt was ich
schon lange sagen
wollte
will

erkenne die lage

***

dornbusch

im starren schnee
blueht vom feuer
erfaßt
der dornbusch orange
           gelbgruenrot
geroestet die
dornaepfel des
maennleins vom walde
gebratene spinnenbeine
bei tisch
mahl der armen
mystik der satten

            rotgruengelb
orange der dornbusch
erfaßt
vom feuer blueht
im starren schnee

***

ball

ich habe einen großen
blauen ball gehabt
dann hat meine schwester
mit einer langen spitzen
nadel ein loch hinein
gestochen

jetzt ist mein ball
tot er ist nichts mehr
springt nicht mehr
ich habe meine schwester
angestellt loch zu stechen

ich habe sehen gewollt
ob er auch drinnen blau
ist und was sonst
drinnen ist damit er
springt

ich sehe nichts
das loch ist zu klein
ich muß es groeßer
machen

der ball ist leer mein
großer blauer ball
und springt nicht
und rollt nur dahin
warum

***

hymnus 3
oder ist das noch ein hymnus


an bruneck

                    motto:
                    wer nimmts mit klein
                    haeuslern auf?

in wenigen gassen versauen hunde ohne zu
achten auf gelbes pulver die granitportale
auf der rienzbruecke saust ein schweizer
flach zu boden das motorrad brennt sehr
schoen
die einheimischen italiener machen den ein
heimischen die mode vor
vor dem corso-restaurant droht ein krie
chender besoffener der ladinischen wirtin
in die beine zu beißen (ganz recht
sie machen alle ihr geschaeft der homosexuelle
stoffhaendler drueckt sich vor erpressung
frauen und konkurs (das darf man nicht
sagen
alle wissen alles
an markttagen kommt die landbevoelkerung
der dekan lebt leider noch
der buergermeister wird ausgewechselt
einer schnappt ueber einer schnappt ein
einer erfriert
manche halten sich fuer stinknoble buerger
man riechts
die alte hinterhuberin geht immer den
bachdamm entlang ihr mann war kleptomane
und hotelier (ganz recht
nisi gegen die toten
der waldfriedhof ist kitschig weil dort nur
soldaten liegen – auch tuerken und juden –
und er allen gefaellt.
das schloß gehoert wie koennte es anders
sein dem bischof nicht mehr lange
alle zuenfte vertreten sich die beine
maler sind da aber nichts wert (kuenstler
huren und maezene gibt es nicht (waere noch
schoener
alle wissen alles
das geht nicht anders bei diesen zustaenden
kraempfen blinddarmoperationen
einen schoenen gruß der johanna die gerade
im schlachthaus liegt (blinddarm
pater guardian ofmcap. ist ein baer (gelinde
gesagt
das deutsche bruneck ist unpolitisch und
waehlt geschlossen eine einzige dumme partei
das italienische brunico hat viele
parteien sie sind die kluge minderheit
man soll nicht mit italienern sympathisieren
non sposare mai una ragazza tedesca
man sollte ein auto haben um im issinger
weiher schwimmen zu koennen der dem reichen
innerhofer gehoert (er verkauft badewannen
bruneck ist geschaeftig und klug im geschaeft
ortsunkundigen ist der fuehrer von fabrik
direktor larisch zu empfehlen dann sieht
der unkundige sofort wie dumm wir sind
uswuswuswusw …
nimms
mit kleinhaeuslern nie auf
du wirst nicht mehr fertig damit
du bist ihnen nicht gewachsen
du wirst selber einer
                         so daß man dir
                         einen kaffee mit
                         alpenschlagsahne
                         bringen muß zum
                         maulwaschen

***

lied der einfallslosigkeit

geliebtes land
aus kuhglocken gebaut &
gasthausrauferei

kind des wetters
mutter der trauben

schnaufen der winde
alpenglut
an gruenen fluessen
& zu fueßen
ein erschlagner wurm
traute gassen
buergersinn stolzer bauernmut
dem welschen feind & schlechter
als der

kind des wetters
mutter der trauben

innige doerfer
blauer schurz & stiere
autonom
heiden im rock der schuetzen
feuerwehr   musik

hackbretter zithern
jodeln kann keiner

dem herzen des gottes verschworen

& ueber allem schwebt der henngeier

040575

***

stegener markt
ausgabe 77


weinen will ich weinen um den groeßten markt tirols.
leute zuhauf menschen auch ... nix weiter.
der markt aber schreit nicht mehr.
kinderaugen verlaufen sich nicht am tuerkischen honig.
automatisierte schausteller.
wo? wo die schwerversehrten bettler
                     die gaukler schwindler feuerfresser
                     die heilgenbildchen wundermittel
                     die tiger panther rotarschaffen
                     die dickste ziehorglerin der welt
                     koeschtnbrater bauernfaenger riesenschlange
                     steilwandfahrer tanzbaer akrobat

fade sind die waren ohne salz daß sich die plastikblumen
schaemen.
die tupfer fehlen im gewog gewurle & geschehen.
doch ueber allem schweben vom bierzelt aus die schwaden
massenhaft
massakrierter huehner dem dorfe stegen zu.
weinen will ich weinen & find das schneuztuchmanndl nimmer
mit seinem song:

eins fiers moidile nannile joggile seppile tresile
                 moidile nannile joggile seppile
                 moidile nannile joggile
                 moidile nannile
                 moidile

plaerren kannt’i!

