John Taylor - L'oscuro splendore - Mimesis Edizioni, collana
Hebenon
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Gabriele Galloni corre da solo
Metto le mani avanti. Non sono giovane e non sono poeta, benché qualche mio verso sia stato tempo addietro (tanto!) fortuitamente accolto in riviste come Nuovi Argomenti o Paragone e chi si ricorda la gloriosa Il cavallo di Troia?
Non sono dunque poeta, ma appassionato lettore indubbiamente sì. E ancora oggi, tra acciacchi di ogni tipo, mi avventuro quotidianamente nella giungla delle nuove pubblicazioni poetiche. Prediligo i giovani, perché di leggere i quarantenni o i miei coetanei poco mi frega.
Leggo i giovani perché cerco, leggendoli, di provare ancora un poco l'invidia che a vent'anni mi spingeva a voler superare tutto e tutti.
Io non ci sono riuscito mai. Gabriele Galloni sì.
In che luce cadranno (RPlibri, 2018)è stato, dapprincipio, il consiglio svagato di una cara amica poeta. Poi, a lettura ultimata, il libro che ha ridefinito per me il concetto di Sacro. E non esagero: per giorni ho meditato sulla musica di Galloni come qualcun altro avrebbe potuto meditare sul Libro dei Salmi o sul Talmud. Meditazioni circolari, da sbronza apollinea più che dionisiaca.
Possibile, mi sono detto, che un ventiduenne, un millennial come
si dice oggi, sia stato in grado di sondare queste profondità? E chi gli ha
permesso di portare con sé questi detriti di lune sconosciute? A quali e
quante divinità ctonie ha chiesto udienza?
Invidio profondamente Galloni, non lo nascondo. Molto ho rimesso in
discussione con il suo libriccino. Ho pensato che una qualunque Verità
ultraterrena, su noi e sui nostri predecessori, l'avesse colta ed espressa
meglio lui in quaranta brevi poesie che migliaia di filosofi pensatori e
teologi in tomi e tomi d'angoscia. Ma un poeta non è portatore di Verità
e sono certo che a Galloni dispiacerebbe questo mio volo pindarico; forse
ne riderebbe.
La cosmogonia galloniana non ha universi altri di riferimento.
Immagino quante salme, sue e solamente sue, lo abitino giorno e notte. I
suoi amati corpi che, ritornati alle cellule, rinascono nella luce
abbagliante di un verso perfetto, di un fulmen in clausola che tutto
ribalta come nel gioco dei dadi, nello scherzo tragico di un baro
caravaggesco.
In che luce cadranno
parte dall'epigramma (sfiorando sovente la narrazione), attraversa
l'idillio e approda a un obliquo teatro della coscienza. Su tutto il libro,
inestinguibile, quella che Baeumker teorizzò come Metafisica della Luce. Non mi sovvengono paragoni contemporanei
con il lavoro di Galloni. Forse i suoi parenti più prossimi sono i lirici
greci da bambini; forse certi mistici medievali le cui opere non sono mai
giunte a noi.
Un libro importante, In che luce cadranno. Tra i più rilevanti di
questi ultimi anni e della sua generazione. Poi staremo a vedere. Per ora, la poesia italiana ricomincia anche da qui. (Giovanni D.V.)
***
I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l'indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano e l'altra all'Invisibile.
***
Si parlava dei morti. Sulla tavola
i resti sparsi della cena quelle
bistecche appena cotte. Il frigorifero
in segreto colloquio con le stelle.
***
Così un giorno, per caso,
i morti costruirono
il primo cimitero sotto il mare.
Se ne dimenticarono
in un tuffo soltanto.
Gabriele Galloniè nato a Roma nel 1995. Studia Lettere Moderne all'Università La Sapienza.
Ha pubblicato Slittamenti (Augh Edizioni, Viterbo 2017) con una
nota di Antonio Veneziani.
Ion Deaconescu
nasce nel 1947, è poeta, scrittore, romanziere, critico letterario e
traduttore. Si è laureato alla Facoltà di Lettere dell'Università di
Bucarest e alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Craiova. È
docente presso la Facoltà di Scienze Sociali della stessa città. La sua
poesia affronta spesso il tema dellamore con toni lirici. Il suo sguardo
si allarga anche a riflessioni sul senso della vita e sullesistenza di
Dio. È stato tradotto in moltissime lingue tra cui: francese, italiano,
portoghese, serbo, macedone, inglese, turco, ungherese. Ha pubblicato oltre
cinquanta volumi tra poesie, romanzi, critica letteraria e traduzioni,
ottenendo numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, quali il
premio Racin e il premio Trieste Poesia. È presidente dellAccademia
Internazionale Mihai Eminescu e direttore del Festival di poesia omonimo.
Esiste veramente
Lei cè, esiste veramente
Semplice come fuoco di stelle nel cielo destate
La senti invadere selvaggia
Sopra di te
Unaltra volta calma ti accarezza le guance
E le ferrite della fiducia
Dopo il cessato divertimento dei cacciatori
E la preda è dimenticata, quasi ignorata.
Lei cè.
Esiste veramente,
Cambia il silenzio
E frana il ponte sul quale larcobaleno passa
Il cuore della voce palpita in unincerta speranza
E grida lo stesso silenzio in una lingua
Degna, profonda.
Sulla trasparente pianura dei sogni
Lei e lombra hanno sbagliato la stagione
E il corpo nato dallo spazio.
Lei cè. Esiste veramente.
Allimprovviso
Le cose intorno
stavano invecchiando
senza una spiegazione.
I vocabolari stavano avvizzendo.
Allimprovviso la freccia dei tuoi occhi
che mi trapassa e poi mi fa risorgere.
Era una sera un poco strana, confusa,
Troppi versi detti in piazza
in un paese di cui ho perso il nome.
Metin Cengiz
nasce il 3 maggio 1953 a Göle/Kars (ora Ardahan), in Turchia. È poeta,
editore e scrittore e, tra laltro, membro del Sindacato degli Scrittori
della Turchia. Dopo il golpe militare del 12 settembre 1980, è stato
imprigionato per due anni perché dissidente. Durante gli anni di
insegnamento della lingua francese nelle scuole di varie città turche, è
stato mandato due volte in esilio e sospeso dal lavoro per le sue idee
politiche. La sua poesia propone temi di grande attualità come le guerre in
Medio Oriente, le contraddizioni di etnie e religioni, lesistenza
miserabile dei poveri nella società, lingiustizia e la compassione, la
libertà e la sua perdita. I suoi versi sono un atto di pace, ma con una
straordinaria potenza nella difesa della libertà, della giustizia e della
fraternità. Oltre che per i suoi libri è famoso per i suoi articoli sulla
poesia. È diventato uno dei pionieri del periodo poetico post 1980 in
Turchia.
Gaza
Ieri ho visto la morte, era senza ali
Era nellaria, pioveva
Qui, tu sei a Gaza dove si è accampata la morte
Laria sembra lacerata da un coltello
Il sole è un urlo cieco
I suoi occhiali tacciono
Gli alberi sono cadaveri
I minareti non si slanciano verso il cielo ma verso il nulla
I bambini, bambini, bambini di Gaza
Strade, mercati, case piene di bambini
Gaza con le sue sagome di bambini è un gigante che combatte il nemico.
Bambini che cantano nel grembo della morte
Bambini silenziosi come santi, religiosi come musulmani
Aspettano che si plachi la voce delle pallottole
Riempiranno i campi
e abbracceranno le loro morti senza ricordare la fame
Vecchie donne con tuniche
Case, strade, sorvegliano la vita spalla a spalla
La pazienza è dipinta sui loro volti
Senza speranza, arrabbiati, tristi, vendicativi
Come un urlo che si leva al cielo
Come promesse
Stanno come una parte di cielo
Qui, sei a Gaza
La morte a Gaza è come un gioco da bambini
È come mangiare pane e olive a colazione
È come lamore dei giovani
La morte a Gaza è come una statua di bronzo
A cui guardano tutte le finestre
La morte lavora come la mente di Gaza
Qui, tu sei a Gaza
In fiamme
Dove la morte ha ingoiato la lingua
Gaza è come un palloncino esploso
Cosa possono fare i poeti Arabi
le canzoni puzzano di bruciato in Galilea
Gaza è un limone giallo in mezzo al deserto
Da un lato, è spremuto da mani invisibili
Con una pressa dacciaio
Dallaltro, stanno i nemici
Come una nuvola di morte
Gli occhi di Gaza si sono asciugati per il pianto
Così ora da Gaza esce il cadavere di Dio.
Dmytro Tchystiak
ucraino, trentenne, è poeta, scrittore di racconti, critico letterario e
traduttore, accademico e giornalista. La sua poesia è caratterizzata da una
vena surrealista che coinvolge il lettore in una dimensione onirica, dove
linconscio affiora con immagini di forte impatto emotivo. È professore
alla National Taras Shevchenko Kyiv University, PhD, editore presso le case
editrici ucraine Raduga e Summit-Knyga e lettore di alcuni editori
francesi e belgi. Ha pubblicato quarantacinque libri, che gli hanno portato
alcuni premi nazionali e internazionali in Ucraina, Francia, Belgio,
Germania, Grecia e Romania. Ha tradotto molti scrittori slavi e francofoni
in ucraino e circa cinquanta scrittori in francese. È membro dell'Accademia
Europea delle Scienze, delle Arti e delle Lettere (Parigi) e membro
corrispondente dell'Accademia delle Scienze dellIstruzione Superiore
dell'Ucraina.
Fiori
Ecco l'alba nel riflesso delle magnolie
tremante ti elevi nello spazio
ti alzi dal letto, dove siamo annegati
nel diluvio morboso (con questo dolore bianco,
e il grido rosso del viburno che trafigge i giovani,
i notturni), anzi non ti alzi,
fluttui come questo suono di clarinetto
così alto che la nota raggiunge la morte,
e al di là gli uccelli si svegliano e rispondono
e si direbbe che una mossa sia sufficiente
per esempio, aprire la finestra e tremare
oltre questo taglio di luce
per creare
lalba!
