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Roberto R. Corsi - Inediti da Grafite bianca

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Una vena più malinconica, rispetto alle cinquantasei cozze di cui hRoberto R. Corsio già parlato (v. QUI), in queste poesie inedite del Corsi, che forse troveranno una pubblicazione, forse non hanno ancora nemmeno una forma o un titolo definitivi. Parlo di malinconia tanto per attaccare il discorso, ma la questione come sappiamo non è mai così semplice, perché il Corsi non è un uomo semplice e non figura nelle antologie del cuore o delle fragole. Certo, c'è in fondo una consapevolezza del tutto anagrafica, del tempo che passa, delle realizzazioni dell'io che si fanno sempre più diradate, forse conseguenza dell'inevitabile "piombare nel compound mezza età". Della componente narcisistica della poesia, in genere, non se ne è parlato mai granché, ma esiste ed ha la sua rilevanza, semplicemente perché in fondo non si parla che di se stessi, della propria esistenza in vita. Bisogna vedere come, e con quale contorno. Qui ad esempio l'io c'è ma non è detto che sia smaccatamente lirico, centripeto e centrale. Anzi a volte assomiglia a un sasso gettato in uno stagno a smuovere un po' le acque, a deformare e mettere un po' in burletta il volto che vi è riflesso. Roberto ha abbastanza ironia e senso della misura per fare questo, anche perché si sente (giustamente) forte di una cultura che affiora ad ogni passo, che è fatta di musica e buone letture (e magari di un po' di barely legal, why not?) e che gli serve per setacciare da una parte e nobilitare dall'altra un senso della vita che è consapevolmente edonistico (quasi come il "guardare la storia dentro un agio") e insieme venato da un tragico ineludibile perché legato allo scorrere del tempo. Per cui si capisce che a dire malinconia si fa presto, ma va da sé che questo, ammesso che sia vero, non spiega poi molto.

Mi pare che qui la domanda, in un certo qual modo, sia "cos'è che abbiamo fatto fino ad adesso? che cosa siamo stati?", qualcosa che i francesi. con una parola sublimemente dignitosa, chiamano"regret", una cartesiana cogitazione su quel che avrebbe potuto. Questo naturalmente vale per sé, ma vale anche per il mondo circostante, per le cose come vanno (ma qualsiasi auspicio se ne tragga proviene, molto più terra terra, da un "oracolo della pizza"), per i rapporti con le persone, specie quelli sentimentali (dove Corsi a mio avviso dà il meglio di sé), insomma anche per quelle cose su cui avremmo potuto agire solo fino a un certo punto. Fino ad arrivare a un certo sentimento di inutilità, di pestare l'acqua nel mortaio, forse anche per lo stesso esercizio della scrittura. Che tuttavia Roberto cura amorevolmente, soprattutto nel senso di una chiarezza di esposizione di quel che ha da dire, addirittura programmatica se si preoccupa di annotare da una parte"avrei dovuto scrivere più astratto e compiacente", dall'altra "a me proprio non riesce". E va bene così. Del resto uno dei suo bersagli preferiti è proprio la scrittura intesa come esercizio artigianale professato come arte, in particolare con qualche riferimento velenoso al mondo della poesia ("Un anziano poeta / Verseggia su facebù le sue pulsioni / Dinanzi a una “poetessa puledra” "; od anche "E impazza questa prassi emarginante / Di dar risalto all'anno in cui uno è nato / Piuttosto che alla polpa dei suoi versi"), un mondo in cui anche Corsi si muove, peraltro senza troppi patemi d'animo, ma con qualche tentazione, come si diceva prima,  di "chiudere con coraggio l'esercizio". Ecco, su questo versante satirico/salace ci ritrovo il Montale autoironico e un po' sprezzante, forse meglio sarcastico, quello da Satura in poi per capirci: parlo di stile, ma non di epigonismo, non è il caso; parlo di andamento a volte epigrammatico, marzialesco, con in più (mi par di vederlo) quel tosco sorrisetto di scherno che dalle nostre parti equivale a uno sputo in un occhio. Per le altre cose, altri temi, certi eventi, certe baudelairiane passanti a notte fonda in Borgognissanti, insomma in un occhio gettato a quello che della vita non è dato arraffare, il riferimento potrebbe essere Philip Larkin, quello di High windows (sì, c'è anche lui da qualche parte, dichiarato ma è lo stesso, perché palese), senza la sua misoginia e la sua proverbiale solitudine da piccolo bibliotecario. Ma qualsiasi siano i temi (sempre comunque sottesi, a mio avviso, a quel senso del tragico a cui alludevo prima) Roberto li affronta (o fa finta di affrontarli) come nugae, con una scrittura spigliata e a suo modo "avida", vitale, ben costruita, pensosamente leggera, "lubrificata per il contatto con la sensibilità del lettore" (è questo il senso del titolo Grafite bianca, dicesi provvisorio). Forse non sempre "mite e ordinata" come nelle sue intenzioni, ma certamente non scritta (ancora in riferimento al titolo) con una matita bianca, "senza lasciare il segno". (g. cerrai)


da Grafite bianca

Un modo per scusarsi


Alle sei di sabato mattina un’auto si ferma sulla curva di via Curtatone
E scarica alla buona una donna stupenda che a passo militare di lunghissime leve
Si eclissa in Borgognissanti - il tempo di notarne presenza chiome lisce eleganza,
Stivali a tutta tibia. Sbrigativa ritorna alla realtà dopo una notte di festa,
Forse d’amore, forse clandestino. Fiuto il suo scorno da cento metri: pensa te
Una figa così, si va a letto e poi ciao, gettata a bordo strada come un sacco,
Nessuna audacia: “ho pronto un progetto” e “mia moglie la lascio” son frasi
Che si spendono prima, a testicoli pieni. Noi, la mattina dopo, si faceva colazione assieme
E ti accompagnavo alla corriera per Montespertoli, ma il muso lungo, il senso
Era lo stesso. Non ho mai mollato la mia sposa, Madame Lapa Ura.
Vedo solo adesso, negli altri, il male tributato, i miei semi neri
Sparsi a piena mano su Laura e altre terre gentili, e comprendo che l’unico modo
Per scusarsi è un salvacondotto silenzioso, permettere di andare.