281077




Alessia Iuliano - Ottobre nei viavai, nota di Francesco Palma

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Alessia Iuliano - Ottobre nei viavaiIn questo tempo si può collocare la poesia di Alessia Iuliano nell’alveo del progresso letterario, infatti, l’autrice, tramite una spontanea evoluzione dell’estetica e dello spirito, con l’opera “Ottobre nei viavai” soffia emozioni alla vita per sanare coscienze con un raro farmaco poetico. Palese come questa poesia sia un puro atto di generosità verso platee meritevoli, che dovrebbero preferirla senza esito alcuno alla luce di una visione di un amore universale che abbatte qualsiasi forma di cecità poetica:

“… i cieli piangono risposte

sulle mezzelune dei colli ma

tu non puoi sentirle …”

“… Eppure senza punteggiatura giurava

col ventaglio delle vocali amo

amo, eternamente amo

entrambi …”

Nei versi del libro, essenziali e cangianti per l’iride, si scorge, senza tema di errore, il colore di una poesia novecentesca, che ha segnato quell’epoca, la cui riproposizione della Iuliano, potenziata e inconsapevole, meriterebbe di segnare quella contemporanea: questo è l’augurio più grande che le enuncio. (Francesco Palma)



*

Un segno, o l’odore carne del libro

che spedisti ieri

per arrivare fino a lei

a ripristinare il plenilunio

nell’equilibrio illusorio

di due occhi di fiume

sui tralicci delle parole.

*

Ma ancora vale il respiro

o la vecchia nostalgia del presente

nemmeno Dio

a lettera maiuscola rispose

eppure salivi i gradoni

poggiavi la mano all’acquasantiera

per ringraziare che il vero

continuasse a sfuggire.

*

Dunque, non c’era

molto da aggiungere

al garbo del sogno,

solo sostituire il volo dell’uccello

alla gabbia di un’intenzione

per sovvertire la resistenza a rami e tralicci,

oltre la parola fine

e consacrare il nome della nostra città.


Alessia Iulianoè nata a Termoli. Si occupa di poesia, musicoterapia, graphic e web design. Collabora con diverse riviste di settore come articolista e traduttrice. Ha tradotto e curato in Italiano per le Edizioni di Pagina Il ladro di ombre, vincitore del premio ‘E. Morante Ragazzi’. Suoi testi poetici hanno ricevuto importanti Premi e riconoscimenti nazionali. È presente in numerose antologie e riviste online. Vincitrice del premio ‘Le stanze del tempo 2016’, ha pubblicato l’opera prima Non negare nessuno, CartaCanta, 2016. Ottobre nei viavaiè la sua seconda raccolta di poesie edita per RPlibri nel gennaio 2018.


Yone Noguchi - Poesie, a cura di Emilio Capaccio

The Wall, intorno e attraverso i muri, nota di Elisa Castagnoli

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“The Wall”: intorno e attraverso i muri (mostra a Bologna, a Palazzo Belloni) mimmo rotella - sophia

Il “muro” è immagine, traccia dai molteplici sensi e sovra-sensi oppure architettura data pubgliestoricamente nello spazio, e ancora metafora letteraria in testi, canzoni o opere d’arte nella mostra attualmente in corso a Palazzo Belloni, “The Wall”. Un itinerario per farci riflettere, una mappa concettuale che dirama come un labirinto e sfalda in molteplici sfaccettature di pensiero da una sala all’altra, e ancora un viaggio attraverso il video, le installazioni, i quadri e testi letterari. Perché in fondo là è la dicotomia del suo essere, su due piani, a due facce, come ciò che difende ma anche che separa e preclude l’accesso, o ancora la barriera che qualora blocca lascia intravvedere una possibilità nell’altrove, e nascondendo rivela se le sue pareti si trasformano in superfici espressive, iscrizioni d’arte o architetture che dimorano e danno vita allo spazio.

“Parole sui muri” (installazione gruppoLoup)


Parole come pietre, dense e stratificate si aprono dal loro guscio di silenzio e incomprensibilità in diverse lingue nella prima sala come citazioni letterarie da fonti tanto lontane nel tempo quanto ravvicinate per la loro simbolica evocazione: le pietre sacre in cui fu eretto il tempio di Gerusalemme nell’Antico Testamento, le mura di Uruk sulle quali Gilgamesh incise le sue fatiche e riportò le storie del passato narrando ciò che era segreto, Italo Calvino dalle “rosse mura di Parigi”, infine E.Dickinson in avanzare è la condizione stessa dell’esistenza e le pietre tombali solo un ristoro all'eterno fluire del tempo che le rende odiose all’anima . Parole sacre o di poesia proliferano in caratteri verdi e ocra fiammanti attraverso i filtri di plastica rossa, ora blu sul piastrellato bianco e luccicante del fondo.



Se i muri sono da sempre mezzo o tramite attraverso cui i messaggi si depositano, le parole si scrivono o si proclamano magari abusivamente o nell’impeto di un momento, essi, da un altro punto di vista, appaiono come ciò che separa, ostacola e preclude un reale scambio. Ci fanno pensare ai muri di parole che non arrivano a destinazione, barriere di incomunicabilità nella profusione dei messaggi inviati o ricevuti, ancora ai muri virtuali su cui si scrive senza avere nulla da dirsi, infine al silenzio di fondo che mormora nella sovra-produzione di messaggi, notizie, cronache o delle parole urlate dai media al quotidiano.