Acacia
Camminavi sui fiori dacacia
Senza sentire le voci della notte di primavera
Le mani incendiavano lorizzonte
Passi tra i fiori dacacia
e risuoni di notte e di maggio
il fuoco ha preso la tua voce per agitare una candela
Il vento è calato, canta solo
Un usignolo insoddisfatto
Le mani bianche tendono alla luna piena
E I fiori dacacia fluttuano dolcemente tra le stelle.
Claudio Pozzani
nasce a Genova nel 1961, è poeta, narratore e musicista; è apprezzato in
Italia e allestero per le sue performance poetiche nei più importanti
festival letterari e nei Saloni del Libro. La sua è una poesia performativa
e teatrale, dove emergono i temi dellamore, della ricerca della propria
identità, in un continuo fluire tra dimensione del sogno e della realtà.
Nel 1983 fonda il Circolo dei Viaggiatori nel Tempo (CVT), unassociazione
culturale che si occupa di arte, poesia e letteratura. Tra le tante
iniziative promosse, il Festival Internazionale di Poesia di Genova Parole
spalancate. Nel 2001 crea la Casa Internazionale di Poesia sita a Palazzo
Ducale a Genova. Il suo CD di poesia e musica La marcia dell'ombra è
rimasto per oltre due mesi nella top 20 di preferenza delle radio
indipendenti italiane. Ha pubblicato inoltre il volume Spalancati spazi
Poesie 1995-2016 per Passigli Editore e le sue poesie sono tradotte e
pubblicate in oltre dieci paesi.
La marcia dellombra
Stanno cadendo corde dal cielo
e gelide catene ti danzano attorno
È un mondo di nodi
da sciogliere al buio
tra un lampo e laltro
di fosforo e grida
È un groviglio di corde
che rifiutano forbici
E un pettine che sincastra
dentro chiome che non pensano
È ombra... ombra
È un battito di ciglia ancora
Mi guardo attorno e vedo muri
persino il mio specchio è diventato un muro
sui tuoi seni è cresciuta una pelle di muro
il mio cuore, i miei sensi reincarnati in muri
E continuano a piovere preghiere e bestemmie
che evaporano appena toccan la sabbia
e continuano a strisciare in un silenzio velenoso
avverbi, aggettivi, parole senza suono
E ombra... ombra...
e un battito di ciglia ancora
Del sole vedo solo il suo riflesso
nelle pozze iridescenti di acqua piovana,
della luna indovino la presenza nel buio
dal lontano abbaiare dei cani legati
La mia pace non è la mancanza di guerra
La mia pace è lassenza del concetto di guerra
Non ombra... ombra...
ma un battito di ciglia ancora
Sono
Sono lapostolo lasciato fuori dallUltima Cena
Sono il garibaldino arrivato troppo tardi allo scoglio di Quarto
Sono il Messia di una religione in cui nessuno crede
Io sono lescluso, loutsider, il maledetto che non cede
Sono il protagonista che muore nella prima pagina
Sono il gatto guercio che nessuna vecchia vuol carezzare
Sono la bestia idrofoba che morde la mano tesa per pietà
Io sono lescluso, loutsider, il maledetto senza età
Sono londa anomala che porta via asciugamani e radioline
Sono il malinteso che fa litigare
Sono il diavolo che ha schivato il calamaio di Lutero
Sono la pellicola che si strappa sul più bello
Io sono lescluso, loutsider, un chiodo nel cervello
Sono la pallina del flipper che cade un punto prima del record
Sono lautorete allultimo secondo
Sono il bimbo che ghigna contro le sberle della madre
Sono la paura dellerba che sta per essere falciata
Io sono lescluso, loutsider, questa pagina strappata
Francoise Roy
nasce a Saint-Hyacinthe, Quebec, Canada, nel 1959. È poetessa, traduttrice,
scrittrice, geografa e fotografa. Bilingue. Cresciuta in francese ma
istruita letterariamente in spagnolo, Francoise Roy ha il tocco lieve e
preciso di chi sente la precarietà dell'esistenza e, scrivendo, osserva con
partecipazione gli impercettibili cambiamenti del quotidiano. Ha vinto
numerosi premi a livello internazionale. Ha tradotto più di sessanta libri,
pubblicato tre romanzi, due libri di racconti, tre plaquette e quattordici
libri di poesie. È stata invitata a molti Festival di poesia in tutto il
mondo.
Mamma, tanto dura, e la frutta
We have lived too close for love [ ]. [She] has grown to be my shadow.
Do our shadows love us, for all that they are never parted from us?
J.M. Coetzee (Foe)
1. Spaghetti le mie ossa, sotto le pietre levigate,
il canto rotolato dei tuoi quattromila occhi.
2. Il mio cuore di origami, piegato nell'istmo delle tue
fauci: marmorea carta, e sempre, da sempre tuo.
3. Cammello nel deserto, annuso la vicinanza di un
ristagno di acqua: mai un luogo del tuo affetto.
4. Il tuo coltello brilla nella notte dell'occhio: filo di luna
nuova, perfetta iperbole delle tue pupille.
5. Rimenbranza di me, perla viva nel suo astuccio di
calcio: quellorgano tuo, cristallizzato corpo dentro.
6. Palpavi il mio cuore, avocado nel tuo campionario.
Meraviglia di frutte fantastiche: una mela magica,
rossa e senza picciolo, dove occultare le mie arterie.
7. La tua bara, madre, con una pietra dentro, sola, dura,
quando la tua carne intorno si sarà dissolta.
Le labbra
Due lune di carne rosa tra ultimo quarto e luna
nuova, unite da quella strana parola, "commessura", piccola
cucitura di un solo punto per imbastirle al viso.
Tremanti orchidee del corpo, pelle scamosciata del petalo, orlo
delle parole, sì, ma estranee al loro picchiettio sonoro, al loro
torchio, al loro velluto, al loro acido muriatico, ai loro coloriti
sciami di note.
Il loro unico compito è il bacio. Quello di Giuda, quello dell'addio, quello
del cuore che sotterrato nella sua gabbia di costole fidanzato
di Afrodite , sogna di sentire i loro bianchi sacramenti.
Forse Dio aprì di taglio all'uomo muto quella ferita
nel viso, dicendogli: Parla!.
Addendum:Sebbene possano essere descritte come la porta daccesso dellapparato digestivo, lapertura della bocca, o si possa dire di esse che sono una membrana retrattile di pelle e muscoli, le labbra hanno prima di tutto una funzione seduttiva. Lazione più connotata delle labbra, dare un bacio, è un simbolo del dono di sé sul piano spirituale, riconciliazione, tenerezza, amore o venerazione (da qui labitudine di baciare i piedi, le reliquie e i vesiti dei santi). Le labbra simbolizzano anche il parlare e il silenzio, sebbene la fonazione non si generi lì, ma molto più in basso, e dentro il corpo.
Massimo Daviddi
nasce a Firenze nel 1954, trascorre parte della sua vita tra Milano e
Luino: da diversi anni risiede a Mendrisio, Cantone Ticino. Per Massimo
Daviddi la poesia è «quanto di più inutile esista, ma uninutilità preziosa
perché costringe luomo ad aderire al mondo». La città, con i suoi
itinerari e le sue scoperte, diventa motivo di confronto tra le cose
abituali e luomo. La prima raccolta che pubblica nel 2000 è: Zoo
Persone. Grazie a Loblio sotto la pianta del 2005, è stato finalista al
premio Viareggio Rèpaci. Testi inediti sono pubblicati nellAlmanacco
dello Specchio del 2007. Con Il silenzio degli operai, edizioni La Vita
Felice, gli è stato assegnato il premio Federale di letteratura. Ha
partecipato al Festival Internazionale della Poesia di San Benedetto del
Tronto e a quello di Genova. Ha tenuto letture a Milano, Roma, Heidelberg,
Ginevra. Il suo ultimo lavoro pubblicato nel 2017 è Madre Assenza.
Oltre la ramina
I
Bisognerebbe ascoltarli mentre vanno indietro uno dopo
laltro a due passi dal confine, le ruote vicino alle pompe
di benzina, ai rilievi della montagna, migliaia di auto con
il profilo rovesciato dove il pensiero per sua natura torna
alle origini, si fa passato; seguirli è utile, là le prime case,
immagini devote, pietre e gradini su un piccolo giardino,
avventori al bar. Sapresti anche tu di più di te, conosceresti
il senso dello stare in fila, a macchia di leopardo senza nome.
II
Non abbiamo speranza, non conosciamo quale odore
spinga i cinghiali oltre la ramina, dove vanno esuli a mangiare
le bacche e come dicono molti a distruggere, non sappiamo
perché il carosello di branchi uniti dal desiderio venga vicino
alle nostre case, esca e scavalchi venendoci incontro, saltellando;
quale sia la pressione del sangue, le loro aurore, quale sia la violenza
vera, come dirla.
III
Le linee del campo di calcio sono state la nostra esistenza,
ho iniziato a Milano su un cortile fino a Pianazzo, segreto
tra le frontiere. Non si contavano le decine di maglie,
lidea di tornare a casa che dava la vittoria e a Palone
grembiuli, fili di ferro, la terra e la notte.
Gian Mario Villalta è professore di liceo, saggista e narratore. La poesia di Gian Mario
Villalta indaga il reale in modo guardingo, come se qualcosa stesse per
venire a mancare, o fosse appena venuto a mancare, ma forse nessuno se ne è
accorto. Il grande protagonista è soprattutto il tempo, un presente sospeso
tra passato irrinunciabile pur senza deliquio nostalgico e futuro
enigmatico. Il suo ultimo romanzo si intitola Scuola di Felicità
(Mondadori, 2015). Da molti anni segue il panorama poetico italiano e
dedica particolare attenzione all'opera di Andrea Zanzotto, collaborando al
Meridiano Mondadori e curando l'Oscar degli scritti letterari. Inoltre
scrive poesia e vince il Premio Viareggio 2011 con Vanità della mente (Mondadori). Il libro di poesia più recente è Telepatia
(Lietocollle, 2016). È direttore artistico di Pordenone legge: festa del
libro con gli autori.