Che tu sia per me il tordello

Stanca, la carta termica si scrolla
Di dosso cifre, lettere -
A malapena scorgi quella data fatidica -
Nove novembre del duemilasette

Ci leggi ancora bene il nome del locale
E le due cioccolate - una con panna.

Torni alle feste che ti ha fatto, solo
Per averla aspettata un paio d’ore
Sotto il Loggiato dei Serviti, la piazza
Resa amica da aghi di pioggia, in mano
Questo libro che ora deturpi, annoti,
Dentro il quale lasciasti lo scontrino.
Il tempo è scorso senza grumi, zelante
Silenzioso contabile, ragiunàtt de Milàn .

“Nessuno mai mi ha atteso tanto a lungo”,
Dice lei mentre traccia una linea
Col lapis della gioia e collega
Come pista cifrata gli abbracci,
La sosta al caffè e dopo, spalancato, l’amore.

Le oppongo solo adesso
(Inutilmente, il sangue non si ferma)
Questa formula magica,
“Gilli, locale d’importanza storica
Dal millesettecentotrentatré”,
Ora che non mi dà dignità di persona
E mi fa di lontano lezioni sulla coppia.



Nous sommes II

Dalla televisione grondano odio, sangue e paroloni, il mondo
Si sta nuovamente accoppando. Stavolta sei lontana. Mio padre fa il viottolo
Tra la tv e i fornelli, arraffa e trangugia quel che può, biscotti
O fagiolini lessi, guarda raiuno, teorizza alleanze,
Guerre contro mezzo mondo, s’incazza e mi dà del cretino se dissento.

Sei lontana. Pure tu domani, per telefono, dirai
Trite teorie, magari militari litanie. Luoghi comuni,
Purché non comunisti. La storia chiude a cerchio, con un freddo catodico,
Questa raccolta che bussa alla poesia: ne è fuori. Non torneremo
Mai più in peso forma, né in democrazia. A Parigi, perdona,
Avrei dovuto andarci semmai insieme a Laura, con una maestosa che gareggiasse
In nitore con le varie Marine Vacth, Léa Seydoux... oppure andarci all’avventura;
In ogni caso con piglio assertivo di priapo in carriera. Perduto. Fine
Della ricreazione, scoppia la mia bolla speculativa, boriosa ventennale
Gola di raganella. Fuori crollano torri arcobaleno. Più niente significa.



da L'oracolo della pizza

( Riscontri II: ti rottamano )

Manco ventisett’anni,
un libro e mezzo in croce - e già danno patenti
di dilettante a quelli come te
che, quando scrivi, il vuoto, l’imbarazzo...

Di-let-tan-te . Perché?
Loro quanto ci alzano? Ci campano?
E poi, quale diletto
in questo squartamento del soggetto?

Ti rottamano, proprio come farebbe
un governo qualsiasi, con l’aggravante che
qui non si tratta d’amministrare soldi
(non c’è una lira), ma solo di salire
su un ramo panoramico.



( A un nemico )

Hai vinto, hai preso tutto:
Premi, editori, angoli
Dentro ogni rivista letteraria.

Hai schiavi liberi, volontari forzati
Che ti danno notizie
A gratis, che ribattono
Ogni cosa tu scriva
Col miraggio accecante
Dei warholiani quindici minuti:
E tu glieli concedi
(Dietro sottoscrizione, beninteso).
Più invecchi, più t’incalza il silenzio finale,
Più rompi il cazzo al mondo
Con cortese preghiera
Di diffusione e di pubblicazione.

Sono pure convinto che tu tolga
(Tra sogghigni, in segreto, attivamente)
Ossigeno agli apostati,
Spazio e critica a chi, pur meritevole,
Non ti porge più ossequio.

Forse pensi sia oro
Quello che scrivi; forse pensi d’essere
Della poesia un Re Mida,
Mentre ne sei nient’altro che clamidia.



( Prospetto: cessazione attività )

Scendere da Elicona, se mai ci si è saliti,
Applicare anche ai versi le ghiacciate
Leggi d’impresa: troppo l’invenduto,
Sottaciute le perdite (ma non meno appuntite),
Inesistenti engagement e inclusione,
Corte le idee. Si sta come i droghieri
Che leggon solitari la Gazzetta in negozio
E sanno vita e morte di quei tre, quattro avventori.

Chiudere con coraggio l’esercizio, proprio come
Si sceglie per vergogna il borgo riparato,
Mézzo di quiete e piscio,
In luogo del lungarno - proprio come
Si serra il cuore al logico cospetto
Della tossica bestia che indubitabilmente
Si è, del dolore ammannito con voglia e controvoglia
Nel ridursi del tutto
A vuoto d’avvenenza.