Nell’era della globalizzazione assistiamo, come sottolinea la scelta curatoriale di “The Wall” in un’altra sala, a una crescente presenza di muri come sbarramenti reali o ideologici fra le nazioni del mondo: fenomeno trasversale che interessa tutti i continenti e diversi tipi di paesi democratici o meno, ricchi o in via di espansione. Di fronte al dilagante fenomeno globale di scambio di informazioni, merci, risorse e individui, virtualmente unificati negli andamenti delle borse e dei mercati su scala mondiale è la disparità di un reale accesso alle risorse in un mondo solo apparentemente interconnesso dove reali mezzi e ricchezze restano spesso inaccessibili alla maggioranza e le risorse concentrate quasi esclusivamente nelle mani di poche potenze economiche e militari e grandi monopoli multinazionali. Flussi migratori di popolazioni nel mondo emergono sempre più massicci dal sud al nord dall’est all’ovest dell’emisfero fuggendo guerre civili, persecuzioni religiose o di minoranze etniche in Siria, Afghanistan o Iraq, occupazioni indebite di territori o condizioni di povertà e indigenza economica. La crisi di influenza o di potere delle istituzioni nazionali e l’affermarsi di quella che è stata definita da Baumann una “società liquida” pone come risposta politica dominante in diverse parti del globo l’erigersi di muri, barriere difensive, irrigidimenti anti-democratici di pensiero attraverso strutture solide e impermeabili per gestire e contrastare questi flussi debordanti di individui, merci e informazioni.

Al di-qua del muro ( Be here)

“Esiste una inevitabile presenza del muro, la sua impenetrabile consistenza”. La sua pesantezza oggettiva esclude, impedisce, blocca il passaggio di individui, mezzi e merci, in senso lato del pensiero, dell’informazione come fluido vitale. Prima linea di guerra, di confine o di frontiera, la sua barriera non attraversabile ci rigetta indietro, la sua materia arida e dura, ci graffia, percuote senza scalfirsi.



Il muro è cemento armato nell’installazione di Giuseppe Uncini: blocco, occlusione di un riquadro massiccio e traforato fuoriuscente di viti, speroni e ferro ai lati.

E’ una distesa di piombo pesante che sedimenta sinistra su una base lignea in Arnaldo Pomodoro e sfalda sulla superficie in strisce scintillanti e auree di rame rilucente dall’interno impenetrabile.


E’ un manifesto stracciato, lacero ai bordi ma ancora oggetto di culto nel volto di una diva anni 50 che si affaccia dalle labbra carnose e i tratti pulp dell’icona popolare.

Il confine proietta verso un altrove, qualcosa al di là. Impedire, separare fisicamente attraverso un muro induce la tensione di un superamento, la necessità di oltrepassare, andare oltre l’ostacolo. Ogni muro porta in sé una separazione, un’assenza e il desiderio o la proiezione oltre il suo limite fisico innegabile.

I muri sono ciò che ergendosi non permette il fluire del pensiero, della creatività in senso lato come forza spirituale unificante, universale linfa vitale, d'amore quasi. Muri sono prima di tutto quelli del pensare e del sentire lì dove il pensiero si blocca e si irrigidisce, si cancrenizza o si ulcera in forme di rigidità e intolleranza, di aggressività e avversione verso l’altro, il nemico, lo straniero o il potenziale detentore di tutte le nostre rovine, svenute o infelicità. Forse è da quella barriera mentale, difensiva e in parte rimossa alla coscienza che esso diviene poi barriera fisica, di edificazione di muraglie o recinzioni e fortificazioni nello spazio. Anche se per legittima difensiva, o semplice salvaguardia, pone un limite invalicabile, apre una dialettica dell’esclusione verso un esterno da cui difendersi, un “nemico” da contrastare, mettere a tacere, ridurre a silenzio, al limite contro cui fare una guerra. Anche nel pensiero sono i muri dell’apatia e dell’indifferenza, quella nebbia soffusa, tangibile ai sensi che ci priva di una visione netta e chiara dei contorni, dissimulando la verità dietro la patina densa e opaca­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­ della manipolazione mediatica; l’ indifferenza generalizzata verso il vicino, l'a me “prossimo”, e ancora l’apatia diffusa verso lo stato sociale di marginalità, indigenza ed esclusione che ci circonda.

I Muri sono ancora quelli dei mondi virtuali dei “social” quando monopolizzano e assorbono completamente il nostro spazio-tempo interiore proiettando l’esperienza, la vita unicamente dentro una realtà simulata, in sé stessa, compensativa e illusoria del reale.

Infine, evoca la prigionia di un meccanismo a ripetizione che ci attanaglia o “mura” l’anima da qualche parte fino a farla fuggire, retrocedere e nascondersi, perfino addormentarsi. Tale gabbia oppressiva e monotona del “dover essere” dissolve i corpi nell’indifferenza grigiastra del quotidiano e mette in fuga l’anima dalla sua reale dimora nella nebbia del pensiero, nell’inerzia dell’azione.

Al di-là (Be-yond)

Lucio Fontana: “ Concetto spaziale”

Il verde compatto e rasserenante del fondo è tonalità soffusa e pacata nel suo distendersi sulla superficie uniforme della tela. Il taglio inaspettato e incisivo al centro è apertura o passaggio verso un’altra dimensione spaziale, oltre la piattezza bidimensionale del quadro, ciò che apre verso un’idea di spazio omnicomprensivo, tendente a un infinito in tutte le sue dimensioni e visto qui come il passaggio di materia-energia attraverso un varco inatteso.



