Quantcast
Channel: Imperfetta Ellisse
Viewing all 375 articles
Browse latest View live

John Taylor - L'oscuro splendore

$
0
0

John Taylor - L'oscuro splendoreJohn Taylor - L'oscuro splendore - Mimesis Edizioni, collana Hebenon

Secondo libro di poesie, questo di John Taylor, tradotto in italiano dopo Gli Arazzi dell'Apocalisse, a parte il libro di prose brevi Se cade la notte (Joker Edizioni), tutti nella versione di Marco Morello. Bisogna ricordare brevemente, per chi non lo conoscesse, che John pur essendo nato negli States è uno scrittore molto europeo, non solo perché vive in Francia dal 1977 ma soprattutto perché ha con la cultura europea un rapporto strettissimo e profondo, che non è azzardato definire di vero amore. Traduttore di autori francesi o francofoni come Jaccottet, Dupin, Perros, Jourdan, Calaferte e altri, Taylor ha anche un forte interesse per la poesia italiana, che negli ultimi anni si è concretizzato in due eccellenti volumi antologici in inglese dedicati a Alfredo de Palchi ( Paradigm: New and selected poems, 2013 - v. ancheQUI ) e Lorenzo Calogero ( An Orchid shining in the Hand: Selected poems 1932-1960, 2015), entrambi Chelsea Editions. Da ricordare anche nella bibliografia di Taylor, sempre in riferimento al suo legame con la cultura europea, i suoi importanti lavori Paths to Contemporary French Literature, in tre volumi, e Into the Heart of European Poetry, tutti pubblicati da Transaction, oltre al più recente A Little Tour through European Poetry (2015).
Dunque come si vede John è davvero, sotto molti aspetti, uno scrittore europeo. E non solo per i suoi studi, ovviamente, o perché vive in Europa da lungo tempo, ma anche perchè quella cultura e quelle frequentazioni letterarie le ha accolte, quegli stimoli li ha fatti permeare nella sua scrittura creativa. Questa raccolta ne è una buona testimonianza, poiché mi pare vi si possa rilevare per prima cosa, almeno ad una prima lettura, una distanza dalla poesia contemporanea americana (per quanto essa sia una categoria troppo generica) non minore di quella che c'è tra le due sponde dell'Atlantico. Naturalmente questa affermazione va presa con una certa cautela, poiché John, al di là delle suggestioni culturali, elabora in questi versi una sua personale idea di poesia, una sua visione delle cose che certo trasmettono nei versi anche le sue origini ("frammenti di patria sbiadita") e i suoi studi, ma indubbiamente accoglie in pieno (poiché la ama) la lezione soprattutto dei suoi prediletti autori francesi. Una influenza che è sostanzialmente lirica e forse, sullo sfondo, simbolista, orientata a gettare sul suo personale mondo uno sguardo attento ma sufficientemente disilluso, che non guarda tanto gli "oggetti" quanto l'atmosfera, anche interiore, nella quale essi e l'autore sono immersi e si trovano ad esistere. Manca qui, tornando a quanto appena detto, quella"concretezza" anche un po' pragmatica che si ritrova in tanta poesia americana, quel confronto dell'uomo con la natura e l'ambiente, sia esso quello dei vasti spazi o quello urbano delle strade di New York (e tuttavia nelle "cose" - things - che qui troviamo c'è un pizzico di imagismo statunitense). L'uomo europeo, e con lui Taylor, guarda soprattutto dentro sé stesso, anche per tradizione filosofica e, per tradizione letteraria, almeno fin da Baudelaire e dai suoi eredi. In Taylor ci sono certo queste suggestioni e potremmo ritrovare anche molta della leggerezza malinconica e venata di ombre di Paul Verlaine, trasfusa in un linguaggio trasparente e aereo (talvolta un "verso scarno", come lo chiama Marco Morello) che ben trasmette inquietudini e interrogativi sospesi, alla ricerca di qualcosa che penetri l'"oscuro splendore". In questo ossimoro si cela il mistero stesso dell'esistenza di ciascuno, sempre esposta ad un imperscrutabile destino o al caso, al calare di una notte anche in pieno giorno, di una"luce striata di nero", che tuttavia, portando appunto in sé un arcano, non può che essere splendida per la mente del'uomo, e ineludibile per l'artista. Una dimensione crepuscolare (ma non nel senso letterario del termine, o non solo) in cui è presente la coscienza "che questo crepuscolo sarà oscurità / alla fine // un'assenza di luce // non questa mezza luce consolante / sopra la neve". C'è spesso nella poesia di John uno sguardo che tenta di penetrare l'incerto, trapassare una foschia reale o metaforica, andare oltre una marea che svela e nasconde fondali o scogli anch'essi simbolici, giungere fino a decifrare "iscrizioni / sul fondo del lago deserto" (Il fondo del lagoè la sezione principale del libro) che ha sommerso "qualcosa che era prezioso // i suoi bordi incerti smussati / dall'acqua". Come in un cerchio creativo, quell'"incerto" nebuloso (che è in ultima istanza ricerca di senso) che John cerca di diradare con i suoi versi, è lui stesso che lo tratteggia per mezzo di una scelta appropriata di termini "blurred", sfumati, deittici "vaghi" (qualcosa, talvolta, forse, tutto questo, come se solo allora) o interi versi ("eppure le onde // sono questo / e quello // e nessuno dei due // e uniche // anche se / vengono / e vanno"; "o semplice ombra // o miraggio // cosa si trova oltre // ma è difficile da guardare") che concorrono a dipingere questo"incerto" (vago, indefinito) e che, soprattutto a un lettore italiano, richiamano inevitabilmente certi stilemi, questi sì, del decadentismo, che tuttavia devono essere ricompresi in una matrice simbolista a cui tutta la poesia francese e europea attinge. C'è da dire che nella traduzione italiana questo senso di indeterminatezza viene in qualche minima misura accentuato, sia per una naturale scelta di termini legati alla cultura di chi traduce, sia - per fare un piccolissimo esempio - per l'eliminazione di elementi determinativi come gli articoli o i pronomi soggetto, in inglese sempre presenti. Ma, al di là di queste marginali considerazioni, la cosa importante è che il verso tayloriano derivante da tutto ciò è assai suggestivo, limpido, efficace nell'espressione e tutt'altro che incerto sui suoi obbiettivi, anzi perfettamente consapevole riguardo a ciò che intende dire a chi legge. Qualità che da un certo punto di vista risultano ancora più evidenti nei testi in prosa poetica, come John aveva già dimostrato ne Gli Arazzi dell'Apocalisse dove erano una gran parte, o nei frammenti (qui presenti nelle sezioni Il boschetto e Il recinto), brevi aforistici lampi illuminanti nei quali con grande piacere ho ritrovato echi e suggestioni di Pierre-Albert Jourdan, un grande autore a cui Taylor ha dedicato molto del suo lavoro ( The Straw Sandals: Selected Prose and Poetry - Chelsea Editions, 2011). Testi nei quali, potremmo dire per concludere, John trova unaintensa rarefazione. (g. cerrai)


Continua a leggere "John Taylor - L'oscuro splendore"

Gabriele Galloni - In che luce cadranno, nota di G.D.V.

$
0
0


Gabriele Galloni corre da sologabriele galloni - in che luce cadranno

Metto le mani avanti. Non sono giovane e non sono poeta, benché qualche mio verso sia stato tempo addietro (tanto!) fortuitamente accolto in riviste come Nuovi Argomenti o Paragone – e chi si ricorda la gloriosa Il cavallo di Troia?

Non sono dunque poeta, ma appassionato lettore indubbiamente sì. E ancora oggi, tra acciacchi di ogni tipo, mi avventuro quotidianamente nella giungla delle nuove pubblicazioni poetiche. Prediligo i giovani, perché di leggere i quarantenni o i miei coetanei poco mi frega.

Leggo i giovani perché cerco, leggendoli, di provare ancora un poco l'invidia che a vent'anni mi spingeva a voler superare tutto e tutti.

Io non ci sono riuscito mai. Gabriele Galloni sì.

In che luce cadranno (RPlibri, 2018)è stato, dapprincipio, il consiglio svagato di una cara amica poeta. Poi, a lettura ultimata, il libro che ha ridefinito per me il concetto di Sacro. E non esagero: per giorni ho meditato sulla musica di Galloni come qualcun altro avrebbe potuto meditare sul Libro dei Salmi o sul Talmud. Meditazioni circolari, da sbronza apollinea più che dionisiaca.

Possibile, mi sono detto, che un ventiduenne, un millennial come si dice oggi, sia stato in grado di sondare queste profondità? E chi gli ha permesso di portare con sé questi detriti di lune sconosciute? A quali e quante divinità ctonie ha chiesto udienza?

Invidio profondamente Galloni, non lo nascondo. Molto ho rimesso in discussione con il suo libriccino. Ho pensato che una qualunque Verità ultraterrena, su noi e sui nostri predecessori, l'avesse colta ed espressa meglio lui in quaranta brevi poesie che migliaia di filosofi pensatori e teologi in tomi e tomi d'angoscia. Ma un poeta non è portatore di Verità – e sono certo che a Galloni dispiacerebbe questo mio volo pindarico; forse ne riderebbe.

La cosmogonia galloniana non ha universi altri di riferimento. Immagino quante salme, sue e solamente sue, lo abitino giorno e notte. I suoi amati corpi che, ritornati alle cellule, rinascono nella luce abbagliante di un verso perfetto, di un fulmen in clausola che tutto ribalta come nel gioco dei dadi, nello scherzo tragico di un baro caravaggesco.

In che luce cadranno parte dall'epigramma (sfiorando sovente la narrazione), attraversa l'idillio e approda a un obliquo teatro della coscienza. Su tutto il libro, inestinguibile, quella che Baeumker teorizzò come Metafisica della Luce. Non mi sovvengono paragoni contemporanei con il lavoro di Galloni. Forse i suoi parenti più prossimi sono i lirici greci da bambini; forse certi mistici medievali le cui opere non sono mai giunte a noi.

Un libro importante, In che luce cadranno. Tra i più rilevanti di questi ultimi anni e della sua generazione. Poi staremo a vedere. Per ora, la poesia italiana ricomincia anche da qui. (Giovanni D.V.)


***


I morti tentano di consolarci

ma il loro tentativo è incomprensibile:

sono i lapsus, gli inciampi, l'indicibile

della conversazione. Sanno amarci

con una mano – e l'altra all'Invisibile.


***


Si parlava dei morti. Sulla tavola

i resti sparsi della cena – quelle

bistecche appena cotte. Il frigorifero

in segreto colloquio con le stelle.


***


Così un giorno, per caso,

i morti costruirono

il primo cimitero sotto il mare.

Se ne dimenticarono

in un tuffo soltanto.


Gabriele Galloniè nato a Roma nel 1995. Studia Lettere Moderne all'Università La Sapienza. Ha pubblicato Slitta­menti (Augh Edizioni, Viterbo 2017) con una nota di Anto­nio Veneziani.



Alessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specie

$
0
0


Alessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specieAlessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specie - Edizioni Pietre Vive, 2016 - Illustrazioni di Giovanni Munari

Ogni tanto si parla di poesia civile, che non è una cosa che amo particolarmente, perché secondo me è una non categoria, perché spesso semmai è un concetto che tende ad giustificare un approccio retorico non all'altezza della materia che tratta, perché come sviluppo delle tematiche tende altrettanto spesso a prendere un andamento stilistico tra l'epico e l'elegiaco un po' da ballata. Ciò non toglie tuttavia che ci possa essere una tensione verso una scrittura politica, oppure "sociale", nella quale l'autore si fa portavoce di problemi o tensioni di cui può anche non essere protagonista diretto, ma magari spettatore sensibile, e comunque informato dei fatti. Insomma, in parole povere, la poesia civile, come la scrittura sociale a cui questo libro si riferisce, non è una cosa facile da fare, soprattutto senza rinnovarla un po', come linguaggio e forse, perché no, come prospettiva ideale e politica (nonchè umanista) dello stesso scrivere, al di là dei temi specifici. (Rimando volentieri a questo proposito a un autore che ha punti in comune e differenze con Silva, Fabio Orecchini - v. QUI )
L'adatto vocabolario di ogni specie , tra l'altro opera prima di Alessandro Silva, parmense, classe 1976, prende in esame un tema del tutto particolare, tentando di farne un poema: si tratta dell'Ilva di Taranto e di ciò che vi ruota intorno, drammi, dolori, lavoro duro, malattia, morte. Un tema, per dirla tutta, quanto mai ambizioso, e certo coraggioso, tanto più se lo si vuole rendere in poesia. Silva chiarisce subito i termini per così dire cronachistici della vicenda, e lo fa per sommi capi nelle prime pagine in prosa, una forma di giornalismo poetico dei fatti dal 1980 al 2014 circa, che illumina lo sfondo su cui si muovono gli attori della successiva parte in versi del libro, che è la sostanza del lavoro. Di corredo le belle tavole di Giovanni Munari, che fungono un po' da storyboard, tendendo, nell'intenzione degli autori, verso la graphic novel (mentre la Light Poetry, citata nel risvolto, mi pare che sia un'altra cosa). A parte queste considerazioni marginali, il valore del libro (ma di opere in genere mosse da una spinta di tipo etico) sta nella capacità, ove si verifica, di universalizzare la narrazione e il dramma che descrive, renderlo dolorosamente umano senza tuttavia - diciamo - omologarlo, mantenendolo cioè unico ed eminente, quindi esemplare, nel vero senso della parola. La sorte di Marcello (un operaio morto sul lavoro) è sua ma è di tutti e viceversa, ed è appunto qualcosa di destinale a cui chi legge per una serie fortunata di circostanze (il qui, l'ora ecc.) è sfuggito, senza però poter sfuggire ad una coscienza a cui è richiamato, ad una intima consapevolezza.
Silva ci riesce in varie occasioni, usando bene registri diversi che si danno la voce all'interno di una struttura in versi sciolti privi di metro e spezzati a volte bruscamente, e quindi sostanzialmente narrativa ma divisa in episodi brevi (i testi in genere non vanno oltre la pagina), con tratti discorsivi che qualcuno ha accostato a Pavese, ma senza il suo ipermetro di derivazione anglosassone. Registri e tonalità che spesso e saggiamente fanno ricorso al pedale emozionale e affettivo, sostenuto da un tono complessivo tra il lirico e l'elegiaco, ma sempre evitando qualsiasi accento retorico. Non so se la materia che Silva si è scelto derivi o meno da una esperienza diretta, ma certo tutto il lavoro trasmette un impegno (anche di studio, immagino) e una notevole sensibilità. E c'è anche, in più di un testo, un interessante io/personaggio, c'è un io che però è del tutto narrativo, o immaginativo se preferite (questo sì pavesiano), cioè "altro" da quello dell'autore, e perciò finalizzato ad allargare il cerchio di vicinanza empatica verso le vicende descritte. Che naturalmente non sono solo quelle dell'individuo di fronte al lavoro, alla sua durezza e al tragico che nel lavoro pesante è connaturato, ma anche al peso che il lavoro stesso ha, la presa che ha e che non molla, sulla vita al fi fuori della fabbrica, sugli affetti, su chi sta accanto. Sono forse le cose che più hanno luce in questo libro, che più esprimono una vena intimamente lirica che dà forza epica alla storia, che forse soffrono meno, se mai ce n'è, di qualche vaga traccia di didascalismo, o di qualche "distanza" là dove il linguaggio aderisce, volutamente credo, più al "vero" anche cronachistico che ad una trasfigurazione metaforica di esso, o simbolica di una situazione sociale più vasta, di un cancro più esteso; o che meno vanno alla consapevole ricerca del "poetico".
Direi, per chiudere questi appunti, che il libro/progetto, l'idea ambiziosa di cui parlavo all'inizio, di costruire  qualcosa di organico e strutturato attorno ad un tema forte, mi pare che sia approdato ad un esito maturo e interessante, una sorta di "poema della catastrofe", certamente con i suoi pregi e i suoi (pochi) difetti ma una poesia di cui si deve tener conto. Un esito che lascia aperte diverse aspettative riguardo a Silva e alle sue eventuali opere "seconde", spero altrettanto feconde e coraggiose. Staremo a vedere. (g.cerrai)



Continua a leggere "Alessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specie"

Europa in versi: il festival e alcuni testi degli ospiti

$
0
0


Dal 18 al 20 maggio prossimi si svolgerà a Villa Gallia a Como l' VIII edizione del Festival Internazionale di Poesia "Europa in versi", con il tema "La poesia e il viaggio". Il programma (v. il comunicato stampa completo QUI) comprende, oltre la premiazione dei vincitori del “Premio Internazionale di Poesia e narrativa Europa in versi” (giuria composta da Milo De Angelis, presidente, Roberto Galaverni, Laura Garavaglia, Mario Santagostini, Elisabetta Broli, Andrea Tavernati e Wolfango Testoni), anche un reading di  poeti provenienti da diversi paesi (Ion Deaconescu, Metin Cengiz, Dmytro Tchystiak, Claudio Pozzani, Francoise Roy, Massimo Daviddi, Gian Mario Villalta, Müsser Yeniay, Luciano Monti, Maddalena Lotter e Kabir Yusuf Abukar); e, per la prima volta al Festival, un poetry slam, coordinato da Dome Bulfaro, anch'esso con artisti di varia provenienza, i campioni nazionali di Usa (Regie Gibson), Francia (D' De Kabal), Sud Africa (Tania Haberland), Svezia (Olivia Bergdahl), Italia (Simone Savogin) e Spagna (Dani Orviz).
Come tutte le volte che mi è possibile pubblico per gli amici di IE  una discreta selezione di poesie dei partecipanti, ringraziando con l'occasione Laura Garavaglia, presidentessa del Festival e della Casa della Poesia di Como, e gli autori per la concessione dei testi.