Quando ero ragazzo, alla fattoria, dopo il ponte,
gli animali nella stalla, dentro il pollaio e il cane
alla catena tutta la notte intrecciavano i fremiti
sottopelle, i fiati, i sussurri al mio respiro,
fino a quando mi univo sommerso nellonda
del loro sonno o quando un grido
avvertiva che altri animali, selvatici,
la donnola o il gufo, erano entrati nei nostri sogni.
Poi l'abbaiare, i tonfi, le imposte aperte
sul freddo. Il padre: Inutile, a questora,
tornare a dormire. Il sonno invece avvolgeva
presto di nuovo me, i miei fratelli, gli animali,
e la casa e il fienile e il pollaio si incurvavano lievi,
lievitando verso lalone della luna.
Ancora un minuto, un minuto.
Mi riconosce una fuga di echi.
La proroga tra l'essere
chiunque e il diventare me stesso
dura l'incalcolabile.
***
Ho una sveglia che ha il suono ostile
dei vecchi telefoni grigi, quelli
di quando abitavo nel mio paese,
con le cifre nella rotella dentro i buchi.
Una roulette dove punto ogni giorno
lo stesso numero e il sei esce storto.
Lho presa dai cinesi: spero confonda
Loroscopo vergine e topo, bilancia e drago
e ogni volta che squilla sogno qualcuno
che solleva al posto mio lapparecchio
e sa cosa rispondere.
Müesser Yeniay
nasce a Izmir nel 1984. In Turchia vince molti premi letterari. I suoi
versi, studiati e calibrati, sono permeati di femminilità e ribellione e
tesi alla volontà di riaffermare la sua natura biologica e umana di donna,
la riscoperta del significato autentico e della reale diversità tra uomo e
donna. I suoi libri di poesia sono stati tradotti e pubblicati negli Stati
Uniti, in Ungheria, Francia, India, Colombia, Spagna e Vietnam. Ha vissuto
in America e a Hong Kong. Müesser è inoltre editrice della rivista Diirden.
Al momento si occupa del PhD in turco alla Bilkent University di Ankara.
Conversazione continua con lamato
Mi sono aperta a te
come i denti di
una cerniera
uno per uno
mi sono spezzata
a metà
quando mi hai toccata
ho visto la gloria
della terra
[nelle tue mani
ci sono piccole
fate volanti]
hai visto quel
dolce vuoto in me
il mio corpo come neve che si scioglie
fuso con il tuo corpo.
Amore
Ho un altro corpo
fuori di me
lo chiamano
amore
(ma questo è dolore)
se ti ho tenuto nel mio corpo
solo dopo ho sentito
così tanto
la tua esistenza
«Raccolta di trascrizioni» e aggregazione in forma di pastiche in
molti casi, «centone di composizioni precedenti di uno o più
autori» (dal Dizionario enciclopedico della musica e dei musicisti UTET),
così ci informa l'autore nella Nota a fine testo, citando un passo di
Jolanda Insana sul «bisogno di fare e disfare», e mettendo a commento
Raboni della poesia che si fa, Gli esercizi platonici di
Pagliarani, i Palimpsestes di Genette, Zanzotto...
E in effetti questa raccolta, che si colloca dentro una tradizione antichissima, mette a punto alcune considerazioni specifiche sulle modalità del fare poesia:
- i rapporti di senso cambiano, ma reggono in altri modelli inediti e a volte imprevisti, scombinando e ricombinando il materiale verbale («si creano sbilanciamenti» osserva Insana a proposito di proprie esperienze simili);
- è un modo per «giocare con ciò che si trova in giro» (ancora Insana), quindi si pone attenzione alla disposizione a usare parole, oggetti, già in circolazione, comuni;
- più che esercizi di scrittura sono anche e forse soprattutto «esercizi di lettura», nel senso di lego (leggere e anche scegliere, raccogliere);
- questo disfare e fare ci riporta alla poesia come a «un piccolo o grande
opificio» (Zanzotto).
La ricombinazione di significati ha tradizioni lunghe nel tempo e consolidate nel Novecento, soprattutto in ambito francese, svizzero, tedesco (Oulipo, dadaismo, parte delle Avanguardie) e angloamericano.
Nella raccolta di Rodolfo Zucco diventa materiale di creazione e di studio,
esercizi di scrittura in cui si sperimentano multiformi possibilità di
costruzioni linguistiche per indagare fin dove può arrivare la forza di
aggregazione del linguaggio, la sua disponibilità plastica. E parimenti
quali immersioni nei significati sono possibili, quali suggestioni si
agganciano a una forma di scrittura non empatica, distaccata, tenuta
insieme dalla misura delle parole, anche quando si tratti di linguaggio
arcaico, specialistico, gergale, colloquiale, plurilinguistico. Le
restituzioni ci offrono un testo sorvegliato, misurato, mai dirompente o
eccessivo. Come se l'intento primo dell'autore fosse stato quello di
mantenere un equilibrio interno, una proporzione nel dicibile, lavorando di
scelta ponderata, di presa di misura negli accostamenti. Questo
procedimento non diminuisce la creatività, ma libera la disposizione
autonoma alla ricerca, senza eccessi o sovraccarichi derivanti da un
surplus empatico.
Non sono giochetti fini a se stessi o al più legati a una sovraesposizione di narcisismo (anche involontario), o di ironia, di quella arrischiata sorpresa accattivante atta ad attrarre il lettore, una manipolazione piuttosto superficiale che riveli bizzarrie, metta in luce la facilità del processo di invenzione, di imitazione, come in tanti esercizi di scrittura contemporanei.
In questa raccolta l'esplorazione del linguaggio consente due direttrici di percorso: una verticale, che entra nei gangli del processo creativo, si cala nelle profondità del soggetto perché muove qualche lontana somiglianza o reminiscenza o faglia sospesa che tende a risuonare nuovamente; un'altra orizzontale, aperta e dinamica, che esplora le disposizioni della lingua, le sue innumerevoli possibilità di combinazione da cui scaturiscono nuovi o rinnovati sensi, tutti indagabili in altre esplorazioni.
E non perché il materiale usato appartenga spesso alla lingua antica o a registri specialistici o comuni, a forme desuete o burocratiche, alla letteratura, a dizionari, a copioni teatrali, a codici di legislazioni, a resoconti di viaggi, alla produzione saggistica, a didascalie; e si rincorrano, tra gli altri, i nomi di Dino Buzzati, Bruno Schulz, Stefano Malatesta, Konrad Lorenz, Carlo Goldoni, si affacci forse Elena Ferrante.
Neppure perché si mantenga graficamente una separazione (tondo e italico) nella scrittura a indicare intenzioni diverse e qualche volta si rimandi a un gioco alterno, uno spostamento inaspettato nella posizione e nell'ottica scrittoria. E neppure perché da spunti appena accennati nascano per interna germinazione delle osservazioni, riflessioni, suggerimenti che trascinano il senso a interrogarsi sul comune destino, sulla disponibilità umana alla esistenza consumata nelle sue innumerevoli forme: come, in quali modi storici e contemporanei, è data, si è manifestata.
E' una osservazione continua di frammenti, di particelle di realtà accostati per moltiplicarne il senso, per dare significazione di una complessità di sguardi, di scelte, di posizioni, di proprietà, di accidenti, tutti oggetto di trasformazioni, mutazioni.
E lo sguardo combinatorio dell'autore sorveglia e scava la materia vitale con la cura tenace dello studioso, con l'accudimento dell'amante. (gabriella musetti)
Revolutija dal titolo della mostra al Mambo di Bologna, è lo spirito rivoluzionario che travolge e scuote nellanno tumultuoso del 1917 una Russia millenaria e zarista nello sguardo di artisti deccezione come Kandinsky, Malevich, Chagall, Tatlin, Replin ecc. E ancora il fervore culturale, lo spirito della modernità, lanima dellavanguardia nei suoi diversi movimenti che tra il 1910 e il 1920 rinnovano profondamente il volto dellarte attraverso unondata di creatività che come una ventata violenta e travolgente precorre il rovesciamento politico del paese, lo esalta e lo condivide. Da un punto di vista artistico assistiamo al concepimento di forme creative che maturano attraverso i decenni e si inseriscono pur nella loro diversità in quel progetto di rinnovamento estetico radicale delle avanguardie europee. Politicamente, la rivoluzione è il centro nodale e lapice di un pensiero nuovo, marxista e leninista di ispirazione che sfocerà nel rovesciamento dellordine stabilito, la fine di un mondo e linizio, brutale, incerto e imprevedibile di un altro per giungere più tardi alla sua involuzione totalitarista negli anni 30.
Nellimmagine dapertura Che vastità (1905) di Ilja Repin in maniera
quasi surreale due giovani appaiono sospesi in un turbinio donde in mezzo
alloceano; si lasciano trasportare, il cappello di lei svolazzante
trattenuto a da una mano contro le ondate tempestose e il vorticare
dellaria marina, lui euforico con le braccia aperte e il torace portato
verso lavanti come per accogliere o sfidare le forze incontenibili dei
mari e dei venti. Inebriati, quasi sospesi contro il vasto scrosciare delle
onde nel moto tumultuoso delloceano appaiono scivolare sulle acque
visibilmente rapiti dallentusiasmo per la ventata di nuova libertà.
Luragano spontaneo e travolgente come estasi ai sensi preannuncia un tempo
nuovo, una scintilla accesa nelloscurità, lidea di un movimento
sotterraneo se non emerso ancora , che come questi fiotti si approssima
impossibile ad arrestare.