Primož Čučnik - Trilogia

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Primož Čučnik - TrilogiaPrimož Čučnik - Trilogia (variazioni 2004 - 2014), a cura di Michele Obit - Incertieditori, 2016, note di lettura di Loredana Di Pietro e Giampaolo De Pietro


Primož Čučnik è nato nel 1971 a Lubiana, dove si è laureato in filosofia e sociologia della cultura. La sua prima raccolta Dve zimi nel 1999 ha ottenuto il premio come miglior libro esordiente in Slovenia. I suoi successivi libri sono stati: Ritem v rokah (2002), Oda na manhatanski aveniji (2003, assieme a Gregor Podlogar e Žiga Kariž), Akordi (2004), Nova okna (2005), Sekira v medu (2006) e Delo in dom (2007). A Cracovia, presso la casa editrice Zielona sowa, nel 2002 è uscita una sua miscellanea intitolata Zapach herbaty. Sue poesie sono state pubblicate nell’antologia A Fine Line: New Poetry from Eastern & Central Europe. Traduce dal polacco e dall’inglese. Scrive inoltre critiche letterarie e saggi ed è redattore della rivista Literatura nonché fondatore e redattore della casa editrice di tascabili Šerpa. (Fonte nota bio: Librobreve).


Della Trilogia, raccolta di componimenti dello sloveno Primož Čučnik degli anni 2004-2014, colpisce subito 'immagine delle nuove finestre, a cui è intitolata la prima sezione della raccolta. Queste alludono certamente ai nuovi scenari, politici e sociali, che si affacciavano nella vita dei cittadini sloveni (nel 2004 la Slovenia entrava a far parte della Comunità Europea) all'indomani della conclusione dei conflitti tra le vicine nazioni dell'ex-Jugoslavia. (…) ciò che Čučnik intende raccontarci, fin dai primissimi versi, è proprio il dissolversi della scena collettiva, osservata come una parata alla finestra, (…) un'identità difficile, non solo naturalmente divisa tra personale e collettivo (…) ma anche frantumata e fluttuante: più che di instabilità, si affronta qui una vera e propria alterità dell'essere, (…) dell'essere uno ed essere molti (si cita qui il nume decostruzionista Derrida), in un movimento che logora i confini del tempo e dello spazio, li sbiadisce attraverso il continuo sovrapporsi delle immagini e delle voci. (…) E dunque la poesia di Čučnik descrive, nella Trilogia,una parabola apparente, in realtà un percorso circolare che si ricongiunge a se stesso trascorrendo sui miti del tempo e della modernità, per ritrovare infine una marca d'autenticità in quanto nel tempo resta immobile: l'accadere spontaneo della natura, il calore di un canto ritrovato, con fatica o forse con inerzia immemore (da una nota di lettura di Loredana Di Pietro).



da Nuove finestre (2005)

Per il tuo nome

Vieni qui. Siediti accanto. Vorrei domandarti

qualcosa. Ora, con le nuove finestre,

si vede meglio, tutto pare distinto. I vicini già

curano le piantine e coprono le sementi, qui, tra le case,

a volte osservo l'orto. Ora è diventato

così radioso. Felici, gli ortolani! Io però ascolto le auto

che strusciano per le strade, ai distributori c'è odore

di benzina, dove posso portarti?

I miei antenati erano contadini dell'arcano.

Bello vivere in campagna, diceva la canzonetta.

Ancor più bello è guidare in città, con le orecchie

come auricolari camminare sul marciapiede.

II mio cortile, il bosco, come sono cambiati!

Ora faccio girare le cassette e le monete.

Cosa ascoltiamo, che musica?

Di quando in quando fa davvero bene andarsene

e respirare a pieni polmoni. Oh, guarda, completamente bianca è

la tela di plastica. Di consueto e sempre con sensazioni contrastanti

amiamo il rumore e questi edifici degradati.

Anche l'orto è già fiorito.

Cosa mangiamo per pranzo?

Aspetta, lo so. Tra un po' - dei fiori.


I vecchi muoiono più giovani

Quale senso ha per te, ciò che per me

è l'aria che respiro, e/o l'acqua che bevo,

e/o la lingua che parlo, e posso continuare?

Così camminavo nel bosco, dove spiccavano

la felce ed il cespuglio di mirtilli, là avevi

camminato anche tu, un tempo, forse avrai fatto caso

alle stesse incisioni nel taglio dei tronchi, al muschio nel lato giusto.

A tutti coloro che incontravo proponevo

di parlare la mia lingua; ma in realtà non ve n'erano molti,

sui marciapiedi rotti ho solo sfiorato dei rami.

Leggero e sottile ero, quasi una foglia, quasi un sentimento

annacquato, quasi un'antera sparpagliata,

una diversa natura. Senza un senso messo in mostra,

senza preavviso. Una scritta strana sulla tua fronte,

bolle di sapone dei sorrisi dalle labbra,

rastrelliere rotte e granai colmi di attrezzi da giocoliere,

li usavi abilmente. In questo traffico confuso

è meglio rimanere giovani, agli occhi degli altri

e nel proprio bosco incantato. Con occhi altrui,

in un'altra natura che a volte ti esclude,

poi prende un'altra direzione, quella dove decidi per queste due parole

in una stanza silenziosa, silenziosa sino a che non cominciano a parlare

e/o a suonare un violino che evapora,

i sussulti di corde amare.


da Casa e lavoro (2007)

Per E.D.

ad Amherst ci sono stato una volta -

nell'autunno 2004 - la compagnia chiacchierava -

io dormivo - esausto -

al capezzale del divano e dell'immortalità.

in qualcosa bisogna investire -

ho sentito nel dormiveglia - mi addolciva il sonno -

parlavano sottovoce - le cose in modo opportuno -

solenne - è difficile dire - chi per primo

ha guardato la lancetta senza quadrante.

la cosiddetta - eternità - ha bussato -

è difficile dire: chi per primo ha sentito - tok, tok -

e questo è quanto - di questa avventura.

prima qualcuno l'ha già detto - Lori forse - che si trova

qui da qualche parte - un osservatorio astronomico - e una casa

qui attorno - ci siamo passati vicino -

è stato un bellissimo giro

per la parte bassa di Amherst.

ci eravamo davanti - e siamo entrati -

senza oltrepassare la soglia - abbiamo investito -

le nostre anime forse - qualcosa di simile.

la nostra neve degli anni che furono - non si è ancora sciolta -

ora è caduta sul tuo giardino

trasformando questo autunno in inverno - bellissimo -

tutt'attorno - tu sola - un elemento interlocutorio.


da Come un dono (2010)

Avvisaglie di primavera, Hopkins

Il paesaggio a metà marzo, mosso dal vento impetuoso,

in strada mulinelli di sacchi di plastica, per dei metri -

qua e là - ci ritroviamo nel ruolo di oscuri suggeritori,

bianche violette ai margini della platea campestre -

ed un pubblico di castagni ramosi, di betulle, scortecciato

accoglie la rappresentazione preparata, così amata

da scandire - di primavera nulla si misura con la bellezza.