I POETI DEL READING

Ion Deaconescu nasce nel 1947, è poeta, scrittore, romanziere, critico letterario e traduttore. Si è laureato alla Facoltà di Lettere dell'Università di Bucarest e alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Craiova. È docente presso la Facoltà di Scienze Sociali della stessa città. La sua poesia affronta spesso il tema dell’amore con toni lirici. Il suo sguardo si allarga anche a riflessioni sul senso della vita e sull’esistenza di Dio. È stato tradotto in moltissime lingue tra cui: francese, italiano, portoghese, serbo, macedone, inglese, turco, ungherese. Ha pubblicato oltre cinquanta volumi tra poesie, romanzi, critica letteraria e traduzioni, ottenendo numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, quali il premio Racin e il premio Trieste Poesia. È presidente dell’Accademia Internazionale “Mihai Eminescu” e direttore del Festival di poesia omonimo.

Esiste veramente

Lei c’è, esiste veramente…

Semplice come fuoco di stelle nel cielo d’estate

La senti invadere selvaggia

Sopra di te

Un’altra volta calma ti accarezza le guance

E le ferrite della fiducia

Dopo il cessato divertimento dei cacciatori

E la preda è dimenticata, quasi ignorata.

Lei c’è.

Esiste veramente,

Cambia il silenzio

E frana il ponte sul quale l’arcobaleno passa

Il cuore della voce palpita in un’incerta speranza

E grida lo stesso silenzio in una lingua

Degna, profonda.

Sulla trasparente pianura dei sogni

Lei e l’ombra hanno sbagliato la stagione

E il corpo nato dallo spazio.

Lei c’è. Esiste veramente.


All’improvviso

Le cose intorno

stavano invecchiando

senza una spiegazione.

I vocabolari stavano avvizzendo.

All’improvviso la freccia dei tuoi occhi

che mi trapassa e poi mi fa risorgere.

Era una sera un poco strana, confusa,

Troppi versi detti in piazza

in un paese di cui ho perso il nome.


Metin Cengiz nasce il 3 maggio 1953 a Göle/Kars (ora Ardahan), in Turchia. È poeta, editore e scrittore e, tra l’altro, membro del Sindacato degli Scrittori della Turchia. Dopo il golpe militare del 12 settembre 1980, è stato imprigionato per due anni perché dissidente. Durante gli anni di insegnamento della lingua francese nelle scuole di varie città turche, è stato mandato due volte in esilio e sospeso dal lavoro per le sue idee politiche. La sua poesia propone temi di grande attualità come le guerre in Medio Oriente, le contraddizioni di etnie e religioni, l’esistenza miserabile dei poveri nella società, l’ingiustizia e la compassione, la libertà e la sua perdita. I suoi versi sono un atto di pace, ma con una straordinaria potenza nella difesa della libertà, della giustizia e della fraternità. Oltre che per i suoi libri è famoso per i suoi articoli sulla poesia. È diventato uno dei pionieri del periodo poetico post 1980 in Turchia.

Gaza

Ieri ho visto la morte, era senza ali

Era nell’aria, pioveva

Qui, tu sei a Gaza dove si è accampata la morte

L’aria sembra lacerata da un coltello

Il sole è un urlo cieco

I suoi occhiali tacciono

Gli alberi sono cadaveri

I minareti non si slanciano verso il cielo ma verso il nulla

I bambini, bambini, bambini di Gaza

Strade, mercati, case piene di bambini

Gaza con le sue sagome di bambini è un gigante che combatte il nemico.

Bambini che cantano nel grembo della morte

Bambini silenziosi come santi, religiosi come musulmani

Aspettano che si plachi la voce delle pallottole

Riempiranno i campi

e abbracceranno le loro morti senza ricordare la fame

Vecchie donne con tuniche

Case, strade, sorvegliano la vita spalla a spalla

La pazienza è dipinta sui loro volti

Senza speranza, arrabbiati, tristi, vendicativi

Come un urlo che si leva al cielo

Come promesse

Stanno come una parte di cielo

Qui, sei a Gaza

La morte a Gaza è come un gioco da bambini

È come mangiare pane e olive a colazione

È come l’amore dei giovani

La morte a Gaza è come una statua di bronzo

A cui guardano tutte le finestre

La morte lavora come la mente di Gaza

Qui, tu sei a Gaza

In fiamme

Dove la morte ha ingoiato la lingua

Gaza è come un palloncino esploso

Cosa possono fare i poeti Arabi

le canzoni puzzano di bruciato in Galilea

Gaza è un limone giallo in mezzo al deserto

Da un lato, è spremuto da mani invisibili

Con una pressa d’acciaio

Dall’altro, stanno i nemici

Come una nuvola di morte

Gli occhi di Gaza si sono asciugati per il pianto

Così ora da Gaza esce il cadavere di Dio.


Dmytro Tchystiak ucraino, trentenne, è poeta, scrittore di racconti, critico letterario e traduttore, accademico e giornalista. La sua poesia è caratterizzata da una vena surrealista che coinvolge il lettore in una dimensione onirica, dove l’inconscio affiora con immagini di forte impatto emotivo. È professore alla National Taras Shevchenko Kyiv University, PhD, editore presso le case editrici ucraine “Raduga” e “Summit-Knyga” e lettore di alcuni editori francesi e belgi. Ha pubblicato quarantacinque libri, che gli hanno portato alcuni premi nazionali e internazionali in Ucraina, Francia, Belgio, Germania, Grecia e Romania. Ha tradotto molti scrittori slavi e francofoni in ucraino e circa cinquanta scrittori in francese. È membro dell'Accademia Europea delle Scienze, delle Arti e delle Lettere (Parigi) e membro corrispondente dell'Accademia delle Scienze dell’Istruzione Superiore dell'Ucraina.

Fiori

Ecco l'alba nel riflesso delle magnolie

tremante ti elevi nello spazio

ti alzi dal letto, dove siamo annegati

nel diluvio morboso (con questo dolore bianco,

e il grido rosso del viburno che trafigge i giovani,

i notturni), anzi non ti alzi,

fluttui come questo suono di clarinetto

così alto che la nota raggiunge la morte,

e al di là gli uccelli si svegliano e rispondono

e si direbbe che una mossa sia sufficiente

per esempio, aprire la finestra e tremare

oltre questo taglio di luce

per creare

l’alba!

Acacia

Camminavi sui fiori d’acacia

Senza sentire le voci della notte di primavera

Le mani incendiavano l’orizzonte

Passi tra i fiori d’acacia

e risuoni di notte e di maggio

il fuoco ha preso la tua voce per agitare una candela

Il vento è calato, canta solo

Un usignolo insoddisfatto

Le mani bianche tendono alla luna piena

E I fiori d’acacia fluttuano dolcemente tra le stelle.


Claudio Pozzani nasce a Genova nel 1961, è poeta, narratore e musicista; è apprezzato in Italia e all’estero per le sue performance poetiche nei più importanti festival letterari e nei Saloni del Libro. La sua è una poesia performativa e teatrale, dove emergono i temi dell’amore, della ricerca della propria identità, in un continuo fluire tra dimensione del sogno e della realtà. Nel 1983 fonda il Circolo dei Viaggiatori nel Tempo (CVT), un’associazione culturale che si occupa di arte, poesia e letteratura. Tra le tante iniziative promosse, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole spalancate”. Nel 2001 crea la Casa Internazionale di Poesia sita a Palazzo Ducale a Genova. Il suo CD di poesia e musica “La marcia dell'ombra” è rimasto per oltre due mesi nella top 20 di preferenza delle radio indipendenti italiane. Ha pubblicato inoltre il volume “Spalancati spazi – Poesie 1995-2016” per Passigli Editore e le sue poesie sono tradotte e pubblicate in oltre dieci paesi.

La marcia dell’ombra

Stanno cadendo corde dal cielo
e gelide catene ti danzano attorno
È un mondo di nodi
da sciogliere al buio
tra un lampo e l’altro
di fosforo e grida
È un groviglio di corde
che rifiutano forbici
E un pettine che s’incastra
dentro chiome che non pensano

È ombra... ombra
È un battito di ciglia ancora

Mi guardo attorno e vedo muri
persino il mio specchio è diventato un muro
sui tuoi seni è cresciuta una pelle di muro
il mio cuore, i miei sensi reincarnati in muri
E continuano a piovere preghiere e bestemmie
che evaporano appena toccan la sabbia
e continuano a strisciare in un silenzio velenoso
avverbi, aggettivi, parole senza suono

E ombra... ombra...
e un battito di ciglia ancora

Del sole vedo solo il suo riflesso
nelle pozze iridescenti di acqua piovana,
della luna indovino la presenza nel buio
dal lontano abbaiare dei cani legati
La mia pace non è la mancanza di guerra
La mia pace è l’assenza del concetto di guerra

Non ombra... ombra...
ma un battito di ciglia ancora

Sono

Sono l’apostolo lasciato fuori dall’Ultima Cena

Sono il garibaldino arrivato troppo tardi allo scoglio di Quarto

Sono il Messia di una religione in cui nessuno crede

        Io sono l’escluso, l’outsider, il maledetto che non cede

Sono il protagonista che muore nella prima pagina

Sono il gatto guercio che nessuna vecchia vuol carezzare

Sono la bestia idrofoba che morde la mano tesa per pietà

        Io sono l’escluso, l’outsider, il maledetto senza età

Sono l’onda anomala che porta via asciugamani e radioline

Sono il malinteso che fa litigare

Sono il diavolo che ha schivato il calamaio di Lutero

Sono la pellicola che si strappa sul più bello

        Io sono l’escluso, l’outsider, un chiodo nel cervello

Sono la pallina del flipper che cade un punto prima del record

Sono l’autorete all’ultimo secondo

Sono il bimbo che ghigna contro le sberle della madre

Sono la paura dell’erba che sta per essere falciata

Io sono l’escluso, l’outsider, questa pagina strappata

Francoise Roy nasce a Saint-Hyacinthe, Quebec, Canada, nel 1959. È poetessa, traduttrice, scrittrice, geografa e fotografa. Bilingue. Cresciuta in francese ma istruita letterariamente in spagnolo, Francoise Roy ha il tocco lieve e preciso di chi sente la precarietà dell'esistenza e, scrivendo, osserva con partecipazione gli impercettibili cambiamenti del quotidiano. Ha vinto numerosi premi a livello internazionale. Ha tradotto più di sessanta libri, pubblicato tre romanzi, due libri di racconti, tre plaquette e quattordici libri di poesie. È stata invitata a molti Festival di poesia in tutto il mondo.

Mamma, tanto dura, e la frutta

We have lived too close for love […]. [She] has grown to be my shadow.

Do our shadows love us, for all that they are never parted from us?

J.M. Coetzee (Foe)

1. Spaghetti le mie ossa, sotto le pietre levigate,

il canto rotolato dei tuoi quattromila occhi.

2. Il mio cuore di origami, piegato nell'istmo delle tue

fauci: marmorea carta, e sempre, da sempre tuo.

3. Cammello nel deserto, annuso la vicinanza di un

ristagno di acqua: mai un luogo del tuo affetto.

4. Il tuo coltello brilla nella notte dell'occhio: filo di luna

nuova, perfetta iperbole delle tue pupille.

5. Rimenbranza di me, perla viva nel suo astuccio di

calcio: quell’organo tuo, cristallizzato corpo dentro.

6. Palpavi il mio cuore, avocado nel tuo campionario.

Meraviglia di frutte fantastiche: una mela magica,

rossa e senza picciolo, dove occultare le mie arterie.

7. La tua bara, madre, con una pietra dentro, sola, dura,

quando la tua carne intorno si sarà dissolta.

Le labbra

Due lune di carne rosa tra ultimo quarto e luna

nuova, unite da quella strana parola, "commessura", piccola

cucitura di un solo punto per imbastirle al viso.

Tremanti orchidee del corpo, pelle scamosciata del petalo, orlo

delle parole, sì, ma estranee al loro picchiettio sonoro, al loro

torchio, al loro velluto, al loro acido muriatico, ai loro coloriti

sciami di note.

Il loro unico compito è il bacio. Quello di Giuda, quello dell'addio, quello

del cuore che sotterrato nella sua gabbia di costole – fidanzato

di Afrodite –, sogna di sentire i loro bianchi sacramenti.

Forse Dio aprì di taglio all'uomo muto quella ferita

nel viso, dicendogli: “Parla!”.

Addendum:Sebbene possano essere descritte come la porta d’accesso dell’apparato digestivo, l’apertura della bocca, o si possa dire di esse che sono una membrana retrattile di pelle e muscoli, le labbra hanno prima di tutto una funzione seduttiva. L’azione più connotata delle labbra, dare un bacio, è un simbolo del dono di sé sul piano spirituale, riconciliazione, tenerezza, amore o venerazione (da qui l’abitudine di baciare i piedi, le reliquie e i vesiti dei santi). Le labbra simbolizzano anche il parlare e il silenzio, sebbene la fonazione non si generi lì, ma molto più in basso, e dentro il corpo.