Repin, 17 ottobre 1905
Volti vividi, realismo e passione, Repin coglie in questo grande affresco
della classe liberare il carnevale della rivoluzione russa pieno di
follia, colori e beatitudine mentre si festeggia lalba di un nuovo
secolo, agli albori di un moto del 1905 che sfocerà dodici anni più tardi
nella rivoluzione dottobre. Una folla di volti di diverse età e
provenienze, entusiasti e liberali, nobili o borghesi, studenti, operai e
ufficiali cantano versi rivoluzionari in primo piano nellaffresco di una
società in ebollizione che incarna euforicamente lo spirito del nuovo,
irriverente e vitale alle porte. I volti nitidi ed esuberanti appaiono
rapiti un una sorta di estasi collettiva di cui il fervore politico permea
l area e aleggia tra le linee, dietro gli sguardi, ovunque tacito
attraverso la scena.
Luigi D'Alessio - Louis - RPLibri 2017
Zhang Dalì, Meta-morphosis
(a Palazzo Fava a Bologna)
E una storia di metamorfosi, di transizioni e ri-creazioni quella che
lartista cinese contemporaneo Zhang Dalì racconta nella mostra attualmente
in corso a Bologna a Palazzo Fava, una storia in cui il senso di
cambiamento è pervasivo e a diversi livelli: politico ed economico nella
Cina globalizzata doggi, urbanistico nelle demolizioni e rifacimenti
massici della capitale, poetico nella capacità dellartista di dare voce e
corpo alla transizione del paese verso una nuova forma di capitalismo
globale con tutti i traumi e contraddizioni che in esso si riflettono. Il
realismo estremo di Dalì esprime per lartista la necessità di guardare
alla realtà doggi del suo popolo, del suo paese, e riflettere, esaminare,
dare voce a una coscienza critica, nella frattura anche tra realtà e
individuo perché, come egli afferma: larte ha il dovere di esprimere il
proprio scetticismo verso la brutalità che esiste nel mondo reale.
Penso che lartista contemporaneo senza una presa di posizione netta
non possa creare nessuna grande opera. Deve prendere una posizione che
gli permetta di distinguere tra bene e male e dare un giudizio di
valore. La creazione artistica incarna unideologia così come
unumanità. Se non cè compassione, amore ma solo lidea di arte come
giullare di corte allora lartista sarà uno snob e uno speculatore[1]
.
Larte contemporanea in Cina dal suo punto di vista può solo essere unarte
di ribellione, perché senza tale presa di posizione sarà linteresse a
condurre il gioco o la pura logica del profitto. Lartista, secondo Dalì, è
colui che riesce a dare una voce, una coscienza critica e espressiva a
quello che sente manifestarsi intorno a sè nel mondo nella società, nella
vita che lo circonda e al quale i molti non possono dare voce. Di qui, la
necessità di comunicare, condividere con la maggior parte o dare visibilità
al massimo grado attraverso la fotografia, linstallazione o i graffiti in
modo da rendere palese una verità o una visione che viene dal profondo
senza incorrere in una mistificazione del reale che conduce a in unarte
elitaria, complessa o distaccata dalle persone.
Il mio volto è questo ritratto espanso e reso attraverso una miriade di punti, unità luminose, pixel quasi dellimmagine elettronica nella litografia stampata. Ricoperto dal marchio indelebile di un nome, logo di unarma da fuoco e cancellato dalla medesima come dall evidenza esposta di una violenza innegabile per quanto celata, dissimulata in maniera sottile o resa invisibile nella società doggi. Tuttavia, anche, è uno sguardo che penetra e attraversa la fitta maglia di questa rete densa e occlusiva per vedere attraverso e giungere, incisivo come un obiettivo al punto focale dellimmagine, tale lo sguardo dellartista sul reale.
Sebastiano Aglieco - Infanzia resa - Il Leggio
Libreria Editrice, 2018
Il bambino sviluppa da subito un legame affettivo con linsegnante, il quale resta, comunque e da sempre, un punto di riferimento affettivo/comportamentale e di vicinanza. Il fattore di attaccamento (vedi teoria dellattaccamento di Bowlby) garantisce al piccolo la sopravvivenza in un ambiente sociale in cui il bisogno di protezione è prioritario quanto la necessità di scaricare pulsioni e di alimentarsi. Nei primi scambi insegnante-bambino possono manifestarsi momenti di sconforto/conforto e segnali di richiesta di aiuto (contatto fisico, paura) esibiti dal bambino. Quindi, la relazione tra i due diventa struttura portante per la formazione cognitiva, psicologica ed emozionale del bambino, ma anche delladulto con cui tutti i giorni il piccolo viene in contatto. Infanzia resa, importante lavoro poetico di Sebastiano Aglieco, poeta e insegnante, non è un libro fiabesco, anzi. Ci troviamo di fronte a una struttura acquisita del conoscere la realtà semplice e affabile dei bambini in maniera civile e visionaria. Il libro è introdotto dalla prefazione dellacuto Massimiliano Magnano e si conclude con una illuminante intervista curata da Vincenzo Di Maro. Sebastiano Aglieco, nella sua nota e nellintervista, ha premura di accompagnarci nella lettura di alcuni testi e sezioni inserite nel libro (Collana Radici, Il Leggio Libreria Editrice, 2018 diretta da Gabriela Fantato); infatti, ci suggerisce, con tono pacato e naturale, di approfondire e soffermarci sui colori di alcuni passaggi a lui cari e mettendo a fuoco i piani universali della poesia, molto spesso persa nei labirinti superficiali della disattenzione. Lambientazione è la scuola e i personaggi gli studenti: qui la poesia fa il suo ingresso come metodo di comunicazione, descrizione e azione autentica per identificarsi con il proprio e laltrui animo. Un concreto nucleo di concentrazione del mondo come riferimento straordinario per esaltare immagini e pensiero: la tecnica espressiva del poeta ci educa al desiderio di indagare il vissuto sensoriale di ciascuno di noi, lettori/allievi, usando toni sacri dellesperienza quotidiana al fine di evitare il rischio di allontanarci dalla vita. Aglieco imbastisce un canto delle origini di declinazione etica e umana in cui lamore per la fedeltà al confronto assume sembianza analitica e incrocio/fusione di identità. Non è casuale incontrare il poeta bambino nelladulto e ladulto nel piccolo, una osmosi etica che riconsegna vita alla vita per osare la via diretta della verità. (rita pacilio)
Chi è Alfonsina Storni? Può essere solo qualcuno che
incontri per caso, in una biblioteca, come è successo a me. Una (per me)
sconosciuta poetessa argentina, nata però nel Canton Ticino nel 1892, morta
suicida a Buenos Aires nel 1938 perché ammalata di cancro, ragazza madre,
donna sempre indipendente in quei non facili primi anni del Novecento. In
realtà Alfonsina Storni è una figura centrale nella poesia latino americana
non solo femminile, dove è in compagnia di nomi come Gabriela Mistral e
Juana de Ibarbourou. E contemporaneamente è figura esemplare della lotta
delle donne per la propria emancipazione, non solo nella chiusa e
tradizionalista società argentina dell'epoca.
In quegli anni venti e trenta bonaerensi pieni di fermenti artistici (si pensi a Borges, a Victoria Ocampo, alla rivista Sur) Alfonsina Storni ebbe anche un notevole successo, soprattutto in virtù di uno stile diretto, forse anche un po' datato e comunque lontano dal modernismo che si stava affermando, ma capace di trasmettere emozioni vive, e di tematiche che potremmo definire prefemministe e orgogliosamente libertarie, in cui hanno spazio rilevante amore e eros, connotati però da una visione di essi non subalterna, non viziata da una collocazione tradizionale e secondaria della donna, non segnata da lirismi o romanticismi superflui, ma densamente emozionale e insieme consapevole. Una poesia a testa alta, vissuta, che per diversi aspetti mi ricorda la poesia confessionale americana di Sexton e Plath, ma percorsa da un sentimento di orgogliosa solitudine, in cui gli uomini non entrano a loro piacimento ma di volta in volta vengono accolti o respinti senza rimpianti o deliqui.
Poemas de amorè una raccolta abbastanza singolare per l'epoca in cui fu pubblicata, siamo nel 1926, composta unicamente di prose poetiche, di testi brevi e intensi nei quali l'amore viene cantato come da una certa distanza, con la malinconia che l'argomento richiede, con il contrasto piacere/dolore che rimanda alle espressioni più alte del tango porteño, ma senza lamentazioni, anzi con un certo senso di superiorità morale, di indipendenza nelle relazioni, di conscia maturità dei sentimenti (esemplare da questo punto di vista è la poesia che aggiungo in calce, Inganno, tratta dalla raccolta Ocra, del 1925) rispetto all'uomo.
Giuseppe Samperi - L'ora mora del giorno - Edizioni Novecento, 2018 (edizioninovecento.it)
E' uscito in questi giorni l'ultimo libro dell'amico Giuseppe Samperi, di cui ho scritto la prefazione che pubblico qui. Trovate altri scritti di Samperi QUIe QUI.
Conosco Giuseppe da un po', anche se da lontano, come avviene in questi tempi digitali. Mi piace leggerlo, ne ho scritto altre volte. Mi pare di conoscere le sue inquietudini, il suo bisogno di scrivere, di fare poesia, un'arte - non è il solo a pensarlo - necessaria e inutile. Credo che possiamo considerare quest'ultimo libro di Giuseppe Samperi come un compendio. un tirare le somme, ce ne sono indizi. Compendio di vita e di scrittura, entrambi terreni di una ricerca esistenziale della quale la prima è stata ed è materia, la seconda metafora e strumento, come il negro sèmen dell'Indovinello Veronese. Ricerca insoddisfatta, come sempre, tanto che la vita sembra a volte osservata alla lontana, come dalla porta di casa che dà su una via assolata, mentre la scrittura è perennemente a rischio di essere dismessa, o licenziata, come un aratro non affilato a sufficienza che finiremo per lasciare arrugginire. Nella poesia di Giuseppe le due cose sono sempre andate di pari passo, c'è sempre stato un occhio che osserva contemporaneamente le parole che si vanno tracciando sulla carta e la penna che le traccia, l'oggetto e lo strumento, basta vedere a titolo di esempio tutto l'inchiostro che viene evocato in parola e sostanza in un altro suo libro, Il miliardesimo maratoneta, 2011 (Regalo questo inchiostro, / scolatura che rimane / dagli accurati strappi). E gli strappi, inutile dirlo, sono dolorosi.