Nulla - mucchi disciolti di merda, noti per la loro bruttezza,

non le ombre, turbate dalla presenza di buoi, erpici, speroni,

non i carri alla prima, che roteano sull'asse il giro d'onore,

non i pezzi grossi, i balconi di ciclamini, le liste selezionate...

Ciò che per il poeta è estasi - stagione dopo stagione -

per l'attore è erosione - i suoi ruoli sono finiti -

sulle foglie del tarassaco nella zuppiera abbiamo sparso le primule.


Primavera, continua

Per questo sarebbe il caso di morire ancora una volta.

Per questa idea - il tempo che avrebbero dovuto già superare,

quando erano finiti nel bosco, giovani con il fucile in spalla,

nei momenti del disappunto, con i compagni, spalla a spalla

e con questa notizia - aspra, cattiva - ammucchiata

come tutti i problemi e congedata, un'alzata di spalle,

e trasferita - al domani - sogni di libertà, vuoti,

e sistemata con cura, sventolante - solo

allora utilizzata - umiliata, discreditata, dolente.

L'idea della primavera, per tutti la stessa, con enfasi su «per fortuna».

L'esaltazione per gli stendardi, sventolano come promesse argentate.

A questo dovremmo ancora una volta iniziare a credere -

come un tempo. Era una giusta battaglia. Per questo. Non è impossibile.

(Anche se siamo già salpati per versarla in mare

il vento ha gettato indietro la cenere, tra i parenti in lutto.)


La primavera inoltrata

è la più importante. Tutto il resto è un pretesto per essa.

Ad esempio il tempo in primo piano, che prendi estremamente

sul serio. Una nuvola sopra la città tedesca, bianca, che ricopre

l'azzurro, che si disperde nell'informità, velata

e sfuggente, come un'antica consapevolezza. D'inverno è deprimente,

stavo appartato, più che di solito, mi aveva colpito

questa impressione moderna, tra tutti questi peccatori,

sotto un grigio coperchio, adesso non potresti immaginartelo.

No. Tutto è solo un pretesto: il cibo, il sesso, il bere, il potere,

la carriera. Ho avuto bisogno di anni per ricomporre quella nuvola

che ora fluttua attraverso la mia testa - in parte coperta,

bianca, sfuggente e -                                          - quasi muta.

Forse sei in dolce attesa. Oppure sono solo. Non ho forza,

ho solo forme. Qualsiasi cosa accada, hai la parola.


Le mie ortensie

Il linguaggio è uno dei concetti universali,

perciò dobbiamo usare le strutture dei dialetti,

delle peculiarità dei vernacoli, degli slang

per poterci capire. Lo stesso linguaggio, la stessa aspirazione

alla libertà, ma quante incomprensioni.

Un popolo è una moltitudine universale di singoli

che ha mostrato un linguaggio ad un'altra moltitudine universale, ecc.

O è questa una nazione. O è l'Europa.

Cosa sto dicendo, il nostro scopo è catturarli il prima possibile.

Perché le vecchie strutture attraversano i nostri segnali

e disturbano i trasmettitori. Perché non ci porta più lontano.

Non è poi detto non lo faccia,

ma di questo ci hanno convinto.

Resta comunque la domanda:

Da chi, e perché ci facciamo ingannare?

Siamo davvero così ingenui

da non aver ancora scoperto il mistero dello Stato.

La colla che lo tiene attaccato.

E se lo avessimo fatto, avremmo ancora bisogno di discorsi?

Cosa celebreremmo invece del governo?

Le mie ortensie, le mie ortensie.

O l'inganno è universale

o ci incolliamo singolarmente.

Cosa sto dicendo, questo è il tempo del nuovo ottimismo.

Basta che siamo sani.

Basta che le viti diano frutti.

Ognuno per sé lo sa, cosa sono le proprie ortensie.

La lingua è un concetto universale che ci frantuma.

L'amore ha con sé il fagotto degli assilli condizionati.

Il papavero è la sua catenella.

Per intenderci, il sospetto ci fa paura.

Il legno si asciuga e ci dà allucinazioni.

La bella lingua annaffia sgradevolmente -

annaffia e lecca e incolla

le mie ortensie.


Patti Smith - Higher Learning, una nota di Elisa Castagnoli

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Patti Smith, "Higher Learning" (esposizione fotografica a Parma)Patti Smith