Massimo Daviddi nasce a Firenze nel 1954, trascorre parte della sua vita tra Milano e Luino: da diversi anni risiede a Mendrisio, Cantone Ticino. Per Massimo Daviddi la poesia è «quanto di più inutile esista, ma un’inutilità preziosa perché costringe l’uomo ad aderire al mondo». La città, con i suoi itinerari e le sue scoperte, diventa motivo di confronto tra le cose abituali e l’uomo. La prima raccolta che pubblica nel 2000 è: “Zoo Persone”. Grazie a “L’oblio sotto la pianta” del 2005, è stato finalista al premio Viareggio Rèpaci. Testi inediti sono pubblicati nell’“Almanacco dello Specchio” del 2007. Con “Il silenzio degli operai”, edizioni La Vita Felice, gli è stato assegnato il premio Federale di letteratura. Ha partecipato al Festival Internazionale della Poesia di San Benedetto del Tronto e a quello di Genova. Ha tenuto letture a Milano, Roma, Heidelberg, Ginevra. Il suo ultimo lavoro pubblicato nel 2017 è “Madre Assenza”.

Oltre la ramina

I

Bisognerebbe ascoltarli mentre vanno indietro uno dopo

l’altro a due passi dal confine, le ruote vicino alle pompe

di benzina, ai rilievi della montagna, migliaia di auto con

il profilo rovesciato dove il pensiero per sua natura torna

alle origini, si fa passato; seguirli è utile, là le prime case,

immagini devote, pietre e gradini su un piccolo giardino,

avventori al bar. Sapresti anche tu di più di te, conosceresti

il senso dello stare in fila, a macchia di leopardo senza nome.

II

Non abbiamo speranza, non conosciamo quale odore

spinga i cinghiali oltre la ramina, dove vanno esuli a mangiare

le bacche e come dicono molti a distruggere, non sappiamo

perché il carosello di branchi uniti dal desiderio venga vicino

alle nostre case, esca e scavalchi venendoci incontro, saltellando;

quale sia la pressione del sangue, le loro aurore, quale sia la violenza

vera, come dirla.

III

Le linee del campo di calcio sono state la nostra esistenza,

ho iniziato a Milano su un cortile fino a Pianazzo, segreto

tra le frontiere. Non si contavano le decine di maglie,

l’idea di tornare a casa che dava la vittoria e a Palone

grembiuli, fili di ferro, la terra e la notte.


Gian Mario Villalta è professore di liceo, saggista e narratore. La poesia di Gian Mario Villalta indaga il reale in modo guardingo, come se qualcosa stesse per venire a mancare, o fosse appena venuto a mancare, ma forse nessuno se ne è accorto. Il grande protagonista è soprattutto il tempo, un presente sospeso tra passato irrinunciabile – pur senza deliquio nostalgico – e futuro enigmatico. Il suo ultimo romanzo si intitola “Scuola di Felicità” (Mondadori, 2015). Da molti anni segue il panorama poetico italiano e dedica particolare attenzione all'opera di Andrea Zanzotto, collaborando al Meridiano Mondadori e curando l'Oscar degli scritti letterari. Inoltre scrive poesia e vince il Premio Viareggio 2011 con “Vanità della mente” (Mondadori). Il libro di poesia più recente è “Telepatia” (Lietocollle, 2016). È direttore artistico di “Pordenone legge: festa del libro con gli autori”.

Quando ero ragazzo, alla fattoria, dopo il ponte,

gli animali nella stalla, dentro il pollaio e il cane

alla catena tutta la notte intrecciavano i fremiti

sottopelle, i fiati, i sussurri al mio respiro,

fino a quando mi univo sommerso nell’onda

del loro sonno o quando un grido

avvertiva che altri animali, selvatici,

la donnola o il gufo, erano entrati nei nostri sogni.

Poi l'abbaiare, i tonfi, le imposte aperte

sul freddo. Il padre: “Inutile, a quest’ora,

tornare a dormire”. Il sonno invece avvolgeva

presto di nuovo me, i miei fratelli, gli animali,

e la casa e il fienile e il pollaio si incurvavano lievi,

lievitando verso l’alone della luna.

Ancora un minuto, un minuto.

Mi riconosce una fuga di echi.

La proroga tra l'essere

chiunque e il diventare me stesso

dura l'incalcolabile.

***

Ho una sveglia che ha il suono ostile

dei vecchi telefoni grigi, quelli

di quando abitavo nel mio paese,

con le cifre nella rotella dentro i buchi.

Una roulette dove punto ogni giorno

lo stesso numero e il sei esce storto.

L’ho presa dai cinesi: spero confonda

L’oroscopo – vergine e topo, bilancia e drago –

e ogni volta che squilla sogno qualcuno

che solleva al posto mio l’apparecchio

e sa cosa rispondere.


Müesser Yeniay nasce a Izmir nel 1984. In Turchia vince molti premi letterari. I suoi versi, studiati e calibrati, sono permeati di femminilità e ribellione e tesi alla volontà di riaffermare la sua natura biologica e umana di donna, la riscoperta del significato autentico e della reale diversità tra uomo e donna. I suoi libri di poesia sono stati tradotti e pubblicati negli Stati Uniti, in Ungheria, Francia, India, Colombia, Spagna e Vietnam. Ha vissuto in America e a Hong Kong. Müesser è inoltre editrice della rivista Diirden. Al momento si occupa del PhD in turco alla Bilkent University di Ankara.

Conversazione continua con l’amato

Mi sono aperta a te

come i denti di

        una cerniera

uno per uno

mi sono spezzata

        a metà

quando mi hai toccata

ho visto la gloria

        della terra

[nelle tue mani

ci sono piccole

        fate volanti]

hai visto quel

dolce vuoto in me

il mio corpo come neve che si scioglie

        fuso con il tuo corpo.

Amore

Ho un altro corpo

fuori di me

lo chiamano

amore

(ma questo è dolore)

se ti ho tenuto nel mio corpo

solo dopo ho sentito

così tanto

        la tua esistenza



Continua a leggere "Europa in versi: il festival e alcuni testi degli ospiti"

Rodolfo Zucco - Bubuluz, nota di Gabriella Musetti

$
0
0


«Raccolta di trascrizioni» e aggregazione in forma di pastiche in molti casi, «centone di composRodolfo Zucco, Bubuluz, edizioni del verri, Milano 2017izioni precedenti di uno o più autori» (dal Dizionario enciclopedico della musica e dei musicisti UTET), così ci informa l'autore nella Nota a fine testo, citando un passo di Jolanda Insana sul «bisogno di fare e disfare», e mettendo a commento Raboni della “poesia che si fa”, Gli esercizi platonici di Pagliarani, i Palimpsestes di Genette, Zanzotto...

E in effetti questa raccolta, che si colloca dentro una tradizione antichissima, mette a punto alcune considerazioni specifiche sulle modalità del “fare poesia”:

- i rapporti di senso cambiano, ma reggono in altri modelli inediti e a volte imprevisti, scombinando e ricombinando il materiale verbale («si creano sbilanciamenti» osserva Insana a proposito di proprie esperienze simili);

- è un modo per «giocare con ciò che si trova in giro» (ancora Insana), quindi si pone attenzione alla disposizione a usare parole, oggetti, già in circolazione, comuni;

- più che esercizi di scrittura sono anche e forse soprattutto «esercizi di lettura», nel senso di lego (“leggere” e anche “scegliere”, “raccogliere”);

- questo disfare e fare ci riporta alla poesia come a «un piccolo o grande opificio» (Zanzotto).

La ricombinazione di significati ha tradizioni lunghe nel tempo e consolidate nel Novecento, soprattutto in ambito francese, svizzero, tedesco (Oulipo, dadaismo, parte delle Avanguardie) e angloamericano.

Nella raccolta di Rodolfo Zucco diventa materiale di creazione e di studio, esercizi di scrittura in cui si sperimentano multiformi possibilità di costruzioni linguistiche per indagare fin dove può arrivare la forza di aggregazione del linguaggio, la sua disponibilità plastica. E parimenti quali immersioni nei significati sono possibili, quali suggestioni si agganciano a una forma di scrittura non empatica, distaccata, tenuta insieme dalla misura delle parole, anche quando si tratti di linguaggio arcaico, specialistico, gergale, colloquiale, plurilinguistico. Le “restituzioni” ci offrono un testo sorvegliato, misurato, mai dirompente o eccessivo. Come se l'intento primo dell'autore fosse stato quello di mantenere un equilibrio interno, una proporzione nel dicibile, lavorando di scelta ponderata, di presa di misura negli accostamenti. Questo procedimento non diminuisce la creatività, ma libera la disposizione autonoma alla ricerca, senza eccessi o sovraccarichi derivanti da un surplus empatico.

Non sono giochetti fini a se stessi o al più legati a una sovraesposizione di narcisismo (anche involontario), o di ironia, di quella arrischiata sorpresa accattivante atta ad attrarre il lettore, una manipolazione piuttosto superficiale che riveli bizzarrie, metta in luce la facilità del processo di invenzione, di imitazione, come in tanti esercizi di scrittura contemporanei.

In questa raccolta l'esplorazione del linguaggio consente due direttrici di percorso: una verticale, che entra nei gangli del processo creativo, si cala nelle profondità del soggetto perché muove qualche lontana somiglianza o reminiscenza o faglia sospesa che tende a risuonare nuovamente; un'altra orizzontale, aperta e dinamica, che esplora le disposizioni della lingua, le sue innumerevoli possibilità di combinazione da cui scaturiscono nuovi o rinnovati sensi, tutti indagabili in altre esplorazioni.

E non perché il materiale usato appartenga spesso alla lingua antica o a registri specialistici o comuni, a forme desuete o burocratiche, alla letteratura, a dizionari, a copioni teatrali, a codici di legislazioni, a resoconti di viaggi, alla produzione saggistica, a didascalie; e si rincorrano, tra gli altri, i nomi di Dino Buzzati, Bruno Schulz, Stefano Malatesta, Konrad Lorenz, Carlo Goldoni, si affacci forse Elena Ferrante.

Neppure perché si mantenga graficamente una separazione (tondo e italico) nella scrittura a indicare intenzioni diverse e qualche volta si rimandi a un gioco alterno, uno spostamento inaspettato nella “posizione” e nell'ottica scrittoria. E neppure perché da spunti appena accennati nascano per interna germinazione delle osservazioni, riflessioni, suggerimenti che trascinano il senso a interrogarsi sul comune destino, sulla disponibilità umana alla esistenza consumata nelle sue innumerevoli forme: come, in quali modi storici e contemporanei, è data, si è manifestata.

E' una osservazione continua di frammenti, di particelle di realtà accostati per moltiplicarne il senso, per dare significazione di una complessità di sguardi, di scelte, di posizioni, di proprietà, di accidenti, tutti oggetto di trasformazioni, mutazioni.

E lo sguardo combinatorio dell'autore sorveglia e scava la materia vitale con la cura tenace dello studioso, con l'accudimento dell'amante. (gabriella musetti)



Continua a leggere "Rodolfo Zucco - Bubuluz, nota di Gabriella Musetti"

“Revolutija”, artisti russi tra avanguardia e rivoluzione - nota di Elisa Castagnoli

$
0
0


“Revolutija”, artisti russi tra avanguardia e rivoluzione ( al Mambo di bologna)

“Revolutija” dal titolo della mostra al Mambo di Bologna, è lo spirito rivoluzionario che travolge e scuote nell’anno tumultuoso del 1917 una Russia millenaria e zarista nello sguardo di artisti d’eccezione come Kandinsky, Malevich, Chagall, Tatlin, Replin ecc. E’ ancora il fervore culturale, lo spirito della modernità, l’anima dell’avanguardia nei suoi diversi movimenti che tra il 1910 e il 1920 rinnovano profondamente il volto dell’arte attraverso un’ondata di creatività che come una ventata violenta e travolgente precorre il rovesciamento politico del paese, lo esalta e lo condivide. Da un punto di vista artistico assistiamo al concepimento di “forme creative che maturano attraverso i decenni” e si inseriscono pur nella loro diversità in quel progetto di rinnovamento estetico radicale delle avanguardie europee. Politicamente, la rivoluzione è il centro nodale e l’apice di un pensiero nuovo, marxista e leninista di ispirazione che sfocerà nel rovesciamento dell’ordine stabilito, la fine di un mondo e l’inizio, brutale, incerto e imprevedibile di un altro per giungere più tardi alla sua involuzione totalitarista negli anni ‘30.


Nell’immagine d’apertura “Che vastità” (1905) di Il’ja Repin in maniera quasi surreale due giovani appaiono sospesi in un turbinio d’onde in mezzo all’oceano; si lasciano trasportare, il cappello di lei svolazzante trattenuto a da una mano contro le ondate tempestose e il vorticare dell’aria marina, lui euforico con le braccia aperte e il torace portato verso l’avanti come per accogliere o sfidare le forze incontenibili dei mari e dei venti. Inebriati, quasi sospesi contro il vasto scrosciare delle onde nel moto tumultuoso dell’oceano appaiono scivolare sulle acque visibilmente rapiti dall’entusiasmo per la ventata di nuova libertà. L’uragano spontaneo e travolgente come estasi ai sensi preannuncia un tempo nuovo, una scintilla accesa nell’oscurità, l’idea di un movimento sotterraneo se non emerso ancora , che come questi fiotti si approssima impossibile ad arrestare.



Repin, “17 ottobre 1905”

Volti vividi, realismo e passione, Repin coglie in questo grande affresco della classe liberare “il carnevale della rivoluzione russa pieno di follia, colori e beatitudine” mentre si festeggia l’alba di un nuovo secolo, agli albori di un moto del 1905 che sfocerà dodici anni più tardi nella rivoluzione d’ottobre. Una folla di volti di diverse età e provenienze, entusiasti e liberali, nobili o borghesi, studenti, operai e ufficiali cantano versi rivoluzionari in primo piano nell’affresco di una società in ebollizione che incarna euforicamente lo spirito del nuovo, irriverente e vitale alle porte. I volti nitidi ed esuberanti appaiono rapiti un una sorta di estasi collettiva di cui il fervore politico permea l’ area e aleggia tra le linee, dietro gli sguardi, ovunque tacito attraverso la scena.