Proviene da questi versi, in effetti, l'immagine di un uomo che contempla un flusso, non necessariamente prendendovi parte attiva, a volte anzi come un Diogene che attende immobile una epifania, pur nel convincimento che qualsiasi rivelazione è giusto dietro l'angolo, foss'anche quella del nulla (ma, chiosa Giuseppe, Quale nulla? Eppure un dio / lo aspettiamo ancora. Io laspetto). Osserva e annota, dalla posizione un po' decentrata di chi è certo che tutto si possa manifestare anche in universi microscopici che semplicemente accadono, e se ne possa trarre qualche insegnamento universale, ancorché dubitoso.
Sembrerebbe la posizione del flaneur, per dirla con Baudelaire, se non fosse che in questi versi si percepisce, anche quando non vi è descritta, un'aria insulare, niente affatto urbana, di una insularità certo piena di luce (una luce di cui non ci si sfama mai, dice l'autore) ma che è propria dell'anima (isolano isolandomi d'inchiostro, dice - ancora - altrove). E mi pare ci sia, in aggiunta, la consapevolezza dei limiti del luogo in cui fortuitamente si vive, ma anche delle sue risorse, dei legami e delle radici (di cui il ricorso a inserti dialettali è testimonianza), di un certo genius loci a cui Giuseppe appare essere devoto. C'è anche, mi pare di poterlo dire, un che di premoderno, quindi, che non è una questione stilistica (anzi la versificazione qui è contemporanea), ma riguarda semmai proprio questo sguardo da una parte critico sul presente, dall'altra rivolto all'indietro, ad una appartenenza, ad una identità inalienabile, come un ponte tra vecchio e nuovo, tra i vivi e i morti che Giuseppe vuole presidiare, anche quando appare esserne oppresso. E anche ogni volta che si accende una voglia di fuga (Persiste / la bramosia di un altrove, / lalcova della gioventù istupidita), forte quanto frustrata così tanto da ritorcersi spesso nella tentazione di smettere di scrivere, nella disillusione, espressa in diversi punti, che sia vano. Assolutamente vano / questo scrivere.
Da un'altra prospettiva c'è in questi versi, anche in ragione di quel che s'è detto, qualcosa di domestico (e di familiare per chi legge). Sia chiaro che non c'è niente di riduttivo in questa connotazione (basti pensare a quanto di domestico c'è nella grande poesia latina), è anzi un carattere proprio della poesia di Giuseppe, di un modo tutto suo di cogliere liricità e senso nelle più diverse situazioni. una poesia domestica, che esordisce, proprio nella prima poesia, dal sofà di casa dove giungono dall'esterno segni e suoni che sfidano il dio che non parla, o da altri punti di osservazione (o forse di sentinella) come il caffè abituale, unisola magnifica / che mi coccola tra i morti mentre scorrono in sottofondo notizie di guerra dall'Oriente, il corpo disteso sulla sdraio sotto le nuvole. Niente di idilliaco tuttavia, c'è sempre sullo sfondo qualcosa di allarmato, si tratta di un ambiente tutt'altro che consolante, che sembra un prodromo di quella balena che ci ingurgita tutti, compreso il Giona-poeta che qui scrive ma che sembra serbare poche speranze di essere rigettato alla fine, come il profeta, su qualche lido. Ecco, a differenza di altri poeti, in questi versi non c'è un sentimento tragico o ossessivo dello scorrere del tempo, stante che il destino ineluttabile è già nelle cose, in ogni istante che t'arriva vivido al cuore. E del resto Se la giornata è amabile di buon colorito / il sole, veste fresca laria / stanne certo che la fine è un bluff .
Inutile misurare il tempo, insomma, a queste latitudini, dove il tempo appartiene alla natura, e si misura semmai con la natura delle cose, come con quei sarmenti che Divintaru vigna pampinusa / rracina e mustu e vinu / e ppoi lignami di furnu (in Sarmenti scattiati, 1999). La misura è invece il peso. Non l'usurato generico peso esistenziale, ma quello delle cose e soprattutto delle azioni, o peggio ancora delle non azioni, il peso degli effetti che ne derivano. Non è un caso, credo, che Giuseppe titoli due delle sezioni del libro sottopeso e sovrappeso , due termini in apparenza mercantili. La vita come prodotto di una serie di atti, qualcosa che si dà o si riceve in eccesso o in difetto, e certamente si paga. E anche un peso reale, un pesocorpo, una soma che si riflette sull'animo (ci alziamo ogni mattina / con tutta la carne che possiamo), e insieme un corpo in libera caduta, / solo quel corpo libero / che salva. E in qualche modo occorre cadere, poiché In sovrappeso / è mendicante / chi non aggredisce il fondo. una caduta leggera, della leggerezza che è tratto saliente di molti di questi versi.
Sembrerebbero elucubrazioni dalla provincia, da una estrema periferia percossa da una luce meridiana. Ma tutto il mondo è paese, come suol dirsi. Ecco che l'ultima sezione rappresenta come una precipitazione di questo libro, l'irruzione di eventi più drammatici in questo orizzonte placidamente inquieto. Il peso di cui abbiamo parlato qui si fa piombo.
Avevo già letto Noncuranza e l'avevo pubblicata sul blog Imperfetta ellisse con uno pseudonimo. Ora Samperi se ne fa carico pienamente come autore, assume su di sé il peso di una materia tragica e insieme impietosa affrontando, come scrissi, un tema penoso con parole crude, dicendo cose che forse si pensano, ammettiamolo, ma che non si dicono. Il tema è quello della madre, della sua vecchiezza, dello sfacelo del corpo e delle pene che comporta, della consunzione anche dell'identità, che vale qui (e chi ne ha fatto esperienza lo sa) come messa in crisi degli affetti, dell'etica a cui si è educati, delle risposte da dare, della responsabilità. E che vale nel contempo come realizzazione di una inevitabile inanità, come contemplazione della morte, una visione da cui si vorrebbe fuggire. La noncuranza, io credo, va intesa non unicamente come mancanza di cura, ma anche come rassegnata constatazione dell'inutilità di quella cura, quasi un accanimento per cui, dice Samperi, meglio morire, vecchietta mia stanca, / meglio la morte alla noncuranza. Questi due versi sono proprio all'inizio del testo che apre la sezione, e sono di certo forti, eppure vale la pena di osservare l'andamento a filastrocca di quella poesia - che non si ripete nelle successive - la musica che ne proviene e l'affettività dibattuta e contrastata che trasporta, come una ninnananna che accompagni un lento chiudersi degli occhi. Mi pare di intravedere insomma un compianto, che i testi successivi, pur nella loro cruda liricità, non riescono né vogliono nascondere. Un apice emotivo che si riscontra, al polo opposto, solo quando Giuseppe in una bellissima poesia parla alla figlia, che dovrebbe educare al mistero del Rebus insolvente che è la vita, senza illusioni, senza dare a bere rosari e droghe mistiche, senza nascondere lineluttabile, uguale per tutti, lassoluta mancanza di senso, di soluzioni dellesistenza.
Una visione laica, forse troppo laica per qualche lettore. Ma ha il grosso pregio di annientare qualsiasi tono elegiaco, ogni scivolamento crepuscolare. In questi versi non c'è nessuna preghiera sottesa, quindi nessun medium, nessuna mediazione, e il dio nominato è sempre un dio minuscolo, come è evidente (mentre, si noti, il Rebus è maiuscolo). C'è sempre in questi versi il tono di chi dice quel che deve dire, la trasparenza franca di quel trobar leu che Giuseppe cita altrove e che mi pare persegua sempre, perfino quando ricorre, in tutto o in parte, alla sua bella lingua siciliana, traforata come un merletto. La franchezza dello scettico che non ha bisogno né vuole ricorrere a un linguaggio ellittico, e che trova nella naturalezza della sua amata-odiata scrittura la sua migliore espressione. (g. cerrai)
Ivano Mugnaini - La creta indocile - Oèdipus, 2018
Avevo già cominciato a parlare brevemente di questo libro, o almeno di ciò
che sarebbe diventato, quando Mugnaini mi mandò alcuni inediti che di
questa raccolta avrebbero dovuto far parte (v.