Christo: “Running fence” ( 1976 , progetto per un’installazione pubblica)

La siepe corre, come un percorso in divenire, circumnaviga e avvolge come un manto bianco e rilucente per una quarantina di kilometri il paesaggio californiano da est a ovest nell’installazione di “land art” qui vista nella sua fase iniziale di progettazione. Ricopre quasi la parete in rilievo e i suoi declivi con un nastro bianco-argenteo, lucido o nitido a seconda del passaggio della luce sul fondo ocra e beige delle asperità collinari retrostanti. Scivola, corre, lungo tutta la sua frontiera deviando l’ostacolo, lasciandosi portare da quel fluido magnetico e lunare. La bianca traccia di luce si disegna come una pennellata sullo sfondo rossiccio e stagnante del territorio.



Scritte sui muri

Impronte, disegni, scritte, graffiti, murales o bacheche virtuali sui social oggi, dai muri fisici a quelli digitali si è sempre scritto e si continua a scrivere, lasciare un’esclamazione di gioia o di rivolta, lanciare un grido di rabbia o una parola maleducata tra l’indifferenza o l’attenzione casuale dei passanti, oggi dei lettori sulle bacheche digitali. Tali muri di parole divengono un’opera interattiva nella mostra bolognese “the wall” perché riempiti di citazioni e graffiti ai quali si aggiungono le firme lasciate "in itinere"dai visitatori invitati a prendere parte all’installazione. Luci di un proiettore ne illuminano una o un’altra nella massa caotica di tratti che affollano la parete.

Sono scritte colanti di vernice, parole rotte, spezzate, striscianti, o marcate ad inchiostro, scritte di un momento di rabbia o di incomprensione, spesso deposte casualmente da sconosciuti. Disegni scherzosi divengono occhi, ritratti accennati, dediche o preghiere. Le parole si illuminano nei corridoi in penombra stretti e oscuri: un cerchio di luce a tratti compare , balugina e si sofferma come la sfera luminosa di un proiettore al centro di una scena vuota. Sono cunicoli di parole nei quali si resta intrappolati scivolando in dialoghi e conversazioni inutili o in parole consumate di un non-senso urlato. Divengono ora corridoi di scrittura dove esse prendono vita dalla loro precedente, profonda sordità per riallacciarsi all’esistenza sensibile.

Hitomi Sato, “Sense of field”

Rompere un muro, spostare una pietra, vedere lo scomporsi di una massa solida e immutabile attraverso un varco, un passaggio di luce che fatica ad attraversare, e incerta, liquida, ora limpida taglia il bianco immobile e diademato del fondo.

Dentro un muro un’apertura soffusa, uno squarcio inatteso di luce per vedere e sperimentare attraverso il corpo questo passaggio o corridoio aperto alla percezione nell’installazione “sense of field”.

Contro l’immagine di una barriera o di uno sbarramento metaforico, dell’ isolamento e oppressione convocati nella sala precedente dal video “The wall” (Pink Floyd) emerge qui l’idea di aprire uno di questi squarci metaforici di luce, volgendo il termine “repressivo” in “espressivo”.


Nella pratica meditativa buddista cui si ispira l’artista giapponese, infatti, l’annullamento di ogni forma di ego, lo svuotamento della mente e dell’individualità ricondotta a uno stadio zero simile a una parete bianca permette esso solo l’affiorare di un’esistenza più pura e primaria, ancorata alla verità dell’essere e precedente ogni mutazione transitoria e effimera dei sensi.

Nella citazione a lato dell’ installazione : “ Fare in modo che la tua mente sia come un muro e entrare dentro la vita. Meditare di fronte al bianco muro, annullare l’illusione del vero, ritornare all’essere.”

I muri si squarciano e lasciano entrare la luce, creano percorsi visivi e spiragli di energia densa e vuota, vie d’uscita ai sensi e all’immaginazione. Sentire attraverso quei varchi di bianco contro il grigiore del fondo l’aprirsi di strade, di porte e sentieri. Soffuso scintillante corridoio dove l’anima attraversa, corre verso la propria dimora, divino istante di folgorazione. E riluce di immenso splendore. (elisa castagnoli)



Luigi Fontanella - Lo scialle rosso

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Luigi Fontanella - Lo scialle rossoLuigi Fontanella - Lo scialle rosso - Moretti e Vitali, 2017

Nove poemetti o racconti in versi, scritti tra il 1999 e il 2014, ci dice in una nota lo stesso autore. Con una buona misura di anglosassone understatement, direi. E in effetti la prima cosa che salta agli occhi alla lettura di questi ampi testi lirici è come una necessità non solo di narrare una serie di eventi ma anche quella di fissarli, prima, come sopra una lastra e piegarli poi, modificarli e in sostanza gettarli sotto una nuova luce. Come si sa, infatti, ogni fenomeno varia e si modifica sotto l'occhio, magari innamorato, del suo osservatore. E' quello che fa sempre la poesia, la poesia buona, come atto di ricezione di ogni accidente, di ogni brandello di vita: diventare qualcosa d'altro, se non addirittura qualcosa di altri. Niente, per un poeta, trascorre inutilmente. Vige insomma, come scrive Paolo Lagazzi nella prefazione al libro, una "intermittente, appassionata, tenace memoria". Ricordare che sono tutte connotazioni che ci rimandano tra diversi altri a Montale è pleonastico, tanto più per Fontanella, tra le altre cose professore di Letteratura italiana alla New York State University (Lagazzi cita anche Savinio e Landolfi). Insomma, è la sua materia ed ogni eco non è altro che un indizio culturale scevro da qualsiasi epigonismo, uno strumento che si adatta perfettamente allo scopo. Come anche naturale, mi pare, è la vicinanza di Fontanella ad una consolidata tradizione letteraria non solo novecentesca, lirica soprattutto, ma che tiene ben presenti tutti gli sviluppi stilistici, appunto anche in senso narrativo e di aderenza al quotidiano, che soprattutto nel Novecento sono avvenuti.