Continua a leggere "“Revolutija”, artisti russi tra avanguardia e rivoluzione - nota di Elisa Castagnoli"

Luigi D'Alessio - Louis

$
0
0


Luigi D'Alessio - Louis - RPLibri 2017Luigi D'Alessio - Louis - RPLibri 2017

Chi è Louis e che cosa cerca? E' una battuta ma anche una domanda legittima, poiché Louis non è solo il titolo di questo libro (esordio promettente della collana Poesia di RPLibri), ma è soprattutto la presenza percussiva che si affaccia da ogni singolo testo di questo libro e ogni volta si presenta indirettamente come personaggio ("Louis una sera...") o viene presentato ("Louis mi disse..."). E una delle prime conseguenze per il lettore è che, essendo Louis sempre in scena, perde di importanza il prima e il dopo nella sequenza delle cose e dei testi medesimi, e non è un caso che come struttura questo libro non presenti alcuna ripartizione in sezioni. Se da una parte, paradossalmente, questo facilita le cose al lettore, libero da ogni sequenza, dall'altra sembra calare le evenienze, gli avvenimenti ecc. in un tempo indifferenziato nel quale gli eventi si manifestano come puri accidenti incastonati in quel tempo medesimo, dal quale peraltro sono impossibilitati a sfuggire. Accidenti che però "significano" e che, verso dopo verso, finiscono per costruire, per punti e linee, un quadro, un insieme organico, e quindi a tutti gli effetti un poema. Ed anche una storia, se si prendono in considerazione sia l'uso costante di tempi verbali al passato che determinano la "chiusura" e il sigillo degli eventi, sia il ricorso ad una brevità aforistica dei testi che non concede margini né repliche e che dà al tutto un'aria vagamente mitica. Così è, insomma, come una vita marcata non tanto da epifanie, ovvero rivelazioni o agnizioni, quanto da conferme, capisaldi, elaborazioni di evidenze guardate con occhio intellettualmente smagato e forse un po' autotelico (c'è dietro questa scrittura una cultura non indifferente e cosciente di sé che si esplica e si annota). La registrazione del passato tuttavia, poiché disposto in frammenti, non è necessariamente lineare, né impedisce, almeno come affascinante ipotesi, la riscrittura e forse la revisione della storia stessa.
Louis e Luigi sono la stessa persona? Sì e no, ovviamente. Da una parte c'è l'artificio di un non dichiarato eteronimo (in effetti non sappiamo davvero se e chi), dall'altra c'è la messa in gioco dell'immaginazione, senza la quale nessuna opera d'arte è data. Possiamo definire Louis un deuteragonista di un Luigi che passivamente ascolta o registra, ma è più probabile che sia uno stratagemma, un camouflage dell'io, un io forse antilirico e defilato e tuttavia abbastanza lontano dal "tu" impersonale e proiettato su una parete che si trova in tanta poesia nostrana, e questa distanza lo dota di una notevole originalità. Uno scambio tra personae che alla fine, a pensarci bene, risulta essere un io aumentato, un super io capace di scendere a maggiori profondità. E che non è, per stabilire un confine, un doppelgänger , un altro da sé di diversa polarità, il villain che dice cose che Luigi non direbbe, anche se Louis talvolta prende il sopravvento, una specie di superiorità intellettuale, di acribia ("Louis pronunciò quella parola / spiegando la differenza / tra maiuscolo e minuscolo. / Come fossi scemo scrisse Tempo e accanto tempo"). D'Alessio, che certo ha letto Borges (che vi si ritrova in certe circolarità labirintiche)  e anche Pessoa, deve aver ragionato sulla questione dell'eteronimo, ritenendola insoddisfacente ("Louis cercò lungamente / - ma Louis disse a lungo / un eteronomo. / Non lo trovò. / Louis si convinse di aver perso / una opzione della morte") e Valentino Fossati, nella post fazione, afferma che Louis "non è un alter ego in senso stretto...ed è limitante definirlo escamotage e finzione". Lasciamo la questione aperta, ma diciamo di inquadrare Louis almeno come deus ex machina, o macchina soltanto, inteso come macchina teatrale. Su un paio di cose direi di essere d'accordo con quanto dice Fossati più o meno esplicitamente: una riguarda il rapporto diciamo psicologico tra l'io che scrive (non necessariamente l'io/personaggio) e il personaggio Louis il quale permette di superare "il pudore dell'abbandonarsi, del rivelarsi, ma anche del proprio stesso (confessabile) narcisismo". E forse soprattutto, aggiungerei, di allargare il campo dell'immaginazione e della fantasia/fantasticheria (si vedano gli incontri/citazione di personaggi noti). L'altra annotazione riguarda un elemento anche per me interessante, ovvero una doppietà diegetica (una voce "dentro" e una voce "fuori", dislocazione di episodi, ecc.), e anche una struttura a flash o scene brevi di una certa somiglianza con il linguaggio per immagini cinematografico (Fossati a titolo di esempio cita opportunamente Tarkovskij), qui riferibile soprattutto a "frammenti di pensiero [che] sovrapponendosi, assemblandosi, diventano intercambiabili". Si tratta, tutto sommato, di un atto di semplificazione, di semplificazione della complessità, proprio a partire dal linguaggio, diretto, privo di fronzoli.
Ma di che cosa parla Louis? Diciamo che parla principalmente del suo essere al mondo, delle ragioni del suo essere al mondo, in altre parole di esistere, di una sua autonomia rispetto alle stesse ragioni della sua"invenzione". Attraverso il dialogo, peraltro molto sbilanciato a favore di Louis rispetto all'io che qualche volta si affaccia, Louis racconta a Luigi, a volta con toni surreali, i suoi pensieri, le sue considerazioni, i suoi incontri intellettuali, i suoi amori, le sue "fissazioni" ("Louis fotografava porte. / Più di una volta Louis / intraprendeva viaggi / per fotografare porte") che a loro volta generano nuclei di pensiero, "schegge" papiniane o aforismi peraltro spesso lasciati "aperti" in finali (o"inattese uscite") che sembrano saltare qualche step di senso rimandando a significati "altri" ("A Louis poi gli parlarono / dei neuroni specchio. Così / Louis si convinse / di poter amare pure senza Dio") o a tautologie che nascondono una fascinazione logica: "L'ultima volta che vidi Louis / fu l'ultima volta che ci vedemmo". Testi insomma che traggono molta della loro forza da brevità e sublimazione, condensazione e spostamento, e da una scrittura lieve e robusta insieme. In essi, e nella loro duplicità, si manifesta, si consuma e si esaurisce soprattutto una serrata schermaglia con l'esistenza e il suo epilogo, con la morte quasi mai nominata (se c'è somiglia a un indeterminato svanire, come quello di Louis alla fine del libro: "alla fine Louis alla fine / era come uno sperso Valéry"; "Louis alla fine ricordo mi disse / Louis non mi disse niente"). Il doppio, comunque lo si voglia definire, è anche la possibilità (potestà)  autoriale del sacrificio, un agnello Louis da condannare al silenzio al posto di Luigi.  (g. cerrai)


Continua a leggere "Luigi D'Alessio - Louis"

Joan Josep Barceló i Bauçà - Collegamenti covalenti

$
0
0


Joan Josep Barceló i Bauçà - Collegamenti covalenti - Aletti editore, 2017Joan Josep Barceló i Bauçà - Collegamenti covalenti

Joan Josep Barceló è un poeta catalano, anzi per la precisione maiorchino, che ha intensi e frequenti rapporti con l'Italia e la sua poesia. L'ho incontrato di recente a Bologna, dove era uno dei finalisti del Premio "Bologna in lettere" per l'opera inedita. Ho ascoltato le sue poesie in italiano, ho chiesto che le rileggesse nella loro versione originale, in catalano. Lo scopo era ottenere proprio quello che mi aspettavo, un senso/suono, una musica appunto"originale", cioè qualcosa che filtra in chi legge o ascolta ad un livello un po' più sub-limen, più vicino all'atto di creazione. La poesia è anche questo.
In questo libro, tradotto in italiano (anzi riscritto, non vi è testo a fronte) dallo stesso autore, ritrovo senso, suono e liricità di quelle poche poesie ascoltate. La conferma di uno stile, di una disposizione poetica che mi erano piaciuti, una poesia che sfuma le cose, le percezioni, le esperienze, le avvolge in una atmosfera vagamente surreale che le agita. Liriche soprattutto, sì, voci di un io molto presente però non particolarmente egotico, capace di muoversi abilmente tra altezze diverse, diciamo tra una terra tangibile, amorosa e sensuale, e quindi grata e vitale (una "esegesi terrosa che crea la vita"), e un cielo dove insieme collocare e da cui trarre la parte volatile, la dimensione extrareale dei nostri pensieri, forse delle nostre angosce o dubbi circa l'esistere. Come i legami covalenti a cui allude il titolo (una proprietà chimica, una sovrapposizione, anzi una comunione di atomi che annoda elementi) gli elementi materiali e immateriali (come ad es. lo sperma e l'aura sentimentale delle relazioni amorose) della poesia di Barceló si fondono, creano un diverso o più forte oggetto. Non è tanto da dove si muove, questa poesia, quanto dove giunge, dove si realizza - anche velocemente (i testi sono tutti relativamente brevi), anche semplicemente se si vuole - "l'artificio che gioca con l'aria". Mi pare che ci sia nella poesia di Barceló una fiducia sia nel potere evocativo del suo particolare linguaggio poetico, che per l'autore appare essere tanto più forte quanto più esso è sfumato, o - come si diceva - "semplice"; sia nel manifestarsi, con altrettanta immediatezza, dell'avvenimento poetico in ogni momento, come un fatto naturale su cui costruire il suo testo. Cioè per Barceló la poesia è ovunque e ovunque determinata, per quanto molto di essa ruoti intorno a un centro in cui l'io, poetico e autoriale, si colloca stabilmente. (g. cerrai)


Continua a leggere "Joan Josep Barceló i Bauçà - Collegamenti covalenti "

Jean-Pierre Duprey - Poesie

$
0
0


Jean-Pierre Duprey - Poesie
Alcune poesie di Jean-Pierre Duprey cometa del surrealismo che  è bruciata in fretta (suicida a 29  anni  nel 1959), di cui avevo già presentato qualche testo QUI(allo stesso indirizzo trovate una nota biografica ed altre indicazioni). Altre poesie da me tradotte troveranno collocazione in una prossima pubblicazione collettiva. 


Verità è falso

Le stelle hanno sorelle gemelle negli occhi delle lupe
Io, non ne ho di stelle
Il cielo è immobile nel mare

Io, non ne ho di mare
Io, io non ho un corpo ma cerco un velo
Per velare la mia apparenza di corpo
Cerco un velo impermeabile
Agli sguardi della verità

Perché non so mentire e temo troppo uno di questi giorni
Che la verità m'insegni che io soffro
Perché allora non avrei la faccia
Per dirmi che è tutta una bugia

(settembre 1946)


Canzone nel vento

Ho scoperto un gran sogno di ricordi
I fiori mi chiamano, i fiori hanno odor di donne
Gli occhi dei fiori si colorano di lacrime

Le viole1 vanno e vengono all'intorno

Il vento a tratti cambia di canzone
Il tempo a tratti cambia di mantello
Ancora i fiori parlano

E io ho casa in un angolo di cielo

Caduto malato proprio in mezzo ai fiori
In quella sera, così come la vita è infinita
Io faccio una passeggiata sulla luna

(1946.)


Amara

Al sorgere del sole piscia una bruma blu

Lui spelacchia un sole
E si taglia un cantuccio di giorno

Vuole accomodarsi in poltrona
Ma prima si suicida

Disperato di non avere quello che non ha
il poeta
il poeta

Mescola i suoi singhiozzi e chewing-gum
Si agita davanti ai grani di sangue
Che abitano il suo sparato

Volle rubare i perduti amori
E fumarli come mozziconi senza gusto

(1946.)


Corpo a corpo

La storia del mondo risale il vuoto
- Mentre qui tutto è segreto - al cielo più leggero
La sera cadeva melmosa come mescolata a piogge,
Ceppi di rumori mortali, campi di blu dormivano
Grigi di gelo e come se la vita
Si fosse coricata troppo pesante da sopportare
L'animale passò, diafano e senza appello.

Le nuvole forgiavano la battaglia del cielo,
Troppe croci, il freddo crepava il mare,
Nessuno sapeva per dove trapassare il ferro,
I corpi colpiti all'urto di corazze
La fine passava tra loro come una fitta,
Campane di sogno, campane di Dio attraversavano serrature,
Tutto si schiantò, il mare e la lotta insieme
Scivolarono attraverso la carne, troppo duro
Il vento lanciava frantumi di frasi mozze
La terrà s'apri essendo il male troppo grande
E sotto il fuoco crepò l'albero finale.

(novembre 1946)


da Premiers poèmes publiés et inédits (1945-1947)
(traduzione G. Cerrai - 2018)

1Les pensées ovviamente sono anche i pensieri, ma per un testo con molti fiori ho fatto una scelta un po' più surreale (ndt)


Continua a leggere "Jean-Pierre Duprey - Poesie"

Zhang Dalì, Meta-morphosis - Riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli

$
0
0


Zhang Dalì, Meta-morphosis (a Palazzo Fava a Bologna)

E’ una storia di metamorfosi, di transizioni e ri-creazioni quella che l’artista cinese contemporaneo Zhang Dalì racconta nella mostra attualmente in corso a Bologna a Palazzo Fava, una storia in cui il senso di cambiamento è pervasivo e a diversi livelli: politico ed economico nella Cina globalizzata d’oggi, urbanistico nelle demolizioni e rifacimenti massici della capitale, poetico nella capacità dell’artista di dare voce e corpo alla transizione del paese verso una nuova forma di capitalismo globale con tutti i traumi e contraddizioni che in esso si riflettono. Il “realismo estremo” di Dalì esprime per l’artista la necessità di guardare alla realtà d’oggi del suo popolo, del suo paese, e riflettere, esaminare, dare voce a una coscienza critica, nella frattura anche tra realtà e individuo perché, come egli afferma: “l’arte ha il dovere di esprimere il proprio scetticismo verso la brutalità che esiste nel mondo reale”.

“Penso che l’artista contemporaneo senza una presa di posizione netta non possa creare nessuna grande opera. Deve prendere una posizione che gli permetta di distinguere tra bene e male e dare un giudizio di valore. La creazione artistica incarna un’ideologia così come un’umanità. Se non c’è compassione, amore ma solo l’idea di arte come giullare di corte allora l’artista sarà uno snob e uno speculatore”[1] .

L’arte contemporanea in Cina dal suo punto di vista può solo essere un’arte di ribellione, perché senza tale presa di posizione sarà l’interesse a condurre il gioco o la pura logica del profitto. L’artista, secondo Dalì, è colui che riesce a dare una voce, una coscienza critica e espressiva a quello che sente manifestarsi intorno a sè nel mondo nella società, nella vita che lo circonda e al quale i molti non possono dare voce. Di qui, la necessità di comunicare, condividere con la maggior parte o dare visibilità al massimo grado attraverso la fotografia, l’installazione o i graffiti in modo da rendere palese una verità o una visione che viene dal profondo senza incorrere in una mistificazione del reale che conduce a in un’arte elitaria, complessa o distaccata dalle persone.

“AK-47”, auto-ritratto

Il mio volto è questo ritratto espanso e reso attraverso una miriade di punti, unità luminose, pixel quasi dell’immagine elettronica nella litografia stampata. Ricoperto dal marchio indelebile di un nome, logo di un’arma da fuoco e cancellato dalla medesima come dall’ evidenza esposta di una violenza innegabile per quanto celata, dissimulata in maniera sottile o resa invisibile nella società d’oggi. Tuttavia, anche, è uno sguardo che penetra e attraversa la fitta maglia di questa rete densa e occlusiva per vedere attraverso e giungere, incisivo come un obiettivo al punto focale dell’immagine, tale lo sguardo dell’artista sul reale.