QUI
). Il titolo era in pratica definitivo, ed in stampa è stato confermato;
mentre solo cinque delle quattordici poesie che avevo letto hanno trovato
la loro collocazione definitiva. Non è più tempo di farne un discorso
filologico, nell'era del digitale, della videoscrittura, di varianti
disperse in qualche hard disk, ma qualcosa vorrà dire di certo. Quanto meno
della cura e della disciplina con cui Ivano tratta la sua materia poetica,
e con essa il discorso che vuole portare avanti. E di quanto sia fedele
alla sua idea di fare poesia che tende innanzitutto a stabilire una
continuità di stile e di tonalità che è parte integrante di quanto intende
comunicare, in altre parole del suo "carattere", anzi - meglio - del
carattere persuasivo della sua scrittura. Riguardo al quale
confermo quanto scrissi riguardo sia a quanto avevo letto degli inediti sia
al suo libro del 2010, Il tempo salvato, (v.QUI
). Che cioè consiste, il suo convincere placidamente, non solo nel trovare
la parola ancora serena, come ricorda Ivan Fedeli nella
postfazione, ovvero la continua ricerca di un livello comunicativo "medio"
(ma non mediocre) con poco da parafrasare e quindi confortante per il
lettore; ma anche nel riportare il suo mondo complessamente semplice
all'interno di una cerchia per così dire "domestica", e quindi comune
all'uomo, e perciò capace di creare un genius loci, un ambiente
quasi esorcizzante il mondo stesso. Che è semplice e complesso nello stesso
tempo, come si diceva, fatto di quella creta indocile dell'esistere che Ivano tenta di plasmare ad arte,
in sé complessa, ma che si manifesta per fenomeni, oggetti, evenienze in sé
semplici, linguisticamente decifrabili per quanto possibile, e tuttavia
pregni di un'altra e diversa dimensione su cui il poeta è chiamato a
riflettere, e da cui parte in riprese che a tratti mi rammentano Montale e
altri ("Allora, felice di aver capito senza avere / compreso...", "Eppure
non tutto è perfetto, c'è un brandello..."). Riflettere e sviluppare un
pensiero pacatamente, partendo da una salda fiducia nelle scrittura e nelle
radici anche culturali, stilistiche, robustamente novecentesche di essa
(*); è questo il registro principale di Mugnaini, una osservazione anche
dolorosa ma senza drammi (niente di esistenzialista) a cui il poeta
fornisce una trama dialettica nella quale gli accadimenti, i sentimenti, lo
scambio con la natura, la ricerca delle affettività trovano una
giustificazione di senso, non solo loro ma anche di quel esserci
dell'uomo. A questo si aggiunge un sentimento del tempo, generalmente
inteso, quel tempo che già avevo chiamato "il non domesticabile per
eccellenza", il tempo lineare in cui ogni momento, trascorrendo, diventa
subito memoria e quindi identità del vissuto. Mugnaini è poeta che parla
molto del tempo e - in un certo senso - fuori dal tempo si pone, in quelle
parcelle di tempo "salvato" - che poi è la poesia stessa al suo meglio -
che gli assicurano, come avevo scritto, "un'enclave psicologica e di
ethos". Nella quale il mondo si affaccia ed è nello stesso tempo escluso, o
almeno tenuto alla distanza, o forse non combattuto perché inutile farlo,
perché "è muto l'alfabeto del mondo", perché tanto le cose che contano, ci
dice Ivano, sono veramente poche ed essenziali, come ad esempio l'amore di
cui scrive pur sapendo che "scrivere d'amore non è più possibile, non ora,
/ non qui" se son si affronta, di questo tempo/mondo, "il niente (...) che
lasciamo trionfare, becero, sguaiato", e magari "la salvezza è nel riso
rubato alla ragione", il mondo è esorcizzabile "lasciando che il sole /
entri negli occhi e nella mente a petto nudo". C'è in Ivano spesso un
richiamo a puri elementi naturali che lo riconnettono con la naturalità
della vita, c'è un elemento spirituale, come avevo già detto, una pietas anche autoriferita che tende a superare, poeticamente,
anche inevitabili contraddizioni, ad esempio tra il mondo muto e il mondo
decifrabile che parla attraverso sprazzi di sole, visioni di donne, colori
, incontri, oggetti o "cose" tuttavia non inanimati, che sono lì per
"qualcosa". In molti sensi la realtà di Ivano è tutt'altro che complessa, e
se c'è un dolore alla fine è quello basico, fondamentale e quindi
"semplice" ma insidioso del pavesiano mestiere di vivere. Contro il quale
Mugnaini non grida, ma sul quale medita, non escludendo niente in verità di
quello che è concesso osservare, e quindi vivere con in fondo una certa
gratitudine, come scrissi, verso la plastica indocilità di quella creta. (g. cerrai)
(*) Cultura non esibita, con quella certa timidezza che, conoscendolo, gli somiglia ma non lo condiziona. Un indizio: la mancanza di note al testo, pur essendo diversi i richiami. Una specie di ritrosia a mostrare cultura (ad es. un insospettato, insolito, Alfredo Giuliani dei Versi e non versi in Un'altra siepe di spine)
Limmaginazione domina il regno del vero
e, allinterno di questo regno,
il possibile è solo una regione.
C. B.
Le vin des amantes
Aujourdhui lespace est splendide!
Sans mors, sans éperons, sans bride,
Partons à cheval sur le vin
Pour un ciel féèrique et divin!
Comme deux anges que torture
Une implacable calenture,
Dans le bleu cristal du matin
Suivons le mirage lointain!
Mollement balancés sur laile
Du tourbillon intelligent,
Dans un délire parallèle,
Ma soeur, côte à côte nageant,
Nous fuirons sans repos ni trêves
Vers le paradis de mes rêves!
Il vino degli amanti
Questoggi lo spazio è terso!
Senza briglie, né speroni, né morso,
partiamo a cavallo del vino
per un cielo fiabesco e divino.
Come due angeli che flagella
unimplacabile febbre gialla,
nel cristallo cerulo del mattino
seguiamo il miraggio da vicino!
Mollemente bilanciati sullala
del turbinio intelligente,
dentro una follia parallela,
sorella mia, a fianco a me natante,
fuggiremo senza tregua, né ritegni,
verso il paradiso dei miei sogni!
La fin de la journée
Sous une lumière blafarde
Court, danse et se tord sans raison
La Vie, impudente et criarde.
Aussi, sitôt quà lhorizon
La nuit voluptueuse monte,
Apaisant tout, même la faim,
Effaçant tout, même la honte,
Le Poète se dit: «Enfin!
Mon esprit, comme mes vertèbres,
Invoque ardemment le repos;
Le coeur plein de songes funèbres,
Je vais me coucher sur le dos
Et me rouler dans vos rideaux,
Ô rafraîchissantes ténèbres!»
La fine della giornata
Sotto una luce morente
corre, danza e si torce senza ragione
la Vita, chiassosa e impudente,
tal che appena il ciglione
della notte voluttuosa monta,
riposando tutto, anche la mente,
appagando tutto, anche lonta,
il Poeta dice: «Finalmente!
lo spirito e le mie vertebre,
ardentemente implorano soccorso;
il cuore colmo di sogno funebre,
vado a stendermi sul dorso
e mavvolgo nelle vostre latebre,
oh, rinfrescanti tenebre!»
Les aveugles
Contemple-les, mon âme; ils sont vraiment affreux!
Pareils aux mannequins; vaguement ridicules;
Terribles, singuliers comme les somnambules;
Dardant on ne sait où leurs globes ténébreux.
Leurs yeux, doù la divine étincelle est partie,
Comme sils regardaient au loin, restent levés
Au ciel; on ne les voit jamais vers les pavés
Pencher rêveusement leur tête appesantie.
Ils traversent ainsi le noir illimité,
Ce frère du silence éternel. Ô cité!
Pendant quautour de nous tu chantes, ris et beugles,
Eprise du plaisir jusquà latrocité,
Vois! je me traîne aussi! mais, plus queux hébété,
Je dis: Que cherchent-ils au Ciel, tous ces aveugles?
I ciechi
Contemplali, anima mia, sono davvero mostruosi!
Simili a manichini; vagamente ridicoli;
terribili, singolari, come sonnamboli;
dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi.
I loro occhi, dove la divina scintilla è partita,
come se guardassero lontano, restano a planare
per il cielo, non li si vede mai inclinare
al suolo assortamente la loro testa appesantita.
Attraversano così il nero dellinfinità,
questo fratello del silenzio eternale. O città!
mentre intorno strilli, ridi e canticchi,
presa dal piacere fin allatrocità,
vedi! anchio mi trascino, ma più ebete di loro, chissà!
dico: che cercano al Cielo tutti questi ciechi?
La vie antérieure
Jai longtemps habité sous de vastes portiques
Que les soleils marins teignaient de mille feux,
Et que leurs grands piliers, droits et majestueux,
Rendaient pareils, le soir, aux grottes basaltiques.
Les houles, en roulant les images des cieux,
Mêlaient dune façon solennelle et mystique
Les tout-puissants accords de leur riche musique
Aux couleurs du couchant reflété par mes yeux.
Cest là que jai vécu dans les voluptés calmes,
Au milieu de lazur, des vagues, des splendeurs
Et des esclaves nus, tout imprégnés dodeurs,
Qui me rafraîchissaient le front avec des palmes,
Et dont lunique soin était dapprofondir
Le secret douloureux qui me faisait languir.
La vita anteriore
Molto tempo ho abitato sotto vasti portici
che i soli marini tingevano di mille fuochi
e che i loro grandi pilastri, dritti e ciechi,
rendevano simili, la sera, a vicoli basaltici.
Le onde, arrotolando immagini del cielo,
mischiavano in modo mistico e solenne
gli onnipotenti accordi delle loro ninne nanne
ai colori di ponente distesi sopra un velo.
E là che ho vissuto nelle voluttuose calme,
in seno allazzurro, alle onde, agli splendori,
e con schiavi nudi tuttimpregnati dodori,
che mi rinfrescavano la fronte con le palme
e dove lunica premura era dapprofondire
il segreto doloroso che mi faceva languire.
Élévation
Au-dessus des étangs, au-dessus des vallées,
Des montagnes, des bois, des nuages, des mers,
Par delà le soleil, par delà les éthers,
Par delà les confins des sphères étoilées,
Mon esprit, tu te meus avec agilité,
Et, comme un bon nageur qui se pâme dans londe,
Tu sillonnes gayement limmensité profonde
Avec une indicible et mâle volupté.
Envole-toi bien loin de ces miasmes morbides;
Va te purifier dans lair supérieur,
Et bois, comme une pure et divine liqueur,
Le feu clair qui remplit les espaces limpides.
Derrière les ennuis et les vastes chagrins
Qui chargent de leur poids lexistence brumeuse,
Heureux celui qui peut dune aile vigoureuse
Sélancer vers les champs lumineux et sereins;
Celui dont les pensers, comme des alouettes,
Vers les cieux le matin prennent un libre essor,
Qui plane sur la vie, et comprend sans effort
Le langage des fleurs et des choses muettes!
Elevazione
Al di sopra degli stagni e delle vallate,
di monti, di boschi, di nubi e di mari,
al di là delletere e di luci solari,
al di là dei confini delle sfere stellate,
spirito mio, tu ti muovi con agilità,
come nuotatore che sinebria dellonda
solchi felice limmensità profonda
con indicibile e maschia voluttà.