Patti Smith riguardo a “Higher Learning” la mostra fotografica a lei consacrata in occasione della Laurea Ad Honorem conferitale il 3 maggio a Parma afferma: “In termini di formazione è l'omaggio a un altra forma di sapere, l'università della vita, dei libri, dei poeti e dei viaggi”. “Queste immagini”, spiega la Smith, introducendo la raccolta inedita di centoventi polaroid in bianco e nero, poi di citazioni e opere letterarie che hanno ispirato il suo lavoro nel corso degli anni, “sono rappresentazioni visive del pellegrinaggio e della gratitudine, un infinito amore e rispetto per quelli che rappresentano le voci della nostra cultura attraverso le loro più grandi opere e l'umiltà dei loro più piccoli gesti o strumenti”. Le immagini, scattate con una vecchia macchina fotografia Land 250 Polaroid e stampate in copia argentea ad edizione limitata di dieci copie raccontano i viaggi, le peregrinazioni, gli spostamenti, tracciano la storia delle influenze letterarie, la serie di voci poetiche e artistiche che hanno accompagnato o seguito il cammino della compositrice punk rocker e poetessa Patti Smith nel corso degli anni. Scandagliano, in particolare, i dettagli, gli oggetti, una serie di indici e indizi visivi che ci pongono sulle tracce di una storia culturale condivisa e insieme personale della Smith come in una inedita creazione letteraria nata da tali peregrinazioni attraverso il globo. Vi compaiono manoscritti, macchine da scrivere, interni di atelier o abitazioni dove scrittori e artisti-amici hanno impresso le stigmate della loro vita e opere, poi corsetti, stampelle, medicinali, dettagli di luoghi che si riallacciano simbolicamente a singole biografie - uno per tutti la sedia rilegata in pelle lucida dall’eleganza assoluta e ineguagliabile di Roberto Bolano -, infine i sepolcri dove scrittori e poeti hanno lasciato la loro memoria per l’eternità. E ancora sono polaroid in autoritratto, una vestaglia discinta distesa su un letto, l’abito nero appeso di Beuys, la bandana di William Burroughs, istantanee riprese nel corso dei diversi viaggi in Europa, una croce vicino al mare, le insegne dei caffè che hanno segnato il percorso dell’artista da Detroit a Berlino, da Venezia a Marsiglia, infine l’eterno Café Ino, nello scorcio tra il tavolino d'angolo e la finestra. Là è l’antro silenzioso dove la scrittrice si rifugiava a leggere, riflettere o semplicemente osservare e lasciar fluire di fronte agli occhi sorseggiando caffè nero in solitudine.

Café Ino



Una più alta idea di formazione apre il percorso di “Higher L earning” intesa come processo di apprendimento non solo di un sapere ma dell'esistenza tutta attraverso le multiple esperienze del cammino, del viaggio, dell'esplorazione e della perdita, tracciando in ogni caso un percorso, accidentato o meno, fatto di accelerazioni, ascese, sospensioni o vicoli ciechi, soste obbligate, deviazioni e ritorni sotto la guida delle invisibili grandi voci, poetiche e umane che, in filigrana hanno accompagnato come i maestri la nostra esistenza tutta: “menti, cuori e lavoro di mani che hanno continuato e continuano a contribuire al calderone di conoscenza di un più alto sapere”. Come nel collage di oggetti appesi all’ingresso della prima sala, una bacheca si trasforma in un ipnotico scrittoio, un tavolo di lavoro aleatorio dove si ricongiungono disordinatamente appunti, note, disegni o schizzi solo accennati, stralci di libri o frammenti di poesie, pagine scritte o bozze appena corrette.

Bolano's chair


Perché, come afferma il testo della canzone nella prima sala, "i figli dispersi sulla terra", un bambinetto perso nel mondo, ma anche i semi deposti scavano profondamente il suolo; sedimentano dentro la terra e, ogni volta sommersi, in apparenza non visti lasciano generare, crescere e attecchire germogli dentro l’innato humus del mondo. “Ogni volta che diamo aggiungiamo una parola, lasciamo udire un respiro, gettiamo una nota, lasciamo germogliare un nuovo bocciolo o attecchire una piccola perla sul bracciale di tutta la conoscenza del mondo”. Allo stesso modo la poetessa depone simbolicamente un filo di minuscole perle trasparenti e azzurrine sul sepolcro di Rimbaud a Charleville - quelle pietruzze che venivano dall’Abissinia dove non era potuto tornare morendo a Marsiglia prima del suo ultimo viaggio - e più tardi raccoglie sassi sul sepolcro di Genet ricordando che quelle piccole polaroid racchiudevano una “missione stessa che aveva dimenticato da tempo”.

Rimbaud's fork and spoon


Come Patti Smith scrive nella biografia pubblicata nel 2016 M Train: “Per come la vedo io, tutto è possibile. La vita è in fondo alle cose e la fede in cima mentre l’impulso creativo dimorando al centro dà forma a tutto(…) Quando i miei figli erano piccoli costruivano bastimenti come quello: Li facevo navigare anche se non salivo a bordo. Raramente lasciavo il perimetro della casa. La sera recitavo le mie preghiere in riva al canale coperto da antichi salici piangenti. Le cose che toccavo erano vive. Le dita di mio marito, i soffioni, un ginocchio sbucciato. Non cercavo di incorniciare quei momenti, passavano senza souvenir. Ma adesso attraverso gli oceani al solo scopo di possedere un’unica immagine, il cappello di paglia di Robert Graves, la macchina da scrivere di Hesse, gli occhiali di Beckett, il letto in cui giaceva malato Keats”.

Hermann Hesse's typewriter


Le immagini si susseguono silenziose e senza commenti una sala dopo l’altra incorniciate in piccole dimensioni - rigorosamente in bianco e nero - su un fondale bianco, poi sulle pareti svuotate della galleria.

La macchina da scrivere di Herman Hesse. Una tastiera nera, immensi bottoni bianchi, candidi e circolari procedono verso l’infinito e poi di ritorno come candele o bianche fiamme inviando a un più alto sé spirituale. Il solco diviene passaggio, cammino sul sentiero infinito della scrittura.

Il manoscritto non-finito di Genet: una stele e una sindone impressa di sangue e sudore, impronte di dita di un corpo invisibile, dileguato e scomparso, crocifisso sulla pagina. Una pagina scritta come una croce, minuscoli caratteri ridisegnano in controluce l’impronta a vivo di un corpo trasudante di parole e stigmate sulla superficie combusta di una pergamena sofferta come la sua esistenza.