Continua a leggere "Zhang Dalì, Meta-morphosis - Riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli"

Pietro Roversi - I pinguini dei tropici

$
0
0


Pietro Roversi - I pinguini dei tropici - Arcipelago Itaca, 2017Pietro Roversi - I pinguini dei tropici - Arcipelago Itaca, 2017

Un libro singolare, questa quarta raccolta di Pietro Roversi, che offre al lettore un'esperienza abbastanza inusuale. Che deriva innanzitutto da una visione delle cose e del mondo parecchio metaforizzata, traslata in una dimensione insieme altra e insieme "regolata", ovvero con un suo ordine accettabile, cioè in ultima analisi di una realtà quindi sopportabile. Voglio dire, intellettualmente sopportabile, una realtà su cui agiscono cultura, capacità espressiva, primazia del linguaggio, addomesticandola. Le cose (usiamo ancora questo termine generico su cui il prefatore Davide Castiglione ha detto in passato la sua) non sono solo quello che sono, ma anche e soprattutto quello che il linguaggio le fa diventare, relazionandole all'uomo che le osserva e ad altri significati. Naturalmente quando si parla di linguaggio si intendono messi in campo non unicamente i mezzi strutturali, sintattici etc., ma anche e di più tutti gli arnesi retorici e espressivi, a cominciare da una raffinata ironia che si affaccia molto spesso tra i versi. E alla quale concorre un uso anche estensivo di rime interne ed esterne e di un ritmo ben articolato ma a bella posta zoppo, dall'aria non di rado canzonatoria.
Il linguaggio stesso è metaforizzato (e non solo metaforico in senso stretto, non è quello l'importante), nel senso che non esprime tanto l'accostamento o la distanza con le cose, quanto - anche per via lessicale - la sua distanza da una visione ordinaria di esse, come se i fenomeni registrabili, i pensieri, i concetti o anche le impressioni fossero in larga misura oltre che descrivibili soprattutto riscrivibili, o latori, a saperle vedere, di altre e diverse informazioni. In questo senso opera anche una continua dislocazione semantica, con un uso fusion di linguaggi specializzati, scientifici o settoriali che porta con sé una diversa prospettiva, insieme per forza di cose a una irrinunciabile, ancora, traccia ironica. Va da sé che in questo operare c'è un rischio implicito, che consiste qualche volta in un "innamoramento" autotelico delle parole, del gioco a volte insistito di esse, a discapito - diciamo per semplificare - del contenuto.
Già il titolo, come è stato notato, è un ossimoro. Il che non vuol dire che non possa rientrare nel campo delle possibilità, o almeno, cosa più importante, dei desideri, anzi dell'immaginazione desiderante. Dire questo significa dire, tra le altre cose, che il poeta (Roversi come altri) ha il potere di riorganizzare il suo dettato come vuole, soprattutto in direzione del simbolo (cosa ci fa, ad esempio, come giusto si domanda Castiglione, ai tropici un uccello inetto al volo e adatto al freddo? sarà immagine, si suppone, di chi è costretto a migrare). La poesia di Roversi si nutre molto (e molto restituisce) di questi salti di potenziale e delle risposte implicite che offre al lettore disposto a vederle. Direi anzi che si istituisce in gran parte su questo tipo di spostamento tra non mediato e allegorico, tra reale e sur-reale. Si tratta anche, in relazione a quanto si diceva sul linguaggio, di cercare e superare certi limiti, una vena sperimentale che non riguarda quanto si intende con questo termine in letteratura, bensì un atteggiamento mentale e culturale (l'autore è ricercatore biologo) di messa in discussione dell'acquisito, provando e riprovando, per dirla con il motto dell'Accademia del Cimento. Per descrivere temi alti e bassi e anche, ma sì, filosofici: la vastità dello spazio, il tempo, l'inesplorato, certe dinamiche della società, il luogo comune, i rapporti sessuali o sentimentali o semplicemente il vivere, magari quotidiano, il proprio esistere (specie nella sezione che titola il libro). Cosa tutt'altro che semplice, ma Roversi ci mette una certa stoffa. Il tutto è scosso da una domanda semi-serissima e insieme disillusa/elusa: che cosa e come ci stiamo a fare qui, di certo noi, ma io personalmente? La risposta è spesso, specie per via di quel monotonale basso continuo satirico a cui allude anche Castiglione e che non sempre è diretto all'esterno: non prendiamoci troppo sul serio, perché forse non ne vale la pena. E come scrive Roversi: "Avrò pure diritto / allo sperpero, al mistero fitto fitto / del desiderio, mio bilanciere, sonno e pudore". Ma è proprio così?, si chiede chi legge. Paradossalmente, a volercelo trovare per forza, in questa poesia un senso del tragico c'è, sta lì. In questo cogente riso sardonico, in questa immanente puntuta vena epigrammatica, che forse nasconde un dolore. O forse lo sperpera, sperpera la materia stessa di cui questa poesia è (potrebbe essere) fatta. (g. cerrai)


Continua a leggere "Pietro Roversi - I pinguini dei tropici"

Sebastiano Aglieco - Infanzia resa, nota di Rita Pacilio

$
0
0


Sebastiano Aglieco - Infanzia resa - Il Leggio Libreria Editrice, 2018Sebastiano Aglieco - Infanzia resa - Il Leggio Libreria Editrice, 2018

Il bambino sviluppa da subito un legame affettivo con l’insegnante, il quale resta, comunque e da sempre, un punto di riferimento affettivo/comportamentale e di vicinanza. Il fattore di attaccamento (vedi teoria dell’attaccamento di Bowlby) garantisce al piccolo la sopravvivenza in un ambiente sociale in cui il bisogno di protezione è prioritario quanto la necessità di scaricare pulsioni e di alimentarsi. Nei primi scambi insegnante-bambino possono manifestarsi momenti di sconforto/conforto e segnali di richiesta di aiuto (contatto fisico, paura) esibiti dal bambino. Quindi, la relazione tra i due diventa struttura portante per la formazione cognitiva, psicologica ed emozionale del bambino, ma anche dell’adulto con cui tutti i giorni il piccolo viene in contatto. Infanzia resa, importante lavoro poetico di Sebastiano Aglieco, poeta e insegnante, non è un libro fiabesco, anzi. Ci troviamo di fronte a una struttura acquisita del conoscere la realtà semplice e affabile dei bambini in maniera civile e visionaria. Il libro è introdotto dalla prefazione dell’acuto Massimiliano Magnano e si conclude con una illuminante intervista curata da Vincenzo Di Maro. Sebastiano Aglieco, nella sua nota e nell’intervista, ha premura di accompagnarci nella lettura di alcuni testi e sezioni inserite nel libro (Collana Radici, Il Leggio Libreria Editrice, 2018 diretta da Gabriela Fantato); infatti, ci suggerisce, con tono pacato e naturale, di approfondire e soffermarci sui colori di alcuni passaggi a lui cari e mettendo a fuoco i piani universali della poesia, molto spesso persa nei labirinti superficiali della disattenzione. L’ambientazione è la scuola e i personaggi gli studenti: qui la poesia fa il suo ingresso come metodo di comunicazione, descrizione e azione autentica per identificarsi con il proprio e l’altrui animo. Un concreto nucleo di concentrazione del mondo come riferimento straordinario per esaltare immagini e pensiero: la tecnica espressiva del poeta ci educa al desiderio di indagare il vissuto sensoriale di ciascuno di noi, lettori/allievi, usando toni sacri dell’esperienza quotidiana al fine di evitare il rischio di allontanarci dalla vita. Aglieco imbastisce un canto delle origini di declinazione etica e umana in cui l’amore per la fedeltà al confronto assume sembianza analitica e incrocio/fusione di identità. Non è casuale incontrare il poeta bambino nell’adulto e l’adulto nel piccolo, una osmosi etica che riconsegna vita alla vita per osare la via diretta della verità. (rita pacilio)



Continua a leggere "Sebastiano Aglieco - Infanzia resa, nota di Rita Pacilio"

Alfonsina Storni - da Poemas de amor

$
0
0


Chi è Alfonsina Storni? Può essere solo qualcuno che incontri per caso, ialfonsina storni - poemas de amorn una biblioteca, come è successo a me. Una (per me) sconosciuta poetessa argentina, nata però nel Canton Ticino nel 1892, morta suicida a Buenos Aires nel 1938 perché ammalata di cancro, ragazza madre, donna sempre indipendente in quei non facili primi anni del Novecento. In realtà Alfonsina Storni è una figura centrale nella poesia latino americana non solo femminile, dove è in compagnia di nomi come Gabriela Mistral e Juana de Ibarbourou. E contemporaneamente è figura esemplare della lotta delle donne per la propria emancipazione, non solo nella chiusa e tradizionalista società argentina dell'epoca.

In quegli anni venti e trenta bonaerensi pieni di fermenti artistici (si pensi a Borges, a Victoria Ocampo, alla rivista Sur) Alfonsina Storni ebbe anche un notevole successo, soprattutto in virtù di uno stile diretto, forse anche un po' datato e comunque lontano dal modernismo che si stava affermando, ma capace di trasmettere emozioni vive, e di tematiche che potremmo definire prefemministe e orgogliosamente libertarie, in cui hanno spazio rilevante amore e eros, connotati però da una visione di essi non subalterna, non viziata da una collocazione tradizionale e secondaria della donna, non segnata da lirismi o romanticismi superflui, ma densamente emozionale e insieme consapevole. Una poesia a testa alta, vissuta, che per diversi aspetti mi ricorda la poesia confessionale americana di Sexton e Plath, ma percorsa da un sentimento di orgogliosa solitudine, in cui gli uomini non entrano a loro piacimento ma di volta in volta vengono accolti o respinti senza rimpianti o deliqui.

Poemas de amorè una raccolta abbastanza singolare per l'epoca in cui fu pubblicata, siamo nel 1926, composta unicamente di prose poetiche, di testi brevi e intensi nei quali l'amore viene cantato come da una certa distanza, con la malinconia che l'argomento richiede, con il contrasto piacere/dolore che rimanda alle espressioni più alte del tango porteño, ma senza lamentazioni, anzi con un certo senso di superiorità morale, di indipendenza nelle relazioni, di conscia maturità dei sentimenti (esemplare da questo punto di vista è la poesia che aggiungo in calce, Inganno, tratta dalla raccolta Ocra, del 1925) rispetto all'uomo.

Come scrive Beatriz Sarlo, l'autrice "pur ricorrendo alla retorica tardo-romantica, in definitiva ne contraddice l'ideologia esplicita. Alfonsina lavora con gli espedienti poetici che conosce, ma deformandone i contenuti ideologici". E aggiunge: "Alfonsina: una donna sola/una poetessa di successo. Questa combinazione, difficile nella Buenos Aires del secondo decennio del Novecento, si fa largo nel mondo letterario e nel pubblico. Ciò che si riconosce e si legge nella poesia di Alfonsina è la volontà di contraddire i destini sociali, esercitata in decisioni fondamentali della sua propria vita: essere una donna libera che a diciotto anni inizia una relazione con un uomo sposato, senza tramutarla in un'intollerabile situazione di licenziosità che avrebbe segnato per sempre la sua vita; decidere di avere un figlio senza padre, lavorare per mantenerlo in una grande città che non conosce, lottando per avvicinarsi a forme professionali del mestiere letterario; brandire questa serie di decisioni come un valore che la singolarizza ma che, al tempo stesso, può esemplarmente funzionare per altre donne; imporsi, con tutti questi obblighi morali e materiali, in uno spazio intellettuale dominato da uomini; farsi amica di costoro senza rinunciare alla propria indipendenza e alla libertà delle proprie scelte morali; scrivere una poesia chiaramente autobiografica e, di conseguenza, render pubbliche vicissitudini, gioie e sconfitte di relazioni considerate irregolari.
Alfonsina realizza tutto questo. Il suo impulso fondamentale è il rifiuto dell'ipocrisia e del discorso doppio come forma di relazione fra uomo e donna, con speciale attenzione alle questioni morali essenziali. Nella forma della sua poesia non riesce a rompere con le convenzioni letterarie, nemmeno con quelle più arcaiche rispetto al momento in cui scrive. Tuttavia Alfonsina rompe quando sceglie i suoi temi poetici e vi imprime una direzione apertamente autobiografica che non dissimula nemmeno ai suoi inizi. In questa costosa rottura ideologica si spiegano tutte le forze che investe nella sua poesia, per lo meno fino a metà degli anni trenta.
Alfonsina si procura un enorme consenso e, senza chinarsi a una morale convenzionale, schiude la possibilità sociale a diverse identità femminili. Contemporaneamente, lavorando con una retorica facile e conosciuta, fa in modo che questa morale diversa sia letta da un pubblico molto più ampio di quello dedito alle innovazioni avanguardistiche, da un pubblico che, in verità, oltrepassa i confini dell'ambito intellettuale. Non opera una duplice rottura, formale e ideologica, bensì una rottura semplice ma immediatamente comunicabile, esemplare e piena di successo".


Continua a leggere "Alfonsina Storni - da Poemas de amor"

Giuseppe Samperi - L'ora mora del giorno

$
0
0



Giuseppe Samperi - L'ora mora del giorno - Edizioni NovecentoGiuseppe Samperi - L'ora mora del giorno - Edizioni Novecento, 2018 (edizioninovecento.it)

E' uscito in questi giorni l'ultimo libro dell'amico Giuseppe Samperi, di cui ho  scritto la prefazione che pubblico qui. Trovate altri scritti di Samperi QUIe QUI.