Innàlzati da questi miasmi putridi
per purificarti nellaria superiore,
e bevi come puro e divino liquore,
il fuoco chiaro degli spazi limpidi.
Dietro le noie e i vasti dispiaceri
che gravano lesistenza brumosa,
felice è colui che da unala vigorosa
si lancia in campi luminosi e sinceri,
di cui i pensieri, come allodole venute,
prendono per i cieli un libero volo,
chi plana sulla vita e comprende solo
il linguaggio dei fiori e delle cose mute.
Laura Garavaglia - Correnti ascensionali CFR,
2013, con immagini di Daniela Gatti
Mi capita spesso di leggere libri dartista in cui dipinti e fotografie vengono associati, a volte, in maniera tematica, alla poesia: alcuni progetti sono originali e ben costruiti, altri meno, ma ne apprezzo sempre il connubio, la fusione, la potenza del linguaggio poetico comune a tutte le espressioni artistiche. Correnti ascensionali di Laura Garavaglia, CFR 2013 è molto più di un libro dArte. È uno scrigno di gioielli: poesie in lingua italiana con traduzione in inglese di Barbara Ferri, in romeno e spagnolo di Mario Castro Navarrete, e fotografie di porcellane (medaglioni, vasi, centrotavola) di Daniela Gatti. Le combinazioni sono eleganti e illuminanti. È sacro il dire e il fare delle Correnti, infatti, il percorso razionale, visionario e intimo trasforma i particolari in affascinanti contemplazioni del tutto. Così le pagine non interloquiscono solamente con le immagini, ma, soprattutto, con il controcanto di altre lingue per declinare, solennemente e miracolosamente, lappartenenza alla stessa natura. Il lettore è accompagnato dal senso di realtà presente e da aspetti folgoranti del passato nella bellezza di metriche e colori in cui la fascinazione emozionale indica direzione e partecipazione. (rita pacilio)
LA PAROLA INFORME - esplorazioni e nuove scritture dellultracontemporaneità
a cura di SONIA CAPOROSSI - Marco Saya ed., 2018
Ricordo che diversi anni fa si parlava di mappature della poesia. Ah,
quanto se ne parlava! La linea lombarda, la linea marchigiana, la
generazione entrante, quella uscente, i territori paralleli...Sebbene già
allora le mappe non portassero in alcun luogo - con una certa soddisfazione
dei più borgesiani - oggi più che mai mi pare che l'orientamento sia
un'arte difficile, se non appoggiandosi, ancora, a categorie o
denominatori. (e poi, orientarsi in cosa? nella poesia in sé? nel reale ivi
(se) riconoscibile? nel fenomeno osservato? nell'osservatore?) etc. Se
l'orientamento è difficile non lo è tanto perché la poesia sia una giungla,
quanto perché la si vuole spesso e quasi di necessità collocare e
ri-collocare - spesso arbitrariamente - in ambiti e/o codici, meglio se
impermeabili tra loro, e questo crea problemi, se non proprio di dissidio e
opposizione, almeno di prospettiva e focalizzazione. Una opacità a cui si
potrebbe porre qualche rimedio se intanto si considerasse la produzione
poetica come una serie di oggetti (insiemi) intersecabili, un'ottica che
almeno (forse) consentirebbe di capire non tanto la realtà di uno
(o nessuno), quanto il punto di vista sul mondo di alcuni (o
molti) anche diversi, e quindi analizzarne in maniera feconda le
intersezioni e le osmosi, i problemi e le soluzioni adottabili e/o
sviluppabili. Non sto parlando di ecumenismo, e nemmeno di una diversa
antologia ([1]). Sto parlando
della necessità di ricostituire il peso della poesia (il peso
anche sociale e politico se volete) come strumento/funzione di indagine e
comprensione del presente.
Perché nel frattempo, come in ogni "litigio" o dissidio che si rispetti, il terzo gode. Ecco, questo sì che è un problema interessante. Cioè chi/cosa possa essere, nell'articolazione del presente (o dell'ultracontemporaneo, per dirla con Sonia) questo tertium. Sarei orientato a pensare che esso sia lo sfuggente convitato di pietra, quel camaleonte che perònon si mimetizza ma viene mimetizzato proprio da chi lo osserva, con uno strano fenomeno ottico. Sto parlando del reale complesso, di quella complessità che è un problema seriamente percepito da qualcuno (ad esempio da uno almeno degli autori qui presenti) ma che è ben lungi dal trovare una soluzione "artistica". E che allo stato attuale produce - spesso - un intenso lavorio sul "come", soprattutto sul linguaggio come copia e manifestazione iconica dell'indicibile, una neolingua come pallida rappresentazione di un mondo/potere di comunicazioni verticali. Il rapporto, per fare un esempio brutale, mi pare - qualche volta - quello tra un bambino con le sue lallazioni e un mondo di adulti che impartiscono ordini. C'è insomma un po' (molto) meno attività sul "cosa" si aggira (al di là del groan individuale, anche se spacciato per lamento collettivo/generazionale) all'interno dell'odierno reale complesso, che è davvero, esso sì, ultracontemporaneo, perché in ultra-divenire( [2]).
Il linguaggio, oggi, mi pare abbia (ed è qualcosa che riguarda anche la polis) due direzioni principali, una di informazione, l'altra di deformazione. Una dicotomia che va spiegata, a cominciare dal primo braccio, la cui aria "positiva" non deve trarci in inganno. La prima direzione, infatti, è quella della semplificazione, della reductio ad unum, dello slogan, ed è soprattutto politica, ed ha la caratteristica di essere in-formante, non necessariamente in aderenza alla realtà, anzi come riscrittura funzionale della medesima, e con funzione estetica nulla. Paradossalmente è ciò che più si avvicina al grado zero di Barthes, alla scrittura bianca, non ovviamente quella di Camus a cui il filosofo francese faceva riferimento, ma una scrittura in cui la riduzione della forma si combina, ancora una volta paradossalmente, con l'instaurazione di un mito. Una scrittura insomma non tanto astorica quanto alogica. L'altra direzione, restando nel campo di questo libro, è quella della complessità, nel senso a cui accennavo prima. Ma qui, nel momento in cui, di fronte al complesso, l'esperienza individuale si restringe e arretra (cioè quando e perché non riesce a diventare esemplare e - quindi - letteraria), emerge una "inclinazione alla deformazione poietica del dicibile... un concetto comune di parola informe" (Caporossi, corsivi dell'autrice). Già, il dicibile. Io prima ho parlato di "indicibile", e mi viene il dubbio che siano sinonimi, in questo contesto. E che siano entrambi sinonimi di "infinito", ovvero un ammasso stellare di materia che può o non può essere detta in poesia (se restiamo in questo campo), in entrambi i casi fino alla noia. Un materiale poetico atomizzato, in cui ogni frammento percepibile può essere potenzialmente una scintilla testuale, un mini-bang espansivo, basta che l'artista trovi, magari una volta per tutte, il suo modus, o la sua "forma informe", o come si diceva una volta il suo stile. Ora, la buona notizia è quando - nella migliore congiuntura - riesce a verificarsi quella "intuizione aurorale" a cui si riferisce Caporossi nella sua prefazione, ovvero "la presa di coscienza del paradosso sorgente dalle multiformi modificazioni del nesso tra segno e significato, propria dellesperienza poetica per eccellenza" (appunto quella aurorale). Tralasciamo il carattere "raro" e empirico che promana da questa definizione che richiama alla mente Benjamin (e Baudelaire ancor prima), ma capisco bene e apprezzo l'intento critico (e la proposta) di Sonia di ricondurre, ove si verifichi, il carattere (l'alloro) di unicità (l'aura di Benjamin, quindi) dal capo dell'opera all'intuizione del poeta (è l'idea, il concetto, del poeta che viene ad assumere la sua unicità prima dell'opera). La cosa importante, sotto questa prospettiva, è che, forse proprio per il suo empirismo, il risultato può essere - davvero - "sperimentale". Il che, in parole poverissime, significa davvero spostare in avanti certi limiti (espressivi, comunicativi, interpretativi) che sono gli stessi, fondamentali, della poesia e dell'agire artistico in genere.
La notizia meno buona è quando (in alcuni casi) ci coglie la sensazione che la parola informe da una parte sia - per usare un paradosso - una "facile via difficile". Ne ho già parlato brevemente, ma voglio essere più preciso. Parlo di metodo, di modalità e/o maniera, anche autoalimentata; di estetica del multiplo, di cliché come arte ecc. (a margine: il cliché come arte è (sarebbe) già un buon approccio al complesso, se non si limita ad essere un atto artigianale (o puramente concettualizzato) con cui si prende un qualsiasi frammento del reale - soggetto quindi di/a casualità - e lo si pone in un frame [stampo, forma, cast] pre-parato). Parlo di una postura, o del rischio di essa. Una cosa che nessun poeta ammetterà mai, ma è la riproducibilità (sempre per restare a Benjamin) della forma (per quanto informe), la collocazione in un confortevole punto di quiete, una cosa che Sonia può comprendere perché non dissimile da una malattia che lei chiama "esordismo", c'est à dire la riproduzione dei temi e moduli uguali a sé stessi, per una sorta di confortante conformità a qualcosa di primevo che - aggiungo - sembri aver raggiunto una propria "economia" funzionale.
Oppure, dall'altra parte, come dicevo all'inizio, che l'informale mimetizzi l'indicibile (o quel che si può dire di esso) confondendolo con il suo essere "naturalmente" oscuro (che è in sé una categoria nobile - e indagabile), (ri)calcandone il gradiente di impenetrabilità ecc., che sia quindi una parola - certo involontariamente - "organica", come si diceva una volta, a un contemporaneo (ultra o meno) la cui complessità non è certo governata dal poeta ma che il poeta, a mio avviso, deve tentare di penetrare, senza rimbalzarci sopra come un sasso su uno stagno. Cosa, lo ammetto, non facile, ma che rappresenta una sfida per il futuro.