Il letto di Keats: una distesa piumata, un paradiso soffice e rigoglioso rigurgitante di vita e di passione, la lotta a ridosso della malattia in nottate insonni e travagliate di attacchi e crisi respiratorie. Un copriletto chiaro, una massa lieve, morbida e ascendente come parole di poesia. Immerso nell’oscurità ma trafitto da punti di luce. Bianca ispirazione abbeverandosi direttamente alle fonti della creazione.

Keats' bed


Un fiume corre, l’Ouse, ripreso in fotografia su una strada aperta verso un infinito della natura: grigio-bianca vallata d’acqua, un letto aperto perdendosi oltre il nostro sguardo. Oggetti simbolici e insieme fonti di riferimento letterarie scorrono sui muri: le stampelle di Frida Kahlo ovvero arte e vita annodate nel laccio serrato di un’esistenza dolorosamente esperita e della pittura come trasmutazione. Incorniciate, appaiono accanto al bastone da passeggio di Virginia Woolf, uncinato contro un muro neutrale come segno opaco, intransitivo e assoluto evocando tutto un universo poetico e umano al di sotto. E ancora, il corsetto di un corpo simbolico, indice di creazione in Frida Kahlo impresso delle sue mutilazioni, mutazioni, protesi e trasmutazioni in autoritratto. Vediamo la sua stanza da letto e ancora un copriletto bianco, un ammasso di coltri spiegazzate, impresse a vivo dello scheletro smantellato e ricomposto del suo corpo. Lenzuola vi appaiono trasudanti e segnate, violate e stigmatizzate a immagine dello scheletro di una figura anatomica appesa al di sopra.

Kahlo's clutches


Nella polaroid accanto il letto bianco è ricomposto nella perfezione immacolata di una tela ricamata a vivo sui rovi della sua bianca sterilità. Una croce luminosa lo trafigge trasversalmente come luce che rifrange tracciando la sua diagonale all’angolo della finestra.

Frida's bed


Le pagine fotografate, ancora, sono quelle degli Atlanti di viaggio sfogliati, maneggiati e accartocciati di Rimbaud evocando le alchimie immaginarie, i deliri o la potenza di visione, poetica e folgorante, delle sue Illuminazioni. Scrive la Smith in M Train: “Quello che ho perso e non riesco a ritrovare lo ricordo. Quello che non riesco a vedere provo a richiamarlo. Lavorando su una sequenza di impulsi, sfiorando l’illuminazione”.

Nel lavoro di Patti Smith l’impulso poetico dalla musica alla fotografia alla scrittura è proprio questa legge o necessità interiore, questo fluire e scorrere di un sentire e di un corpo, di un ritmo e di un linguaggio che si impone come un richiamo essenziale permettendole di mettersi in contatto con un più alto sé, divino e spirituale in essenza, per riuscire a "toccare o abbracciare il cuore delle persone" attraverso le esperienze o le immagini più semplici e straordinarie : “qualche volta solamente guardare il cielo, un pezzo di lavoro che componi e trovi eccezionale , una persona che ami o ancora vedere i tuoi figli”.

Nella serie di polaroid “My House” è come un occhiello aperto su un fondale oscuro, un primo piano su una casa vista attraverso una lente di ingrandimento fotografico. La casa è un rifugio, una costruzione in legno fatiscente a un solo piano, isolata, vuota, ma gli antri aperti e luminosi dell’esterno portano verso l’interno come verso gli antri segreti del proprio essere. Aprono questa via luminosa a uno spazio vuoto dell’interno, lo svuotare e il lasciar fluire o affiorare nella solitudine, nel silenzio, nella sottrazione di presenza e di materia come se un lungo papiro di carta si dispiegasse giorno dopo giorno di fronte ai nostri occhi scrivendo. Un passaggio attraverso un deserto immutato.

“La casa è uno scrittoio. L'amalgama di un sogno. Casa è i gatti, i miei libri, il mio lavoro che non faccio mai. Tutte le cose perdute che potranno un giorno chiamarmi, le facce dei miei figli che un giorno mi chiameranno. Forse non possiamo materializzare le nostre fantasie ne trovare uno sperone impolverato ma possiamo raccogliere il sogno stesso e riportarlo nella sua unica integrità”.

Attraverso la fotografia, afferma la Smith, possiamo raccogliere un sogno, la vertigine di qualcosa di infinitesimale, sfuggente, invisibile ad occhio nudo e mostrarlo o riportarlo visivamente alla sua integrità. Come il primo piano su antri aperti conduce verso l'interno della psiche e del pensiero, le pietre sepolcrali con i fiori deposti intorno e sopra simbolicamente restituiscono un pezzetto dell'anima, del nome di chi lì riposa.

God's hand, Rome


Fiori deposti intorno al sepolcro di Sylvia Plath, sulla pietra selvaggia e spoglia di Jean Genet; una croce piantata sull'ammasso di terra di Dylan Thomas. Una rosa per Samuel Beckett sulla sua pietra spoglia sprovvista d'ogni altro carattere se non la data di vita e morte incise sulla pietra di Montparnasse. Un angelo scrive sulla tomba di Rubin, un altro veglia su quella di Mozart a Vienna. Una pistola nera, traslucida e riflettente in primo piano appare, quella con cui Verlaine sparò a Rimbaud nell’abisso di una “stagione all'Inferno”. L'abito bianco di un fanciulletto, poi la colonna lapidare dell'amico scrittore William Burroughs, dai caratteri maiuscoli e incisi mentre lei, minuscola in remissione appare seduta accanto . Infine un omaggio a Pasolini: sulla pietra slavata dell'immagine un mazzo di fiori e una luce iridescente rischiarano il nome inciso a caratteri chiari, maiuscoli e magnificenti.