Se i richiami, più o meno soffusi, possono essere quelli che abbiamo detto, [tuttavia] qui non c'è molto di "occasionale" e non solo per la dimensione testuale delle poesie, che denota una articolata elaborazione del materiale poetico di partenza, ma anche perché questa poesia nell'evento non si conclude, non diventa epifenomeno di qualcosa che ha colpito l'autore, dirottando magari verso un esercizio di stile, è decisamente antirapsodica, come se esplicitasse la convinzione che l'occasione, se vi è, contiene una "storia" (statica, diciamo) e un seme (dinamico), in altre parole rimanda ad altre e ben diverse considerazioni, non necessariamente soltanto"poetiche". Per quanto la memoria, in tutto il libro, sia elemento naturale fondamentale, essa non è pura rimembranza, sia per l'apporto della rêverie, come annota Lagazzi, in costante dialogo con una realtà oggettuale, sia perché Fontanella ha chiari i suoi obbiettivi poetici. Che mi pare siano quelli di evidenziare una dimensione spirituale degli eventi, per quanto eminentemente laica, e un loro ethos, cioè, letteralmente, un luogo in cui vivere, in altre parole (e non è certo un truismo) la vita medesima. Per cui il fatto, nella dimensione poetica, diventa qualcosa di rizomatoso, per dirla con Deleuze, il fatto, per sua definizione "passato" e tuttavia non muto, rivive di un'altra vita.

A me pare che si tratti di qualcosa di diverso dall'epifania, dall'agnizione o da un momento meramente ispirativo. Non è qualcosa di cui l'autore dice ah, bene, ecco un frammento di vita di cui può valere la pena scrivere, o non soltanto. Mi pare che questa scrittura diffusa, così fortemente fàtica, che descrive le cose nel loro aspetto sensibile e in quello meno evidente, sia un tentativo di ridefinire certi confini, che sono soprattutto tra la vita stessa (vissuta e - scrivendo - rivissuta) e la morte come luogo in cui non è più possibile dire. Potremmo definire tutto ciò semmai come una rivelazione, un disvelamento di implicazioni che però non provengono da nessun iperuranio, o da un''ispirazione di tipo romantico. Semplicemente già c'erano, sotto lo sguardo niente affatto passivo del poeta, che è facile che magari impropriamente ci ricordi, nel suo peregrinare per le strade di Firenze o New York, una  certa flânerie baudelairiana. Uno sguardo inoltre che in molti di questi componimenti è condiviso, non solo con il lettore ma anche con chi, quasi sempre, è testimone dell'evento insieme all'autore. E se non ci sono testimoni, in queste narrazioni, ci sono personaggi letterari, gente incontrata per strada, amici e colleghi citati, exerga e rimandi letterari, che concorrono ad ampliare lo sguardo sulle cose. Sotto questo punto di vista potremmo dire che in questi testi non c'è una visione strettamente "privata", poiché mi pare che Fontanella non vi cerchi una catarsi personale, o una purificazione dell'esperienza dal prosaico a beneficio di un ipotetico lettore, ma che dia voce, per tutti, al possibile, soprattutto al possibile significato delle cose. In altre e diverse parole, non estetizza il suo materiale, e questa è una delle caratteristiche del suo stile.

Il poemetto eponimo, Lo scialle rosso, è emblematico dell'approccio di Fontanella alla sua materia. In una piovosa e ventosa giornata di fine Aprile, lo scialle rosso della accompagnatrice del poeta vola giù da un ponte di Ottawa. L'accadimento si esaurisce subito, lo scialle rosso scompare dalla scena, per fare posto in sostanza ad un sentire, a un sentimento del tempo che poi lo scialle, che riappare negli ultimi versi, avvolgerà simbolicamente, proteggendolo e chiudendo il cerchio. In mezzo Fontanella sviluppa una canzone sulla fragilità, rispetto al caso, al mondo o all'essere altrove, la fragilità individuale, e tuttavia la resistenza, della poesia soprattutto, come emblema di un nucleo forte dell'uomo. Le intemperie, anche simbolicamente intese, sul ponte di Ottawa "sbriciolano" il gruppetto di amici poeti (e testimoni, si diceva), lì presenti, come Davide Rondoni, Plinio Perilli, Irene Marchegiani, e scomparsi, come Giovanna Sicari, e lontane evocazione italiane. Ma sappiamo che tutti, o almeno la poesia che rappresentano, si ritroveranno. Lo scialle rosso quindi appare essere, come dicevo, non tanto un elemento epifanico e nemmeno un correlativo, quanto un potente marcatore mnemonico, in più carico dei segni del colore e del volo, da cui l'autore procede a costruire il suo impasto di narrazione e sogno. Nel quale la memoria non si esaurisce ma si rinnova come rappresentazione e immaginazione (lo stesso Fontanella rammenta, in una nota, il "connubio, che mi è caro, oscillante tra immaginazione e memoria, così come ne parla André Breton nel saggio Situazione surrealista dell'oggetto"), pur essendo questa poesia, va detto, ben lontana da territori surrealisti o anche simbolisti. Naturalmente questo registro, che si ripresenta anche in altri poemetti importanti come Dittico praghese e The old town, non è l'unico di cui dispone l'autore. In altri testi, che per alcuni aspetti preferisco, come Lettere al padre e Canto del distacco, il tono è più eminentemente lirico/elegiaco, o forse nervaliano come dice Fontanella, ma certo più venato di un intimo e privato sentimento di rimpianto, una affettività che in un certo senso ci avvicina maggiormente al poeta, testi in cui si allenta un poco la vena descrittiva, meno assiepati di "oggetti" e di nomi, un linguaggio che non ha necessità di articolarsi in narrazione o di dire "tutto" (come ad esempio in Old Town e Efemeridos) perché lavora sul piano di una percezione purao se volete di un'empatia in cui gioca più il cuore che l'intelletto. (g. cerrai)