LA MISURA DI UNA LUCE MERIDIANA E LEGGERA

Conosco Giuseppe da un po', anche se da lontano, come avviene in questi tempi digitali. Mi piace leggerlo, ne ho scritto altre volte. Mi pare di conoscere le sue inquietudini, il suo bisogno di scrivere, di fare poesia, un'arte - non è il solo a pensarlo - necessaria e inutile.    Credo che possiamo considerare quest'ultimo libro di Giuseppe Samperi come un compendio. un tirare le somme, ce ne sono indizi. Compendio di vita e di scrittura, entrambi terreni di una ricerca esistenziale della quale la prima è stata ed è materia, la seconda metafora e strumento, come il negro sèmen dell'Indovinello Veronese. Ricerca insoddisfatta, come sempre, tanto che la vita sembra a volte osservata alla lontana, come dalla porta di casa che dà su una via assolata, mentre la scrittura è perennemente a rischio di essere dismessa, o licenziata, come un aratro non affilato a sufficienza che finiremo per lasciare arrugginire. Nella poesia di Giuseppe le due cose sono sempre andate di pari passo, c'è sempre stato un occhio che osserva contemporaneamente le parole che si vanno tracciando sulla carta e la penna che le traccia, l'oggetto e lo strumento, basta vedere a titolo di esempio tutto l'“inchiostro” che viene evocato in parola e sostanza in un altro suo libro, Il miliardesimo maratoneta, 2011 (“Regalo questo inchiostro, / scolatura che rimane / dagli accurati strappi”). E gli strappi, inutile dirlo, sono dolorosi.
Proviene da questi versi, in effetti, l'immagine di un uomo che contempla un flusso, non necessariamente prendendovi parte attiva, a volte anzi come un Diogene che attende immobile una epifania, pur nel convincimento che qualsiasi rivelazione è giusto dietro l'angolo,  foss'anche quella del nulla (ma, chiosa Giuseppe, “Quale nulla? Eppure un dio / lo aspettiamo ancora. Io l’aspetto”). Osserva e annota, dalla posizione un po' decentrata di chi è certo che tutto si possa manifestare anche in universi microscopici che semplicemente accadono, e se ne possa trarre qualche insegnamento universale, ancorché dubitoso.
Sembrerebbe la posizione del flaneur, per dirla con Baudelaire, se non fosse che in questi versi si percepisce, anche quando non vi è descritta, un'aria insulare, niente affatto urbana, di una insularità certo piena di luce (una luce di cui non ci si sfama mai, dice l'autore) ma che è propria dell'anima (“isolano isolandomi d'inchiostro”, dice - ancora - altrove). E mi pare ci sia, in aggiunta, la consapevolezza dei limiti del luogo in cui fortuitamente si vive, ma anche delle sue risorse, dei  legami e delle radici (di cui il ricorso a inserti dialettali  è testimonianza), di un certo genius loci a cui Giuseppe appare essere devoto. C'è anche, mi pare di poterlo dire, un che di premoderno, quindi, che non è una questione stilistica (anzi la versificazione qui è contemporanea), ma riguarda semmai proprio questo sguardo da  una parte critico sul presente, dall'altra rivolto all'indietro,  ad una appartenenza, ad una identità inalienabile, come un ponte tra vecchio e nuovo, tra i vivi e i morti che Giuseppe vuole presidiare, anche quando appare  esserne oppresso. E anche ogni volta che si accende una voglia di fuga (“Persiste / la bramosia di un altrove, / l’alcova della gioventù istupidita”), forte quanto frustrata così tanto da ritorcersi spesso nella tentazione di smettere di scrivere, nella disillusione, espressa in diversi punti, che sia “vano. Assolutamente vano / questo scrivere”.
Da un'altra prospettiva c'è in questi versi, anche in ragione di quel che s'è detto, qualcosa di domestico (e di familiare per chi legge). Sia chiaro che non c'è niente di riduttivo in questa connotazione (basti pensare a quanto di domestico c'è nella grande poesia latina), è anzi un carattere proprio della poesia di Giuseppe, di un modo tutto suo di cogliere liricità e senso nelle più diverse situazioni. una poesia “domestica”, che esordisce, proprio nella prima poesia, “dal sofà di casa” dove giungono dall'esterno segni e suoni che “sfidano il dio che non parla”, o da altri punti di osservazione (o forse di sentinella) come il caffè abituale, “un’isola magnifica / che mi coccola tra i morti” mentre scorrono in sottofondo notizie di guerra dall'Oriente, il corpo disteso sulla sdraio sotto le nuvole. Niente di idilliaco tuttavia, c'è sempre sullo sfondo qualcosa di allarmato, si tratta di un ambiente tutt'altro che consolante, che sembra un prodromo di quella “balena che ci ingurgita tutti”, compreso il Giona-poeta che qui scrive ma che sembra serbare poche speranze di essere rigettato alla fine, come il profeta, su qualche lido. Ecco, a differenza di altri poeti, in questi versi non c'è un sentimento tragico o ossessivo dello scorrere del tempo, stante che il destino ineluttabile è già nelle cose, in ogni “istante che t'arriva vivido al cuore”. E del resto “Se la giornata è amabile – di buon colorito / il sole, veste fresca l’aria – / stanne certo che la fine è un bluff ”.
Inutile misurare il tempo, insomma, a queste latitudini, dove il tempo appartiene alla natura, e si misura semmai con la natura delle cose, come con quei sarmenti che “Divintaru vigna pampinusa / rracina e mustu e vinu / e ppoi lignami di furnu” (in Sarmenti scattiati, 1999). La misura è invece il peso. Non l'usurato generico peso  esistenziale, ma quello delle cose e soprattutto delle  azioni, o peggio ancora delle non azioni, il peso degli effetti che ne derivano. Non è un caso, credo, che Giuseppe titoli due delle sezioni del libro “sottopeso” e “sovrappeso” , due termini in apparenza mercantili. La vita come prodotto di una serie di atti, qualcosa che si dà o si riceve in eccesso o in difetto, e certamente si paga. E anche un peso reale, un pesocorpo, una soma che si riflette sull'animo (“ci alziamo ogni mattina / con tutta la carne che possiamo”), e insieme un “corpo in libera caduta, / solo quel corpo  libero / che salva”. E in qualche modo occorre cadere, poiché “In sovrappeso / è mendicante / chi non aggredisce il fondo”. una caduta leggera, della leggerezza che è tratto saliente di molti di questi versi.
Sembrerebbero elucubrazioni dalla provincia, da una estrema periferia percossa da una luce meridiana. Ma tutto il mondo è paese, come suol dirsi. Ecco che l'ultima sezione rappresenta come una precipitazione di questo libro, l'irruzione di eventi più drammatici in questo orizzonte placidamente inquieto. Il peso di cui abbiamo parlato qui si fa piombo.
Avevo già letto “Noncuranza” e l'avevo pubblicata sul blog “Imperfetta ellisse” con uno pseudonimo. Ora Samperi se ne fa carico pienamente come autore, assume su di sé il peso di una materia tragica e insieme impietosa affrontando, come scrissi, un tema penoso con parole crude, dicendo cose che forse si pensano, ammettiamolo, ma che non si dicono. Il tema è quello della madre, della sua vecchiezza, dello sfacelo del corpo e delle pene che comporta, della consunzione anche dell'identità, che vale qui (e chi ne ha fatto esperienza lo sa) come messa in crisi degli affetti, dell'etica a cui si è educati, delle risposte da dare, della responsabilità. E che vale nel contempo come realizzazione di una inevitabile inanità, come contemplazione della morte, una visione da cui si vorrebbe fuggire. La “noncuranza”, io credo, va intesa non unicamente come mancanza di cura, ma anche come rassegnata constatazione dell'inutilità di quella cura, quasi un accanimento per cui, dice Samperi, “meglio morire, vecchietta mia stanca, / meglio la morte alla noncuranza”. Questi due versi sono proprio all'inizio del testo che apre la sezione, e sono di certo forti, eppure vale la pena di osservare l'andamento a filastrocca di quella poesia - che non si ripete nelle successive - la musica che ne proviene e l'affettività dibattuta e contrastata che trasporta, come una ninnananna che accompagni un lento chiudersi degli occhi. Mi pare di intravedere insomma un compianto, che i testi successivi, pur nella loro cruda liricità, non riescono né vogliono nascondere. Un apice emotivo che si riscontra, al polo opposto, solo quando Giuseppe in una bellissima poesia parla alla figlia, che dovrebbe educare al mistero del “Rebus insolvente” che è la vita, senza illusioni, senza dare a bere “rosari e droghe mistiche”, senza nascondere l’ineluttabile, uguale per tutti, l’assoluta mancanza di senso, di “soluzioni” dell’esistenza.
Una visione laica, forse troppo laica per qualche lettore. Ma ha il grosso pregio di annientare qualsiasi tono elegiaco, ogni scivolamento crepuscolare. In questi versi non c'è nessuna preghiera sottesa, quindi nessun medium, nessuna mediazione, e il dio nominato è sempre un dio minuscolo, come è evidente (mentre, si noti, il Rebus è maiuscolo). C'è sempre in questi versi il tono di chi dice quel che deve dire, la trasparenza franca di quel trobar leu che Giuseppe cita altrove e che mi pare persegua sempre, perfino quando ricorre, in tutto o in parte, alla sua bella lingua siciliana, traforata come un merletto. La franchezza dello scettico che non ha bisogno né vuole ricorrere a un linguaggio ellittico, e che trova nella naturalezza della sua amata-odiata scrittura la sua migliore espressione. (g. cerrai)




Continua a leggere "Giuseppe Samperi - L'ora mora del giorno"

Ivano Mugnaini - La creta indocile

$
0
0


Ivano Mugnaini - La creta indocile - Oèdipus, 2018 Ivano Mugnaini - La creta indocile - Oèdipus, 2018

Avevo già cominciato a parlare brevemente di questo libro, o almeno di ciò che sarebbe diventato, quando Mugnaini mi mandò alcuni inediti che di questa raccolta avrebbero dovuto far parte (v. QUI ). Il titolo era in pratica definitivo, ed in stampa è stato confermato; mentre solo cinque delle quattordici poesie che avevo letto hanno trovato la loro collocazione definitiva. Non è più tempo di farne un discorso filologico, nell'era del digitale, della videoscrittura, di varianti disperse in qualche hard disk, ma qualcosa vorrà dire di certo. Quanto meno della cura e della disciplina con cui Ivano tratta la sua materia poetica, e con essa il discorso che vuole portare avanti. E di quanto sia fedele alla sua idea di fare poesia che tende innanzitutto a stabilire una continuità di stile e di tonalità che è parte integrante di quanto intende comunicare, in altre parole del suo "carattere", anzi - meglio - del carattere persuasivo della sua scrittura. Riguardo al quale confermo quanto scrissi riguardo sia a quanto avevo letto degli inediti sia al suo libro del 2010, Il tempo salvato, (v.QUI ). Che cioè consiste, il suo convincere placidamente, non solo nel trovare la parola ancora serena, come ricorda Ivan Fedeli nella postfazione, ovvero la continua ricerca di un livello comunicativo "medio" (ma non mediocre) con poco da parafrasare e quindi confortante per il lettore; ma anche nel riportare il suo mondo complessamente semplice all'interno di una cerchia per così dire "domestica", e quindi comune all'uomo, e perciò capace di creare un genius loci, un ambiente quasi esorcizzante il mondo stesso. Che è semplice e complesso nello stesso tempo, come si diceva, fatto di quella creta indocile dell'esistere che Ivano tenta di plasmare ad arte, in sé complessa, ma che si manifesta per fenomeni, oggetti, evenienze in sé semplici, linguisticamente decifrabili per quanto possibile, e tuttavia pregni di un'altra e diversa dimensione su cui il poeta è chiamato a riflettere, e da cui parte in riprese che a tratti mi rammentano Montale e altri ("Allora, felice di aver capito senza avere / compreso...", "Eppure non tutto è perfetto, c'è un brandello..."). Riflettere e sviluppare un pensiero pacatamente, partendo da una salda fiducia nelle scrittura e nelle radici anche culturali, stilistiche, robustamente novecentesche di essa (*); è questo il registro principale di Mugnaini, una osservazione anche dolorosa ma senza drammi (niente di esistenzialista) a cui il poeta fornisce una trama dialettica nella quale gli accadimenti, i sentimenti, lo scambio con la natura, la ricerca delle affettività trovano una giustificazione di senso, non solo loro ma anche di quel esserci dell'uomo. A questo si aggiunge un sentimento del tempo, generalmente inteso, quel tempo che già avevo chiamato "il non domesticabile per eccellenza", il tempo lineare in cui ogni momento, trascorrendo, diventa subito memoria e quindi identità del vissuto. Mugnaini è poeta che parla molto del tempo e - in un certo senso - fuori dal tempo si pone, in quelle parcelle di tempo "salvato" - che poi è la poesia stessa al suo meglio - che gli assicurano, come avevo scritto, "un'enclave psicologica e di ethos". Nella quale il mondo si affaccia ed è nello stesso tempo escluso, o almeno tenuto alla distanza, o forse non combattuto perché inutile farlo, perché "è muto l'alfabeto del mondo", perché tanto le cose che contano, ci dice Ivano, sono veramente poche ed essenziali, come ad esempio l'amore di cui scrive pur sapendo che "scrivere d'amore non è più possibile, non ora, / non qui" se son si affronta, di questo tempo/mondo, "il niente (...) che lasciamo trionfare, becero, sguaiato", e magari "la salvezza è nel riso rubato alla ragione", il mondo è esorcizzabile "lasciando che il sole / entri negli occhi e nella mente a petto nudo". C'è in Ivano spesso un richiamo a puri elementi naturali che lo riconnettono con la naturalità della vita, c'è un elemento spirituale, come avevo già detto, una pietas anche autoriferita che tende a superare, poeticamente, anche inevitabili contraddizioni, ad esempio tra il mondo muto e il mondo decifrabile che parla attraverso sprazzi di sole, visioni di donne, colori , incontri, oggetti o "cose" tuttavia non inanimati, che sono lì per "qualcosa". In molti sensi la realtà di Ivano è tutt'altro che complessa, e se c'è un dolore alla fine è quello basico, fondamentale e quindi "semplice" ma insidioso del pavesiano mestiere di vivere. Contro il quale Mugnaini non grida, ma sul quale medita, non escludendo niente in verità di quello che è concesso osservare, e quindi vivere con in fondo una certa gratitudine, come scrissi, verso la plastica indocilità di quella creta. (g. cerrai)

(*) Cultura non esibita, con quella certa timidezza che, conoscendolo, gli somiglia ma non lo condiziona. Un indizio: la mancanza di note al testo, pur essendo diversi i richiami. Una specie di ritrosia a mostrare cultura (ad es. un insospettato, insolito, Alfredo Giuliani dei Versi e non versi in Un'altra siepe di spine)



Continua a leggere "Ivano Mugnaini - La creta indocile"

Alfredo Giuliani - Alcune poesie

$
0
0


Riletture estive. Alfredo Giuliani, padre fondatore e successivo antologiAlfredo Giulianista/curatore del Gruppo 63 e delle sue memorie, curatore de I novissimi, poeta per il quale la sperimentazione non riguardava tanto il significante o l'oggetto/lingua quanto le trappole anche ironiche che la lingua è capace di tendere al suo utente, e alle sue strutture formali destinatarie necessariamente di messa in discussione, di svuotamento e ripopolamento di nuovi e diversi significati, come è evidente leggendo i suoi versi. Nei quali vi è una oscura chiarezza, una chiara sintassi in cui precipitano, colmandola, perturbanti diverse prospettive sul "poetico", su che cosa significhi fare poesia (o teatro, come il suo amato Jarry) e che cosa vi possa confluire a pieno titolo, senza essere pervasi, come ha notato qualcuno, dal demone dello sperimentalismo.
I testi sono tratti da "Versi e nonversi", Feltrinelli, collana Impronte, 1986


da Povera Juliet e altre poesie  (1952-1966)

Per la festa dei bambini allo zoo

È il più bel giorno di un burbero aprile
che ha portato gelide piogge
sotto i cappotti smunti
e agli alberi capitozzati ha dato
un sadico sfondo invernale.

Per la festa dei bambini allo zoo
c'erano tante automobili nel piazzale,
era venuto il vento di primavera
con tutto lo sciopero dei trasporti,
c'erano guardie inflessibili
ai divieti
di sosta e ai cani sciolti.

Per la festa han fatto pagare i bambini
e quadruplicato il prezzo.
Le solite foche avide e giocose
le solite scimmie
i soliti elefanti e guanachi
il solito leone sonnolento
sulle prode di cartone
                                  e tanti fotografi dilettanti.

Il Sindaco non c'era.
I burattini
                 e il resto dello spettacolo
non fecero né ridere né piangere,
sentimmo soltanto rotolare ancora un po'
la pietra della stupidità volgare.
Non passarono aeroplani sopra la nostra testa,
gli orsi non dettero il ballo.
Non ci fu nulla di gaio e di vitale.
Noi adulti conosciamo questa morte coloniale.
Il Sindaco, bambini, no.


Continua a leggere "Alfredo Giuliani - Alcune poesie"

Charles Baudelaire, poesie tradotte da Emilio Capaccio

$
0
0


L’immaginazione domina il regno del vero

e, all’interno di questo regno,

il possibile è solo una regione.

C. B.



Le vin des amantes

Aujourd’hui l’espace est splendide!

Sans mors, sans éperons, sans bride,

Partons à cheval sur le vin

Pour un ciel féèrique et divin!

Comme deux anges que torture

Une implacable calenture,

Dans le bleu cristal du matin

Suivons le mirage lointain!

Mollement balancés sur l’aile

Du tourbillon intelligent,

Dans un délire parallèle,

Ma soeur, côte à côte nageant,

Nous fuirons sans repos ni trêves

Vers le paradis de mes rêves!

Il vino degli amanti

Quest’oggi lo spazio è terso!

Senza briglie, né speroni, né morso,

partiamo a cavallo del vino

per un cielo fiabesco e divino.

Come due angeli che flagella

un’implacabile febbre gialla,

nel cristallo cerulo del mattino

seguiamo il miraggio da vicino!

Mollemente bilanciati sull’ala

del turbinio intelligente,

dentro una follia parallela,

sorella mia, a fianco a me natante,

fuggiremo senza tregua, né ritegni,

verso il paradiso dei miei sogni!



La fin de la journée

Sous une lumière blafarde

Court, danse et se tord sans raison

La Vie, impudente et criarde.

Aussi, sitôt qu’à l’horizon

La nuit voluptueuse monte,

Apaisant tout, même la faim,

Effaçant tout, même la honte,

Le Poète se dit: «Enfin!

Mon esprit, comme mes vertèbres,

Invoque ardemment le repos;

Le coeur plein de songes funèbres,

Je vais me coucher sur le dos

Et me rouler dans vos rideaux,

Ô rafraîchissantes ténèbres!»


La fine della giornata

Sotto una luce morente

corre, danza e si torce senza ragione

la Vita, chiassosa e impudente,

tal che appena il ciglione

della notte voluttuosa monta,

riposando tutto, anche la mente,

appagando tutto, anche l’onta,

il Poeta dice: «Finalmente!

lo spirito e le mie vertebre,

ardentemente implorano soccorso;

il cuore colmo di sogno funebre,

vado a stendermi sul dorso

e m’avvolgo nelle vostre latebre,

oh, rinfrescanti tenebre!»