Per Paolo Pasolini's grave


Dall' autobiografia M Train : “Credo nel movimento. Credo in quel pallone spensierato: il mondo. Credo nella mezzanotte e nel mezzogiorno. Ma in cos'altro credo? Certe volte a tutto, certe volte a niente. Fluttua come luce che volteggi su uno stagno. Credo nella vita che un giorno ciascuno di noi perderà. Da giovani pensiamo che non accadrà, che siamo diversi. Da bambina pensavo che non sarei mai cresciuta se lo volevo. E poi ho capito, abbastanza di recente, che avevo oltrepassato una linea, nascosta inconsapevolmente nella verità della mia cronologia. Adesso sono più vecchia del mio amore, dei miei amici scomparsi.. ma continuerei ugualmente a vivere, rifiutando di consegnare la penna”.

In “Self-portrait” il volto appare a raso dell'obbiettivo quasi uscendo dall'inquadratura per vedersi osservare il mondo, scrutare, ricevere o gettare il proprio sguardo all'esterno per fare traccia, incidere l'esperienza, rendere alla poesia il proprio segno ritmico, musicale, visivo o propriamente del linguaggio poetico. Il primo piano su un viso di una piccola polaroid in bianco e nero. Gli occhi socchiusi, il volto colto a scorcio nella semi-oscurità. Sfuggente si rende schivo alla visione diretta, frontale e luminosa della macchina . E' nella ricerca di sé, nella captazione dell'istante, nel fluire del movimento vitale, nella ritorsione da un io condiscendente e borghese, nella rivolta voluta o invocata attraverso l'idea democratica di tecnologia e potere riscattato dalle persone. Si dona a noi obliquamente, indirettamente anche se in primissimo piano come un volto e una voce dell'inquietudine creatrice, della tormentata non-quietezza dell'essere; lei, nell'interrogativo sull'esistenza ma, soprattutto, nell'invocazione costante alla bellezza e alla forza di vita. (elisa castagnoli)


Sel-portrait

Donato Di Poce - Poesie, una nota di Rita Pacilio

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donato di poceLa visione policroma di Donato Di Poce

Quattro opere poetiche di Donato Di Poce: La zattera delle parole (Campanotto Editore, 2005) La stanza di Arles (CFR Edizioni, 2014) Ut pictura poesis (com press, 2016) e Rompete le righe (Campanotto Editore, 2016). Un lungo percorso tra la parola e ogni forma d’arte per evocare i suggestivi panorami del mondo. Nessun verso è articolato senza l’incitamento fascinoso di suoni, giochi grammaticali e rigore intellettuale. Il rapporto tra l’arte visiva e il linguaggio poetico, non si disgiunge dalla consapevolezza della memoria in cui il segno e il senso si relazionano con il tempo e il surreale. Lo studio delle vicende umane sui dipinti segue una selezione rigida e critica che ripristina le logiche e i frammenti autonomi da salvaguardare. Un’operazione che prevede attenzione, lettura e ascolto dell’opera che si ha di fronte al fine di penetrare l’aura misteriosa che la sovrasta. Le dediche poetiche, gli aforismi, ogni verso ci rimanda a interpretazioni dell’incontro e del distacco di luoghi e quotidiani perduti, ritrovati, cambiati e rinnovati dalla ricomposizione visionaria dei fatti. Pagine a tema, dall’approccio storicistico, rincorrono le attività essenziali dell’autore che cristallizza i disagi esistenziali e la profondità delle cose trasformando il ‘nuovo’ in una ennesima devozione. Sembra che Di Poce oscilli tra lo slancio del divenire e l’incertezza del presente traducibile esclusivamente attraverso la poesia. La poesia che esplode nella voce e nell’estetica di cui si arricchisce in modo fecondo e naturale. Quindi, la funzione della parola diventa centralità e scopo per il ritorno alle forme ispirate direttamente dalla realtà, quasi a sentirla come metalinguaggio, per meglio descrivere situazioni contemporanee e panorami postmoderni. La sensibilità capta ogni suono dall’opera mettendo in contatto stretto immagine, regole semantiche, conoscenza dei quadri cromici, luce e strati sincronici a volta celati. (rita pacilio)



Invisibili Inchiostri

Per Mario Benedetti

Il vuoto sillabava l’attesa per te solo

Per queste linee che inseguono

Qualunque impossibile figura

E trapassano il cuore

Come un vento nero.

E mentre sulle carte silenziose

Nascondi il rumore del mondo

Invisibili inchiostri

Mi strappano da un abisso.

E non so spiegare

Perché i tuoi segni

Toccano le pareti della mia anima

Ma come te consumo la vita

Dietro spirali di fumo

Cancellando le distanze

Tra Anima e superficie

Tra Corpo e Nome

Senza clamori, senza distrazioni.

Milano, 24/1/2000


LA CASA DI ALBERTO

Per Alberto Casiraghi

Cercavo parole leggere come la sabbia

E un sorriso di vento per i giorni futuri

Ma nella tua casa trovai

Tre principesse slave

Sette balene e una giraffa

E poi la stanza delle fragole

Le poesie appese alle pareti, le nuvole

E le api più belle del mondo.

In un’altra stanza

Tra le rotative scorreva

L’inchiostro dei pensieri brevi

L’inchiostro delle combustioni

L’inchiostro delle ciliegie

L’inchiostro dei desideri

L’inchiostro delle contaminazioni

L’inchiostro dei gesti

L’inchiostro delle materie.

In cucina c’erano tutti ,

Amici, poeti, domatori, clown

Violini, caprette e telegrammi.

Io non avevo mai visto una casa così bella

E mi sentii un ospite inadeguato

Un passero impazzito

Che ascoltava in silenzio

La musica del tuo cuore.