Inutile dire a questo punto che questo libro antologia prende le mosse da un assunto implicito, che cioè il punto di partenza (di questa mappa o di altri itinerari) sia la poesia di ricerca o sperimentale - per quanto qui solo nella sua veste semica e lineare - in ragione del suo accreditamento di stato dell'arte avanzato della poesia (un accreditamento, per inciso, a volte un po'"auto-") e per conseguenza più aderente al contemporaneo "ultimissimo" o "iperattuale" (Caporossi) di riferimento. E forse questo libro può apparire come un repertoire linguistico e di competenze, di fatto centrato su uno specifico. Ma l'assunto della curatrice deve essere accettato, pur con i suoi rischi e i suo punti critici. Non solo perché della poesia di ricerca non c'è, come invece sostiene qualcuno, una egemonia perfino ridicola da supporre e pertanto essa non può che essere considerata un territorio "coltivabile" al pari di altri, soprattutto se si cominciano a respingere rigidità di canoni, codici, paradigmi; ma anche per il fatto che, al di là di tutte le considerazioni fin qui fatte, questo libro è prezioso e meritorio, perché offre non pochi spunti di dibattito (ce n'è un gran bisogno) e perché mi pare non voglia affatto essere un punto di arrivo. Ma soprattutto perché ci leggo una ambizione di fondo, che è quella che dovrebbe avere una critica seria. Ovvero ciò che credo la critica oggi, se ancora ha una funzione, debba fare: concorrere ad identificare non linee ma percorsi conoscitivi od estetici (che in arte è lo stesso), arrogarsi il diritto di "inventare" o imporre scoperte, argomentandole e difendendole, ma soprattutto di rinvenire snodi, punti di frizione, articolazioni, percorsi non battuti, indicando sentieri apparentemente invisibili. In questo sì "impura", o al contrario totalmente pura perché il suo lavoro non è più trovare il "buono", o giustificazioni plausibili al lavoro di questo o quello scrittore specie se "difficile", o "nuove ontologie", che è una cosa che fa ridere i polli. E' semmai quello di trovare idee, o "concetti", (e quindi fare un "atto di creazione" per dirla con Deleuze). Mi pare che Caporossi sia decisamente orientata in questo senso.
E tuttavia, se il legante è quello che individua Sonia, ovvero di un "potere autonomo e autotelico della parola" che può svolgersi fino al "raggiungimento del livello informe della parola (stessa), condizione fluttuante in cui il senso si concede alla comprensione, di volta in volta, nellatto del suo stesso farsi", non so se questo può bastare. E' in primis quella "condizione fluttuante" che mi fa pensare che racchiuda in sé un'alea e che mi fa temere una scrittura/guscio di noce alle mercé di una brutale corrente, per dirla con Shakespeare. E poi forse si tratta - forse - di un problema categoriale, un ambito in cui si possono far confluire anche troppe esperienze, anche decisamente contraddittorie, come è successo nelle arti plastiche e figurative con l'informale, che comunque possiamo considerare morto già alla fine degli anni Novanta.
E tuttavia, ancora, questo lavoro ha in sé un elemento fecondo ulteriore (ma non involontario, ultroneo). In realtà, cioè, questa antologia, i cui autori - come annota Caporossi - sono "ondeggianti sul filo pericoloso che separa la natura crassamente lirica della poesia dal filone sperimentale o di ricerca", potrebbe con qualche giovamento essere osservata da una prospettiva verticale [longitudinale] che però non costituisce necessariamente un confine, secondo il concetto che dicevo all'inizio, tra aree in cui la parola informe è sì - per una parte rilevante - forma e medium, ma che poi veicola, a me pare, cose diverse, che mi sembra evidenzino, almeno qui, almeno due direzioni, ed è questo che mi interessa. Perché a un certo punto bisogna pur chiedersi, criticamente, in relazione al loro rapporto con la realtà, a cosa pensano davvero i poeti, qual è la loro spinta iconica/eidetica ad esempio, cosa immaginano davvero che io (anche come lettore-critico o anche empirico) legga o creda di leggere. Insomma che cosa vogliono dire. Giacché si tende, succede anche a me, ad accettare l'offerta linguistica dell'autore, specie se sub specie 'oscura/difficile', come l'oggetto [prodotto] "finito" del suo lavoro. Ma se si va ad analizzare davvero il precipitato, se si comincia a vedere cosa c'è dentro, le cose che ci sono dentro, allora appare evidente che in quella "oscillazione" citata (e che forse Sonia non ha voluto approfondire) c'è un punto nodale. Da una parte, in questo libro, c'è l'informe in cui davvero abita e agisce il "potere autonomo e autotelico della parola", ma nel senso che tende ad arrogarsi non tanto un potere di interpretazione (o forse di invenzione) del reale costituendolo con il verbo, quanto il diritto di contemplazione di sé, nel proprio farsi. Il quale farsi non è detto che sia regolato, come dice Sonia, dall'analogia intesa come "capacità logica (e ancor prima, prelogica) di porre nessi metaforici tra limmagine poetica e la semiosfera esperienziale di riferimento". Rimane infatti il problema, tanto per capirci, di chi debba avere questa capacità logica, se l'autore, il lettore o entrambi. Come precondizione, immagino.
Dall'altra parte di questo libro la parola informe (il cui grado di"informità" andrebbe comunque stimato, perché variante) mi pare che sia materiale plastico di rappresentazione, cioè ambisca quanto meno a rappresentare "ad arte" qualcosa che non sia solo la propria deformazione (seppure come imago di un reale difficile da penetrare). Cioè ambisca ad usare il linguaggio non solo in senso "strumentale" (come uno strumento risonante [autopoietico]) ma anche (o soprattutto) come mezzo conoscitivo o cognitivo, pur nel suo "farsi" dinamico (che vuol dire tendere a una innovazione della capacità espressiva della lingua). Su questo versante, a grattare un po' l'informe, poi il lettore trova la sua"soddisfazione", ammesso che in questo sistema il lettore sia contemplato (sia detto senza ironia: ad es. in molta arte contemporanea il fruitore, specie se passivo, non è affatto considerato come "variabile" componente del processo). Il qualcosa che sembra emergere a questa"longitudine" è un frammento di quella realtà (tralasciamo per il momento se complessa o meno), una parcella che possiamo meglio ascrivere ad una "semiosfera esperienziale", che però includa, perché no?, chi legge. Per capire meglio basta accostare i testi di autori - per fare qualche nome - come Bellomi e De Francesco, o Scarpa e Garrapa, o Porsia e Leonessa, o Tripodi e Riviello. Con le relative sfaccettature e con la cautela del caso, mi pare che lo sguardo, l'attenzione creativa siano orientati in due diverse direzioni, che all'inizio in sintesi avevo definito del "come" e del "cosa", ma che sono più propriamente prospettive, del linguaggio sul linguaggio e della lingua sulle cose. Che non sono necessariamente in contrasto, né, è ovvio, decisamente separabili (ammesso che debbano esserlo). Sono, nella migliore delle ipotesi, due campi di lavoro (ma non sempre entrambi di indagine). Il limite del linguaggio risiede in quello che dice: possiamo deformarlo alla ricerca di un senso aurale che confidiamo esista indipendentemente da noi e che sia di per sé in una qualche relazione con la realtà, ma credo che poi - senza farne una sovrastruttura - dobbiamo decidere in che direzione, verso quale indagine, su quali "oggetti" orientarlo, con tutta la "indisciplina" - per rovesciare un concetto foucaultiano - che compete all'arte. Poiché l'ultracontemporaneo, inteso come individuo oltre che come tangenza del presente, non può , al di là della sua definizione, che essere contenuto con quel reale complesso con cui anche come poeti dovremmo fare i conti. Come se fosse un enorme ipertesto. Io credo che la direzione sia quella. (g. cerrai)
[1]
Parlerei - più che di mappe o se preferite di antologie - di
campionamento, anzi proprio lo suggerisco ai prossimi curatori di
raccolte. Campionamento di molte cose, se volete
anche nel senso sonoro e/o musicale del termine, anche in ragione
di una sempre maggiore smarginalizzazione del fare poesia (ammesso
che un margine esista) in territori, come quello della poesia
orale, nei quali il testo si smaterializza e ri-materializza nella
voce e dove il sample, specie testuale, non è infrequente.
(diciamo anche che il testo perde un po' il suo statuto, non solo a
favore della voce ma anche del gesto - e non sempre la poesia ci
guadagna). In margine: fluidità della poesia, digeribilità della
poesia (ammesso che sia un passo avanti), contro rigidità del mezzo
testuale, per sua natura poco spettacolare. Ma l'esempio
che ho fatto non deve essere limitante, anzi è solo un aspetto, uno
tra molti, della questione.
[2] Definire lultracontemporaneo acquisterebbe maggior significato se indicasse anche una svolta, oltre che una semplice fotografia del (ultra)presente. E poi, ultrac. in relazione a cosa? Che poi un point de repère, un rapporto col tempo, se vogliamo uscire dalla riserva della (in)comprensione del reale, dovremmo pure avercelo. Lultracontemporaneo è destinato ad essere passabilmente [il] presente, per poi diventare semplicemente moderno, nella migliore delle ipotesi (e mi pare di essere daccordo con I. Testa, citato in prefazione). E tuttavia è molto utile, se aiuta almeno a comprendere il presente [l'attuale], l'aria che tira. E se l'analisi dell'ultrac. evita la secca di somigliare troppo a quei prodotti open source che vengono forniti "as-is", cioè come sono, senza alcuna garanzia o ipotesi di sviluppo (to-be). Ma è evidente che bisognerà ancorare l'analisi a qualcosa d'altro, che non sia legato al transeunte. Per esempio ai fenomeni che scuotono l'oggi, che come sappiamo in Italia non riescono a trovare gran spazio (preciso: non sto parlando della cosiddetta poesia civile).