RACCONTO D'INVERNO

J'ai besoin d'un Interieur

ANTONIN ARTAUD


Tra un nulla non sarà su questo lido
Se non l'immane scheletro d'un cuore


TOMMASO LANDOLFI


Camminavo per qualche vecchia
stradina di Firenze
camminavo in fretta
per combattere il freddo
o forse per fuggire gli anni
che mi erano improvvisamente caduti addosso.

Da Santa Croce a via Ghibellina
via Sant'Egidio poi in via della Pergola
budello filiforme
scivolando come un'ombra
lungo il muro
sempre più in fretta
sempre più in fretta: avevo bisogno
di un Interiore che s'andava
assottigliando. L'appuntamento
era sulle scale di San Lorenzo
grezza chiesa da sempre
arresa a ogni folata di vento.
Andavo
stordito e cieco
a questo appuntamento.

In via Guelfa le saracinesche
erano tutte abbassate. Era
la mia strada
ma a me sembrava come se
ci fossi vissuto tanti anni prima
e ora vi ritornavo straniero.
Cafaggi, Il Grillo Parlante, I' Tozzo di Pane
ristoranti e osterie che mi avevano visto
tante volte trasparente avventore,
più avanti il Cinese, il Basilea
nella cui hall in penombra
intravidi Alberto Savinio.
Sempre più in fretta, sempre più in fretta.

Poco più avanti
la signora Bruna con Tommasino
che lasciata la culla
ora scorrazzava libero
e re del Panificio.

"Fermiamoci qui da Sìeni, ti va?
C'è un'accogliente sala da tè."
Era arrivata in ritardo
e io avevo già consumato
nell'attesa tutto il desiderio
e poi, al solito, il tempo stringeva...

Improvvisamente prese a nevicare
Ogni nostra parola si andava
attutendo, come svampita, dissolta
in quell'aria di neve. A un tratto
tutto mi parve inutile
e senza piacere, senza speranza, tutto
già visto, già consumato, già
irrimediabilmente passato.

Trovai una scusa e
scappai di nuovo, fuggendo
da me stesso e da quella giovane ragazza
che mi donava la sua luce
dentro un ambiguo incauto sorriso.
Ecco di nuovo la mia immagine in corsa
sulle vetrine di via dell'Ariento, poi subito
a sinistra in via Nazionale. Santa Maria Novella
era lì a due passi...


da Canto del distacco


Nato in una scorza di fuga.
Al tremore dei padri
di fronte ai nemici. Questa
fu la mia terra e la mia teca.
In un solo battito, acquista le ombre
che ti furono vicine.
Hai mani e occhi e il frusciare dei gelsi.

*

Piove.
Sento il singhiozzo del tempo
oltre questo giardino.
Ora vieni. Piega le tue ginocchia
d'aria. Raccogli la voce
di tua madre. Quanto gentile
a due millimetri dal tuo viso:
via Parmenide a Salerno
rimpicciolisce angusta e deserta.
Piega le tue ginocchia d'aria.

*

Vado cercando ancora quel giardino.
Ragazzo, vi rubai i primi mandarini.
Quel paesaggio è serrato
nel sorriso di qualche compagno di giochi
risucchiato nel tempo.

Così ripasso gli attimi anni,
di corsa, come lungo le salite e le discese
della ripida scalinata che mi portava a casa.
Attorno a me,
quanti mandorli in fiore.