Les aveugles

Contemple-les, mon âme; ils sont vraiment affreux!

Pareils aux mannequins; vaguement ridicules;

Terribles, singuliers comme les somnambules;

Dardant on ne sait où leurs globes ténébreux.

Leurs yeux, d’où la divine étincelle est partie,

Comme s’ils regardaient au loin, restent levés

Au ciel; on ne les voit jamais vers les pavés

Pencher rêveusement leur tête appesantie.

Ils traversent ainsi le noir illimité,

Ce frère du silence éternel. Ô cité!

Pendant qu’autour de nous tu chantes, ris et beugles,

Eprise du plaisir jusqu’à l’atrocité,

Vois! je me traîne aussi! mais, plus qu’eux hébété,

Je dis: Que cherchent-ils au Ciel, tous ces aveugles?


I ciechi

Contemplali, anima mia, sono davvero mostruosi!

Simili a manichini; vagamente ridicoli;

terribili, singolari, come sonnamboli;

dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi.

I loro occhi, dove la divina scintilla è partita,

come se guardassero lontano, restano a planare

per il cielo, non li si vede mai inclinare

al suolo assortamente la loro testa appesantita.

Attraversano così il nero dell’infinità,

questo fratello del silenzio eternale. O città!

mentre intorno strilli, ridi e canticchi,

presa dal piacere fin all’atrocità,

vedi! anch’io mi trascino, ma più ebete di loro, chissà!

dico: che cercano al Cielo tutti questi ciechi?



La vie antérieure

J’ai longtemps habité sous de vastes portiques

Que les soleils marins teignaient de mille feux,

Et que leurs grands piliers, droits et majestueux,

Rendaient pareils, le soir, aux grottes basaltiques.

Les houles, en roulant les images des cieux,

Mêlaient d’une façon solennelle et mystique

Les tout-puissants accords de leur riche musique

Aux couleurs du couchant reflété par mes yeux.

C’est là que j’ai vécu dans les voluptés calmes,

Au milieu de l’azur, des vagues, des splendeurs

Et des esclaves nus, tout imprégnés d’odeurs,

Qui me rafraîchissaient le front avec des palmes,

Et dont l’unique soin était d’approfondir

Le secret douloureux qui me faisait languir.


La vita anteriore

Molto tempo ho abitato sotto vasti portici

che i soli marini tingevano di mille fuochi

e che i loro grandi pilastri, dritti e ciechi,

rendevano simili, la sera, a vicoli basaltici.

Le onde, arrotolando immagini del cielo,

mischiavano in modo mistico e solenne

gli onnipotenti accordi delle loro ninne nanne

ai colori di ponente distesi sopra un velo.

E là che ho vissuto nelle voluttuose calme,

in seno all’azzurro, alle onde, agli splendori,

e con schiavi nudi tutt’impregnati d’odori,

che mi rinfrescavano la fronte con le palme

e dove l’unica premura era d’approfondire

il segreto doloroso che mi faceva languire.



Élévation

Au-dessus des étangs, au-dessus des vallées,

Des montagnes, des bois, des nuages, des mers,

Par delà le soleil, par delà les éthers,

Par delà les confins des sphères étoilées,

Mon esprit, tu te meus avec agilité,

Et, comme un bon nageur qui se pâme dans l’onde,

Tu sillonnes gayement l’immensité profonde

Avec une indicible et mâle volupté.

Envole-toi bien loin de ces miasmes morbides;

Va te purifier dans l’air supérieur,

Et bois, comme une pure et divine liqueur,

Le feu clair qui remplit les espaces limpides.

Derrière les ennuis et les vastes chagrins

Qui chargent de leur poids l’existence brumeuse,

Heureux celui qui peut d’une aile vigoureuse

S’élancer vers les champs lumineux et sereins;

Celui dont les pensers, comme des alouettes,

Vers les cieux le matin prennent un libre essor,

— Qui plane sur la vie, et comprend sans effort

Le langage des fleurs et des choses muettes!


Elevazione

Al di sopra degli stagni e delle vallate,

di monti, di boschi, di nubi e di mari,

al di là dell’etere e di luci solari,

al di là dei confini delle sfere stellate,

spirito mio, tu ti muovi con agilità,

come nuotatore che s’inebria dell’onda

solchi felice l’immensità profonda

con indicibile e maschia voluttà.

Innàlzati da questi miasmi putridi

per purificarti nell’aria superiore,

e bevi come puro e divino liquore,

il fuoco chiaro degli spazi limpidi.

Dietro le noie e i vasti dispiaceri

che gravano l’esistenza brumosa,

felice è colui che da un’ala vigorosa

si lancia in campi luminosi e sinceri,

di cui i pensieri, come allodole venute,

prendono per i cieli un libero volo,

— chi plana sulla vita e comprende solo

il linguaggio dei fiori e delle cose mute.




Continua a leggere "Charles Baudelaire, poesie tradotte da Emilio Capaccio"

Danilo Mandolini - Anamorfiche

$
0
0


Danilo Mandolini - AnamorficheDanilo Mandolini - Anamorfiche- Arcipelago Itaca, 2018

Di Danilo Mandolini avevo già detto qualcosa circa tre anni fa, per una raccolta antologica della sua produzione tra il 2010 e il 1985, che si intitolava per l'appunto A ritroso (v.QUI ). In questa nuova raccolta si ritrovano i tratti essenziali della sua scrittura che avevo allora rilevato, a cominciare dagli elementi per così dire strutturali del suo lavoro, che peraltro si riflettono sul modus, sulla lingua, sull'espressione e in ultima analisi sulla costruzione del suo mondo poetico: una certa dose di astrattezza riflessiva, che però non preclude il senso né diventa linguaggio autoriferito, ma spinge semmai verso più profonde considerazioni; un arretramento o decentramento del soggetto (cosa diversa dall'io poetante) che corrisponde ad un allontanarsi dal mondo per osservarlo nel suo manifestarsi, anche metaforico, da una giusta distanza, come da un eremitaggio; un conseguente riferirsi alla realtà come poco oggettuale, poco popolata di "cose" e più di parole che tentano di descriverla, e men che mai di presenze umane, una realtà per così dire metafisica (e citavo a mo' di esempio De Chirico - ma rimando comunque a quella nota).
Certo, in questo nuovo libro mi pare ci si ritrovino quegli elementi. Ma ci si rinviene anche un diverso approccio alle cose da dire, qualcosa di più concettuale, in un certo senso di più sperimentale (prendendo il termine con cautela). Questo dipende forse dal fatto che in A ritroso c'era anche ancora presente il bagaglio delle poesie più giovani, ora non disconosciuto ma diciamo acquisito agli atti, introiettato.
Anamorfiche, dice il titolo. Ovvero il restringimento dello sguardo, del punto di prospettiva, del luogo e del modo, quelli e non altri, in cui porsi per avere una visione "giusta" delle cose. Anamorfismo è questo, il punto di disvelamento di qualcosa di recondito ma significativo, una epifania, una metafora assoluta, che può anche rovesciare l'illusione, l'idillio. Suggerisco, per capirci meglio, di dare un'occhiata all'esempio più noto: "Gli ambasciatori" di Hans Holbein il Giovane (v.QUI ).
Questo restringimento dello sguardo, questo punto eletto di osservazione pongono già qualche questione (o sfida, per il lettore). Una riguarda mi pare la concentrazione dell'attenzione poetica - così come avviene nelle belle immagini scattate dall'autore che corredano il libro - sul dettaglio, sulla parcella di realtà, intesi però come significanti o almeno come indizi o sintomi di altro, di una porzione più ampia della realtà stessa, sia essa interna e quindi intima del poeta, sia essa una parte di ciò che il poeta percepisce del mondo all'intorno (e di cui inevitabilmente fa parte).
L'altra concerne il fatto che questo restringimento dello sguardo o della prospettiva (che paradossalmente moltiplica il particolare, offrendo al poeta un repertorio sterminato di frammenti) accentua il focus personale dell'autore sulle cose, che si riversa sulla scrittura e la forma, e la sfida per il lettore, peraltro affascinante, è di ricostruire o reinventare quella immagine o una radiazione il cui spettro può non essere percepibile a tutti. Quella immagine cioè che è innesco di quella medesima scrittura. E' evidentemente da parte del poeta un approccio per così dire sineddotico (la parte per il tutto), di cui come lettori occorre prendere atto, facendoci condurre. Ma è - in ultima analisi e in relazione a quello - una interessante visione metonimica della realtà, almeno di quella che interessa Mandolini. Ovvero una scelta coraggiosa e rischiosa, perché l'autore (Danilo o chiunque altro) scrivendo deve costantemente chiedersi se l'immagine che va formando lascia un sufficiente margine di suggestione - interpretativa o emotiva - a chi legge. E chiedersi - contemporaneamente - se la contemplazione del particolare non nasconda un sotterranea fuga dal tutto, dalla complessità ingovernabile della vita (che è invariabilmente il tema centrale di questa poesia). Una scelta, torno a dire, in qualche misura eremitica, una posizione da dove "è cogliendo e osservando / questa minima dinamica / che si può vedere il tempo / nel lampo breve...", qualcosa di infinitesimo e ineffabile che sta "tra ciò che ascolterò / e ciò che scorgerò sopravvivendo / nelle pieghe immateriali, / nelle increspature che non vedo - / ora, qui - / degli attimi a venire". E' questo l'anamorfismo. Come in Holbein, è solo accogliendo l'invito dell'artista a porci in quel luogo/tempo poetico (e accettandone anche l'indeterminatezza) che è possibile forse intuire l'ammonimento, il senso di ciò che in primo acchito è indistinto come una macchia. Il tentativo - morfico, prospettico - è quello di uscire, almeno per il momento in cui si realizza, dalla visione canonica. Un buon esempio è la sezione Crocivia (quindici blasfemie in loop), una delle migliori, dove alla messa in scena di "un ipotetico dialogo degli uomini con il divino" concorrono linguaggio e sguardo, in una interrogazione eterodossa e impellente (e quindi, se volete, anamorfica, o - forse - "blasfema"), molto umana ("[mio dio noi / ci pentiamo e ci dogliamo con tutto il cuore / dei nostri peccati perché...Perché abbiamo peccato ma / tu...Tu dichiarati, manifestati, pronunciati, / rivelati, almeno, come si rivelerebbe una bava di vento...").
Un tentativo, quello operato da Danilo in questo libro, a cui la scrittura concorre come può, con i suoi limiti oggettivi, facendo leva soprattutto sulla capacità della lingua di astrazione, di simbolizzazione, di "smaterializzazione" del concreto e viceversa di concretizzazione di quelle"pieghe immateriali" in parole. Un approccio creativo che ha una sua indubbia forza, perché non ha niente di crepuscolare o remissivo, è piuttosto dettato - mi pare - dalla personale convinzione di Danilo che il poetico, come un pneuma, risieda in insospettate insenature, il cui rinvenimento è sostanzialmente un "dono"; e che quello che si riesce ad afferrare della realtà è quel che si è, o almeno è quello che si è come uomini/artisti. Il risultato è insieme rarefatto e affilato, con l'eccezione forse di una sezione che sento in qualche misura "diversa" dalla natura generale della raccolta. Alludo a Offertorio speciale (nove bizzarrie impoetiche) nella quale Mandolini più che lo sguardo appunta il dito contro certi fenomeni consumistici, fa una critica socio/politica del contemporaneo e di certe sue bizzarrie, temi difficili da trasferire (come spesso in una poesia "civile") dalla loro (dichiarata) impoeticità ai piani più alti che la scrittura di Danilo frequenta. Un aspetto tuttavia marginale rispetto al livello qualitativo ed estetico complessivo di questa raccolta. (g. cerrai)


Continua a leggere "Danilo Mandolini - Anamorfiche"

Laura Garavaglia - Correnti ascensionali, nota di Rita Pacilio

$
0
0


Laura Garavaglia - Correnti ascensionali– CFR, 2013, con immagini di Daniela Gatti Laura Garavaglia - Correnti ascensionali

Mi capita spesso di leggere libri d’artista in cui dipinti e fotografie vengono associati, a volte, in maniera tematica, alla poesia: alcuni progetti sono originali e ben costruiti, altri meno, ma ne apprezzo sempre il connubio, la fusione, la potenza del linguaggio poetico comune a tutte le espressioni artistiche. Correnti ascensionali di Laura Garavaglia, CFR 2013 è molto più di un libro d’Arte. È uno scrigno di gioielli: poesie in lingua italiana con traduzione in inglese di Barbara Ferri, in romeno e spagnolo di Mario Castro Navarrete, e fotografie di porcellane (medaglioni, vasi, centrotavola) di Daniela Gatti. Le combinazioni sono eleganti e illuminanti. È sacro il dire e il fare delle Correnti, infatti, il percorso razionale, visionario e intimo trasforma i particolari in affascinanti contemplazioni del tutto. Così le pagine non interloquiscono solamente con le immagini, ma, soprattutto, con il controcanto di altre lingue per declinare, solennemente e miracolosamente, l’appartenenza alla stessa natura. Il lettore è accompagnato dal senso di realtà presente e da aspetti folgoranti del passato nella bellezza di metriche e colori in cui la fascinazione emozionale indica direzione e partecipazione. (rita pacilio)



Continua a leggere "Laura Garavaglia - Correnti ascensionali, nota di Rita Pacilio"

LA PAROLA INFORME - esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità, a cura di SONIA CAPOROSSI

$
0
0



LA PAROLA INFORME - esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità

a cura di SONIA CAPOROSSI - Marco Saya ed., 2018

Ricordo che diversi anni fa si parlava di mappature della poesia. Ah, quanto se ne parlava! La linea lombarda, la linea marchigiana, la generazione entrante, quella uscente, i territori paralleli...Sebbene già allora le mappe non portassero in alcun luogo - con una certa soddisfazione dei più borgesiani - oggi più che mai mi pare che l'orientamento sia un'arte difficile, se non appoggiandosi, ancora, a categorie o denominatori. (e poi, orientarsi in cosa? nella poesia in sé? nel reale ivi (se) riconoscibile? nel fenomeno osservato? nell'osservatore?) etc. Se l'orientamento è difficile non lo è tanto perché la poesia sia una giungla, quanto perché la si vuole spesso e quasi di necessità collocare e ri-collocare - spesso arbitrariamente - in ambiti e/o codici, meglio se impermeabili tra loro, e questo crea problemi, se non proprio di dissidio e opposizione, almeno di prospettiva e focalizzazione. Una opacità a cui si potrebbe porre qualche rimedio se intanto si considerasse la produzione poetica come una serie di oggetti (insiemi) intersecabili, un'ottica che almeno (forse) consentirebbe di capire non tanto la realtà di uno (o nessuno), quanto il punto di vista sul mondo di alcuni (o molti) anche diversi, e quindi analizzarne in maniera feconda le intersezioni e le osmosi, i problemi e le soluzioni adottabili e/o sviluppabili. Non sto parlando di ecumenismo, e nemmeno di una diversa antologia ([1]). Sto parlando della necessità di ricostituire il peso della poesia (il peso anche sociale e politico se volete) come strumento/funzione di indagine e comprensione del presente.