Villa Dominica Balbinot - inediti da I FIORI ERANO FERMI - E LONTANI

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Villa Dominica Balbinot mi ha mandato questi testi qualche tempo fa, chiVilla Dominica Balbinotedendomi che ne pensassi. Li ho letti con un certo interesse, perché indubbiamente escono un po' dagli schemi, se si va oltre una impressione non del tutto peregrina di forme crepuscolari innestate con dosi massicce di simbolismo. Il primo appunto che ho preso, scritto a margine, è stato per la verità "poesia barocchetta". Volendo forse significare con questo non solo una scrittura con forti circonvoluzioni e priva di spazi aperti ma anche dove il paesaggio, inteso in senso lato sia come naturale che umano, si defila, a favore della costruzione, o si rappresenta come un fondale o una quinta, in una maniera che mi ricorda l' Isola dei morti  di Arnold Böcklin. In realtà qui, restando al barocco, c'è sì molta complessità ma poco capriccio, perché il tema o quanto meno l'atmosfera prevalenti sono compatti e concentrati, tendono a dare al lettore (e qui si torna al simbolismo) il suggerimento  di una visione assai convinta e personale del mondo. Che è certo, coma annota Anna Maria Curci (altre poesie appartenenti a questo blocco sono state presentate su Poetarum Silva) un "mondo dissestato, funestato", per quanto di "straniata bellezza", su cui Balbinot getta "una luce che non teme di essere cruda". Sulla crudezza possiamo essere d'accordo, almeno se si tiene conto del lessico e relativi annessi usati dall'autrice in funzione espressionistica (e vale il breve accostamento che ancora Curci fa a Gottfried Benn - si parva licet  però): qui troviamo silenziato omicidio, acque fresche e pericolose, carnarie mosche, eterno gennaio, terreno insanguinato, bagliori lucidi e freddi, qualcosa...di cruentemente esatto, patiboli reconditi, leucemica fragilità, narrazione del sangue, consuntore morbo, dissezione delle cose maestose, anni di espiazione e delle cerimonie esequialiesasperata desolazione, degenerativo stato, camera dei suicidi in un albergo, l'innominata carne ferita dei morti, e così via. Ma non è tanto una questione di sintagmi quanto di costruzione anche sintatticamente complessa di un testo che definirei, per usare parole della stessa autrice, "livido e sontuoso e torbido" (quindi se barocco c'è, verrebbe da dire con una battuta, è barocco spagnolo). In aggiunta a queste ultime parole citate, a volte si ha l'impressione che in un certo qual modo Balbinot parli criticamente di sé quando scrive di "estetismo nero e profetico" (o forse profetizzante, direi), o di "vasto mondo crespuscolare". Ma anche in questi rari casi di espressioni didascaliche e forse un po' ingenue l'obbiettivo è il tratteggio di una atmosfera perturbante in cui il lettore deve accettare di permanere o no. Possiamo aggiungere a queste cose un uso programmatico del lei  (terza persona)  come soggetto sostituto del tu  (che come sappiamo è un ulteriore camuffamento dell'io poetico) e a volte forme verbali al passato che accentuano abilmente uno straniamento di tipo temporale e un senso di definitivo e tuttavia attuale. Immagino che questa lei  sia l'autrice, immersa nel suo "mondo", che è di volta in volta "della realtà", "crepuscolare" ma "aperto da ogni parte"  (corsivo dell'autrice), "di silenzio", "bluastro", ma più che altro "grigio" o di una "debole colorazione ossidata -  di un metallico paesaggio" (c.vo aut.) e di svariate altre connotazioni. Ma soprattutto un mondo in cui si avverte come una presenza di forze esterne non del tutto chiare né del tutto controllabili, un mondo molto poco popolato, solo da lei,  e da essi  che se capisco bene non sono tanto "altri" quanto un "noi", cioè un plurale di quello stesso lei, una condivisione dell'angoscia e forse il dolore che pervadono l'ambiente e di cui l'ambiente è proiezione. E poi i morti, evocati non solo direttamente ("nella loro innominata carne ferita") ma anche sotto forma di aggettivi (morti occhi, vie, fiori, foglie, cime), o come correlati semantici (mortalità, uccisioni, ad esempio). Insomma Balbinot ha sviluppato un suo stile, con una certa accuratezza linguistica, con molti echi, che aderisce bene alla tematica che si è scelta, e che in pari misura, va da sé, può generare interesse o respingere. Per concludere: se si aggiungono caratteri anche indubbiamente romantici come un certo senso dell'assoluto o una certa irrazionalità o un'idea di sublime che sovrasta l'uomo, allora cos'è che tiene insieme e fonde il barocco, il crepuscolare, il simbolista, l'espressionista, il romantico? in altre parole cos'è la poesia di Villa Dominica Balbinot? Ma è ovvio: è poesia gotica. (g. cerrai)



IN UN CORRIDOIO DI LUCE DURA

In un corridoio di luce dura
(e superfici fragili)
una stessa ferma aria
risplendeva in tutta la sua fredda forza
nelle città costruite su fiumi sotterranei
luccicanti disperatamente nelle sere
-e tra gli scheletri di anonime piante grigie...
Ci si mise di fronte,
a tutta quella cifra folle
scintillante assoluta
del predatorio dell’insaziabile
delle brevi ustionanti alleanze
-in tutto quel dolce organico odore
( Facciamo finta di essere degli alberi,
noi stessi recisi,
ma a rimarginarsi da quel punto
tra i dubia -e i legami feroci:
io desidero commettere il terribile,
l’atto del toccare,
l’innocenza è proibita qui,
attira il castigo).

26 GENNAIO 2017



OGGI I FIORI SONO PIU’ DIVERSI

…Oggi i fiori sono piùdiversi
più aridi più aperti:
ho già pianto la sua morte,
ma lo farò ancora
-e poi ancora…

Nella mistica speculazione,
nella esasperata desolazione misteriosa
perseguo
la narrazione del sangue,
– convoco i miei morti
( Il cielo è pieno di strumenti esiziali).
E considero tutte le cogitazioni
nella dimensione de la terribilità,
di una resurrettiva esigenza
-di quella formale ultimazione
[…Deve essere bello
Deve essere un inferno
Deve essere un deserto.
..]

3 FEBBRAIO 2017



NEL FREDDO ROVENTE

Nel freddo rovente
( in quel rovente vuoto minerale)
il baluginio era feroce
come di sfolgoranti cavi recisi,
-e tutto era malsano
– troppo vicino.

Allora ci si stava come disfatti,
nella desolazione delle gole,
-di quegli altopiani colore di ruggine,
talmente sconfinati
( e-oltre–
l’enorme notte della città,
fredda e illuminata di bianco,
in un mondo bluastro).
Essi si sentivano stratificati
con una intensità quasi organica, come le

morte foglie:
in lei,la stessa -leucemica– fragilità
-da convalescenziario,-
davanti a tali denominazioni,
alle tavole attuariali—a tutta quella

substantia vitrea…

28 FEBBRAIO 2017



E ALBERI CHE SMORIVANO IN UN BIANCO DELIRIO

…E il sole gelido cominciava,
a perdere il suo splendore,
nel profumo lieve
-di una magnificenza trascorsa
(e gli alberi che smorivano
erano un bianco delirio)…


E c’è una gioia,
nella sua solitudine all’alba,
nelle strie di quella aurora scarlatta,
e per un momento
( terribile e delirante)
legge il martirologio
– di una scarna e statuaria bellezza,
– di furia fredda.
Nei minuti supremi
di questo eccezionale tragico quotidiano
( durante lo schiodo della salma,
e una schedatura dei patiboli reconditi)
sente una pressione calda
spaventosamente viva:
allora, solo allora
(prima che tutto il rosso e l’oro
dilagassero in frettada un ramo all’altro)
i sorbi selvatici
si erano appena tinti
di un cremisi scuro,
e già si trasformavano
in arbusti ardenti di puro carminio.
[ Con un tempo di sgelo,
tra dirupi di gemme]

6 MAGGIO 2017



NELLA CONTRATTA LUCE,

NEL PAESAGGIO ARSO

Nella contratta luce
(oltre il muro della vicina casa)
vi è un che di recente penoso
inutilmente tetro:
continuava sempre il disgelo,
e radici deformi affondavano nella terra,
come se – e del freddo– le ustioni poi
fossero..

Ora è venuta qui
– nel paesaggio arso-
solo per vedere gli alberi,
perché non ci sono più colline deserte.
In quel suo degenerativo stato
( di anormale tensione
di inaudito senso)
prova una affezione singolare:
tra tutti questi rimpianti
e i malsani
(come vento tiepido)
sotterramenti ,
(oh tutti tutti quei delitti impossibili!)
al di sopra di violenze, e delle estenuazioni,
– di una qualche probatio diabolica–
le pare di vedere un unico grande stupendo
– e terribilmente statico– albero verde.

30 MAGGIO 2017



DIRUPPE – ALLORA

…( Diruppe allora, la pioggia
in quel pervertimento:
era il tempo della sparizione…)

La sua era una animazione-
puramente febbrile
in un paesaggio geologico- e silenzioso-
( qui tutto è innaturale
– lei si diceva
-
-e poi per tutto quel lungo lunghissimo
tempo
)
aveva in cuore qualcosa di torbido.
E in quella- sua- relegazione
vi erano certi bagliori lucidi e freddi
e tutto intero quell’impulso selvaggio
In fine poi si disse che
“tutto tutto era poi un qualcosa di
tormentosamente reale
– di cruentemente esatto.

17 GIUGNO 2017



DAGLI ESTREMI – GELATI- NERI ORLI

... Dagli estremi
gelati neri orli
la notte iniziava a impallidire
( e il cielo- e le cime morte e misteriose
nell’aria grigia)...

Amava l’ora,
la quieta oscura ora lunare,
quel suo immenso vuoto scintillante
nelle correnti pallide , in fascinose fantasie
bianche...

In quell’aria da eterno gennaio
tutto le sembrava fantasmagorico e remoto,
vago -e vertiginoso:
davanti a quella rigida perfezione
( quale mente terribile- si diceva)
un silenzio vuoto pendeva
tra tutti quei nomi grigi,
e le tombe recenti
- e le lunghe marce sul terreno insanguinato
(con un sentore di piccoli delitti antichi)
Solo lei metteva una
povera piccola fioritura-
(e i monti erano freschi e virenti).

19 LUGLIO 2017



DALLE NAVATE DEGLI ALBERI GERMOGLIANTI

…Dalle navate degli alberi germoglianti
( si stendevano belle e lucenti
nei lunghi giorni perfetti)
si arrivava alla tacita linea di acqua,
l’innominata acqua scura,
un assoluto solitario
quasi sotto l’orlo angusto…

Dopo il crepuscolo azzurro
la notte era molto tranquilla,
e quei morti intorno a lei
- nella loro innominata carne ferita-
erano sostanziali misurati e preziosi
capaci di movimenti lenti e terribili.
Tra sofisticherie e sottigliezze teologiche
lei aveva una espressione di fredda
- e pensosa- riservatezza,
nelle possessioni- tutte sue-
( e dopo il macello geometrico)…
Tutto l’incesso
per quella strada ardente
era astratto e scabro
come la camera dei suicidi in un albergo
e il cielo si era rannuvolato intanto,
striato dai cardati fili colore di seppia,
che erano sul punto di precipitare.

17 settembre 2017




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