Perché nel frattempo, come in ogni "litigio" o dissidio che si rispetti, il terzo gode. Ecco, questo sì che è un problema interessante. Cioè chi/cosa possa essere, nell'articolazione del presente (o dell'ultracontemporaneo, per dirla con Sonia) questo tertium. Sarei orientato a pensare che esso sia lo sfuggente convitato di pietra, quel camaleonte che perònon si mimetizza ma viene mimetizzato proprio da chi lo osserva, con uno strano fenomeno ottico. Sto parlando del reale complesso, di quella complessità che è un problema seriamente percepito da qualcuno (ad esempio da uno almeno degli autori qui presenti) ma che è ben lungi dal trovare una soluzione "artistica". E che allo stato attuale produce - spesso - un intenso lavorio sul "come", soprattutto sul linguaggio come copia e manifestazione iconica dell'indicibile, una neolingua come pallida rappresentazione di un mondo/potere di comunicazioni verticali. Il rapporto, per fare un esempio brutale, mi pare - qualche volta - quello tra un bambino con le sue lallazioni e un mondo di adulti che impartiscono ordini. C'è insomma un po' (molto) meno attività sul "cosa" si aggira (al di là del groan individuale, anche se spacciato per lamento collettivo/generazionale) all'interno dell'odierno reale complesso, che è davvero, esso sì, ultracontemporaneo, perché in ultra-divenire( [2]).

Il linguaggio, oggi, mi pare abbia (ed è qualcosa che riguarda anche la polis) due direzioni principali, una di informazione, l'altra di deformazione. Una dicotomia che va spiegata, a cominciare dal primo braccio, la cui aria "positiva" non deve trarci in inganno. La prima direzione, infatti, è quella della semplificazione, della reductio ad unum, dello slogan, ed è soprattutto politica, ed ha la caratteristica di essere in-formante, non necessariamente in aderenza alla realtà, anzi come riscrittura funzionale della medesima, e con funzione estetica nulla. Paradossalmente è ciò che più si avvicina al grado zero di Barthes, alla scrittura bianca, non ovviamente quella di Camus a cui il filosofo francese faceva riferimento, ma una scrittura in cui la riduzione della forma si combina, ancora una volta paradossalmente, con l'instaurazione di un mito. Una scrittura insomma non tanto astorica quanto alogica. L'altra direzione, restando nel campo di questo libro, è quella della complessità, nel senso a cui accennavo prima. Ma qui, nel momento in cui, di fronte al complesso, l'esperienza individuale si restringe e arretra (cioè quando e perché non riesce a diventare esemplare e - quindi - letteraria), emerge una "inclinazione alla deformazione poietica del dicibile... un concetto comune di parola informe" (Caporossi, corsivi dell'autrice). Già, il dicibile. Io prima ho parlato di "indicibile", e mi viene il dubbio che siano sinonimi, in questo contesto. E che siano entrambi sinonimi di "infinito", ovvero un ammasso stellare di materia che può o non può essere detta in poesia (se restiamo in questo campo), in entrambi i casi fino alla noia. Un materiale poetico atomizzato, in cui ogni frammento percepibile può essere potenzialmente una scintilla testuale, un mini-bang espansivo, basta che l'artista trovi, magari una volta per tutte, il suo modus, o la sua "forma informe", o come si diceva una volta il suo stile. Ora, la buona notizia è quando - nella migliore congiuntura - riesce a verificarsi quella "intuizione aurorale" a cui si riferisce Caporossi nella sua prefazione, ovvero "la presa di coscienza del paradosso sorgente dalle multiformi modificazioni del nesso tra segno e significato, propria dell’esperienza poetica per eccellenza" (appunto quella aurorale). Tralasciamo il carattere "raro" e empirico che promana da questa definizione che richiama alla mente Benjamin (e Baudelaire ancor prima), ma capisco bene e apprezzo l'intento critico (e la proposta) di Sonia di ricondurre, ove si verifichi, il carattere (l'alloro) di unicità (l'aura di Benjamin, quindi) dal capo dell'opera all'intuizione del poeta (è l'idea, il concetto, del poeta che viene ad assumere la sua unicità prima dell'opera). La cosa importante, sotto questa prospettiva, è che, forse proprio per il suo empirismo, il risultato può essere - davvero - "sperimentale". Il che, in parole poverissime, significa davvero spostare in avanti certi limiti (espressivi, comunicativi, interpretativi) che sono gli stessi, fondamentali, della poesia e dell'agire artistico in genere.

La notizia meno buona è quando (in alcuni casi) ci coglie la sensazione che la parola informe da una parte sia - per usare un paradosso - una "facile via difficile". Ne ho già parlato brevemente, ma voglio essere più preciso. Parlo di metodo, di modalità e/o maniera, anche autoalimentata; di estetica del multiplo, di cliché come arte ecc. (a margine: il cliché come arte è (sarebbe) già un buon approccio al complesso, se non si limita ad essere un atto artigianale (o puramente concettualizzato) con cui si prende un qualsiasi frammento del reale - soggetto quindi di/a casualità - e lo si pone in un frame [stampo, forma, cast] pre-parato). Parlo di una postura, o del rischio di essa. Una cosa che nessun poeta ammetterà mai, ma è la riproducibilità (sempre per restare a Benjamin) della forma (per quanto informe), la collocazione in un confortevole punto di quiete, una cosa che Sonia può comprendere perché non dissimile da una malattia che lei chiama "esordismo", c'est à dire la riproduzione dei temi e moduli uguali a sé stessi, per una sorta di confortante conformità a qualcosa di primevo che - aggiungo - sembri aver raggiunto una propria "economia" funzionale.

Oppure, dall'altra parte, come dicevo all'inizio, che l'informale mimetizzi l'indicibile (o quel che si può dire di esso) confondendolo con il suo essere "naturalmente" oscuro (che è in sé una categoria nobile - e indagabile), (ri)calcandone il gradiente di impenetrabilità ecc., che sia quindi una parola - certo involontariamente - "organica", come si diceva una volta, a un contemporaneo (ultra o meno) la cui complessità non è certo governata dal poeta ma che il poeta, a mio avviso, deve tentare di penetrare, senza rimbalzarci sopra come un sasso su uno stagno. Cosa, lo ammetto, non facile, ma che rappresenta una sfida per il futuro.

Inutile dire a questo punto che questo libro antologia prende le mosse da un assunto implicito, che cioè il punto di partenza (di questa mappa o di altri itinerari) sia la poesia di ricerca o sperimentale - per quanto qui solo nella sua veste semica e lineare - in ragione del suo accreditamento di stato dell'arte avanzato della poesia (un accreditamento, per inciso, a volte un po'"auto-") e per conseguenza più aderente al contemporaneo "ultimissimo" o "iperattuale" (Caporossi) di riferimento. E forse questo libro può apparire come un repertoire linguistico e di competenze, di fatto centrato su uno specifico. Ma l'assunto della curatrice deve essere accettato, pur con i suoi rischi e i suo punti critici. Non solo perché della poesia di ricerca non c'è, come invece sostiene qualcuno, una egemonia perfino ridicola da supporre e pertanto essa non può che essere considerata un territorio "coltivabile" al pari di altri, soprattutto se si cominciano a respingere rigidità di canoni, codici, paradigmi; ma anche per il fatto che, al di là di tutte le considerazioni fin qui fatte, questo libro è prezioso e meritorio, perché offre non pochi spunti di dibattito (ce n'è un gran bisogno) e perché mi pare non voglia affatto essere un punto di arrivo. Ma soprattutto perché ci leggo una ambizione di fondo, che è quella che dovrebbe avere una critica seria. Ovvero ciò che credo la critica oggi, se ancora ha una funzione, debba fare: concorrere ad identificare non linee ma percorsi conoscitivi od estetici (che in arte è lo stesso), arrogarsi il diritto di "inventare" o imporre scoperte, argomentandole e difendendole, ma soprattutto di rinvenire snodi, punti di frizione, articolazioni, percorsi non battuti, indicando sentieri apparentemente invisibili. In questo sì "impura", o al contrario totalmente pura perché il suo lavoro non è più trovare il "buono", o giustificazioni plausibili al lavoro di questo o quello scrittore specie se "difficile", o "nuove ontologie", che è una cosa che fa ridere i polli. E' semmai quello di trovare idee, o "concetti", (e quindi fare un "atto di creazione" per dirla con Deleuze). Mi pare che Caporossi sia decisamente orientata in questo senso.

E tuttavia, se il legante è quello che individua Sonia, ovvero di un "potere autonomo e autotelico della parola" che può svolgersi fino al "raggiungimento del livello informe della parola (stessa), condizione fluttuante in cui il senso si concede alla comprensione, di volta in volta, nell’atto del suo stesso farsi", non so se questo può bastare. E' in primis quella "condizione fluttuante" che mi fa pensare che racchiuda in sé un'alea e che mi fa temere una scrittura/guscio di noce alle mercé di una brutale corrente, per dirla con Shakespeare. E poi forse si tratta - forse - di un problema categoriale, un ambito in cui si possono far confluire anche troppe esperienze, anche decisamente contraddittorie, come è successo nelle arti plastiche e figurative con l'informale, che comunque possiamo considerare morto già alla fine degli anni Novanta.

E tuttavia, ancora, questo lavoro ha in sé un elemento fecondo ulteriore (ma non involontario, ultroneo). In realtà, cioè, questa antologia, i cui autori - come annota Caporossi - sono "ondeggianti sul filo pericoloso che separa la natura crassamente lirica della poesia dal filone sperimentale o di ricerca", potrebbe con qualche giovamento essere osservata da una prospettiva verticale [longitudinale] che però non costituisce necessariamente un confine, secondo il concetto che dicevo all'inizio, tra aree in cui la parola informe è sì - per una parte rilevante - forma e medium, ma che poi veicola, a me pare, cose diverse, che mi sembra evidenzino, almeno qui, almeno due direzioni, ed è questo che mi interessa. Perché a un certo punto bisogna pur chiedersi, criticamente, in relazione al loro rapporto con la realtà, a cosa pensano davvero i poeti, qual è la loro spinta iconica/eidetica ad esempio, cosa immaginano davvero che io (anche come lettore-critico o anche empirico) legga o creda di leggere. Insomma che cosa vogliono dire. Giacché si tende, succede anche a me, ad accettare l'offerta linguistica dell'autore, specie se sub specie 'oscura/difficile', come l'oggetto [prodotto] "finito" del suo lavoro. Ma se si va ad analizzare davvero il precipitato, se si comincia a vedere cosa c'è dentro, le cose che ci sono dentro, allora appare evidente che in quella "oscillazione" citata (e che forse Sonia non ha voluto approfondire) c'è un punto nodale. Da una parte, in questo libro, c'è l'informe in cui davvero abita e agisce il "potere autonomo e autotelico della parola", ma nel senso che tende ad arrogarsi non tanto un potere di interpretazione (o forse di invenzione) del reale costituendolo con il verbo, quanto il diritto di contemplazione di sé, nel proprio farsi. Il quale farsi non è detto che sia regolato, come dice Sonia, dall'analogia intesa come "capacità logica (e ancor prima, prelogica) di porre nessi metaforici tra l’immagine poetica e la semiosfera esperienziale di riferimento". Rimane infatti il problema, tanto per capirci, di chi debba avere questa capacità logica, se l'autore, il lettore o entrambi. Come precondizione, immagino.

Dall'altra parte di questo libro la parola informe (il cui grado di"informità" andrebbe comunque stimato, perché variante) mi pare che sia materiale plastico di rappresentazione, cioè ambisca quanto meno a rappresentare "ad arte" qualcosa che non sia solo la propria deformazione (seppure come imago di un reale difficile da penetrare). Cioè ambisca ad usare il linguaggio non solo in senso "strumentale" (come uno strumento risonante [autopoietico]) ma anche (o soprattutto) come mezzo conoscitivo o cognitivo, pur nel suo "farsi" dinamico (che vuol dire tendere a una innovazione della capacità espressiva della lingua). Su questo versante, a grattare un po' l'informe, poi il lettore trova la sua"soddisfazione", ammesso che in questo sistema il lettore sia contemplato (sia detto senza ironia: ad es. in molta arte contemporanea il fruitore, specie se passivo, non è affatto considerato come "variabile" componente del processo). Il qualcosa che sembra emergere a questa"longitudine" è un frammento di quella realtà (tralasciamo per il momento se complessa o meno), una parcella che possiamo meglio ascrivere ad una "semiosfera esperienziale", che però includa, perché no?, chi legge. Per capire meglio basta accostare i testi di autori - per fare qualche nome - come Bellomi e De Francesco, o Scarpa e Garrapa, o Porsia e Leonessa, o Tripodi e Riviello. Con le relative sfaccettature e con la cautela del caso, mi pare che lo sguardo, l'attenzione creativa siano orientati in due diverse direzioni, che all'inizio in sintesi avevo definito del "come" e del "cosa", ma che sono più propriamente prospettive, del linguaggio sul linguaggio e della lingua sulle cose. Che non sono necessariamente in contrasto, né, è ovvio, decisamente separabili (ammesso che debbano esserlo). Sono, nella migliore delle ipotesi, due campi di lavoro (ma non sempre entrambi di indagine). Il limite del linguaggio risiede in quello che dice: possiamo deformarlo alla ricerca di un senso aurale che confidiamo esista indipendentemente da noi e che sia di per sé in una qualche relazione con la realtà, ma credo che poi - senza farne una sovrastruttura - dobbiamo decidere in che direzione, verso quale indagine, su quali "oggetti" orientarlo, con tutta la "indisciplina" - per rovesciare un concetto foucaultiano - che compete all'arte. Poiché l'ultracontemporaneo, inteso come individuo oltre che come tangenza del presente, non può , al di là della sua definizione, che essere contenuto con quel reale complesso con cui anche come poeti dovremmo fare i conti. Come se fosse un enorme ipertesto. Io credo che la direzione sia quella. (g. cerrai)



[1] Parlerei - più che di mappe o se preferite di antologie - di campionamento, anzi proprio lo suggerisco ai prossimi curatori di raccolte. Campionamento di molte cose, se volete anche nel senso sonoro e/o musicale del termine, anche in ragione di una sempre maggiore smarginalizzazione del fare poesia (ammesso che un margine esista) in territori, come quello della poesia orale, nei quali il testo si smaterializza e ri-materializza nella voce e dove il sample, specie testuale, non è infrequente. (diciamo anche che il testo perde un po' il suo statuto, non solo a favore della voce ma anche del gesto - e non sempre la poesia ci guadagna). In margine: fluidità della poesia, digeribilità della poesia (ammesso che sia un passo avanti), contro rigidità del mezzo testuale, per sua natura poco spettacolare. Ma l'esempio che ho fatto non deve essere limitante, anzi è solo un aspetto, uno tra molti, della questione.

[2] Definire l’ultracontemporaneo acquisterebbe maggior significato se indicasse anche una svolta, oltre che una semplice fotografia del (ultra)presente. E poi, ultrac. in relazione a cosa? Che poi un point de repère, un rapporto col tempo, se vogliamo uscire dalla riserva della (in)comprensione del reale, dovremmo pure avercelo. L’ultracontemporaneo è destinato ad essere passabilmente [il] presente, per poi diventare semplicemente moderno, nella migliore delle ipotesi (e mi pare di essere d’accordo con I. Testa, citato in prefazione). E tuttavia è molto utile, se aiuta almeno a comprendere il presente [l'attuale], l'aria che tira. E se l'analisi dell'ultrac. evita la secca di somigliare troppo a quei prodotti open source che vengono forniti "as-is", cioè come sono, senza alcuna garanzia o ipotesi di sviluppo (to-be). Ma è evidente che bisognerà ancorare l'analisi a qualcosa d'altro, che non sia legato al transeunte. Per esempio ai fenomeni che scuotono l'oggi, che come sappiamo in Italia non riescono a trovare gran spazio (preciso: non sto parlando della cosiddetta poesia civile).



Continua a leggere "LA PAROLA INFORME - esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità, a cura di SONIA CAPOROSSI"
Viewing all 375 articles
Browse latest View live