Milano 14/4/99

Poesie tratte da Ut Pictura Poesis

Donato Di Poce, nato a Sora - FR - nel 1958 ma residente dal 1982 a Milano è poeta, critico d’Arte, scrittore di aforismi, fotografo. Tra le numerose pubblicazioni di poesie ricordiamo: VINCOLO TESTUALE, Lietocollelibri, Como, 1998, scelta antologica, con testi critici di Roberto Roversi, e Gianni D’Elia; L’ORIGINE DU MONDE, Lietocollelibri , 2004; LA ZATTERA DELLE PAROLE” Campanotto Editore, Udine, 2005, nel 2006 ristampato e tradotto con testo inglese a fronte, con traduzioni di Daniela Caldaroni e Donaldo Speranza, sempre per la Campanotto Editore, Udine; LABIRINTO D’AMORE, Lietocollelibri, Como, 2013; UT PICTURA POESIS , Dot.com Press, Milano, 2016. Ha curato l’Antologia “CLANDESTINI, Lietocollelibri”. E’ presente in numerose Antologie tra cui “DESAPARECIDOS”, ED. STAMPA ALTERNATIVA,2002; L'IMPOETICO MAFIOSO, CFR Edizioni, Sondrio, 2011; AFORISMUL IN ITALIA, editura Focus, Romania, con alcuni suoi aforismi tradotti in Rumeno; VARIACIONES DE TINTAS a cura di Fernando Menendez, Spagna, 2012; La MOSCA di Milano “Sguardo e Visione”, nr. 24, Milano, Giugno 2011 con suo testo critico e fotografie. E’ presente in diverse Antologie di Poesia Contemporanea, tra cui le due sulla BELLEZZA (Arcipelago Edizioni – MI- ) a cura di Tomaso Kemeny.


Joaquín Pasos - Poesie

Paolo Valesio - Il servo rosso / The red servant

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Paolo Valesio - Il servo rosso / The red servant (Poesie scelte
Paolo Valesio - Il servo rosso / The red servant 1979-2002), con trad. in inglese di Michael Palma e Graziella Sidoli - Ed. Format Puntoacapo, 2016

Non ho una particolare predilezione per le antologie, comprese quelle tematiche. Forse perché sono selezioni di selezioni - una cosa che a mio avviso non ha altrettanto pregio dei superlativi assoluti ebraici (tipo il santo dei santi, per intenderci) - tanto più se la selezione è opera dello stesso autore, una autoantologia insomma. Che da una parte può certo aiutare il lettore, fornendo un fil rouge anche filologico o interpretativo (e in questo caso copre oltre venti anni di attività), dall'altra chiude l'opera, come potremmo dire travisando un pochino il pensiero di Eco, Barthes e compagnia bella (cosa a cui mi pare alluda anche Gian Maria Annovi in una delle note al libro). Nel senso almeno che il lavoro passa attraverso la distillazione, in primis, del senso estetico ed autocritico dell'autore. Che fa il punto della situazione e contemporaneamente - soprattutto se il libro è di una particolare compattezza tematica come questo - pone la tesi e l'ipotesi dimostrativa, l'espressione e la dichiarazione di un amor che ha attraversato quasi senza sosta il pensiero, l'atteggiamento etico, la vita dell'autore. E che attraversa questo libro.

Un amor che si sostanzia, al livello più evidente, in una manifestazione - anzi una professione - di fede, in un dialogo con una presenza trascendente e ubiqua, latente ed evocata, che permea l'urbe e la natura, e che è il Dio che si può nominare (e si nomina), non quello che si manifesta inannunciato in una qualche epifania di cui la poesia possa registrare la meraviglia, è il Dio che popola le preghiere, quello ricercato con la volontà della parola e con una continuità che richiama alla mente un esicasmo (qualcosa che assomiglia a una novena o a un rosario) però inquieto, non pacificante. Una lunga prece, attraverso le raccolte qui rappresentate, a cui la poesia dà forma e veste, anzi diciamo meglio, dà una forma pubblica e per ciò stesso non intima, poiché pregna sia di una volontà di rappresentazione artistica sia di una testimonianza morale; e insieme privata, non solo per i pensieri che esprime ma anche, in molte occasioni, per la privatezza del linguaggio, l'invenzione e l'uso e riuso delle parole, la selezione operata nel vasto bagaglio culturale dell'autore e la loro dispositio, per dirla in termini ciceroniani. Ed anche per un certo mettersi in discussione, a nudo, ad esempio scegliendo di riflettere su momenti critici della propria vita.

Scelta non facile, in questi tempi in cui non si può parlare di vera agnosi e forse nemmeno di vera laicità e il relativismo è alibi ancorché vuoto. Scelta che certo può risultare straniante e forse un tanto escludente, col suo ricorso ad una speculazione (usiamo per un attimo questo termine) poetica di questo tipo e tono, di questa qualità di scrittura che mi pare collocarsi (però altamente sublimandoli) fuori dalla storia e dal tempo (figurarsi poi dal cosiddetto mainstream), tonalità e scrittura che però forse assicurano al lettore una giusta distanza "classica" dalla difficile materia che è chiamato a condividere, risuonando esse a volte come  in una chiesa barocca a volte in una cella claustrale.

E' naturale che quella dell'autore non sia una mera meditazione sul metafisico o sul trascendentale. C'è innanzitutto in questi versi una forte coscienza della centralità dell'uomo, dell'essere, della sua capacità di articolare qui e ora un verbo autonomo, che non proviene da un Ente, ma che è espressione di una intima umanissima natura, tanto che a volte il dio e l'io si confondono ("orante io superorale", dice Annovi), una aferesi che rimanda direttamente a una "immagine e somiglianza" che, a pensarci bene, è insieme nucleo centrale della fede e pesante lascito e responsabilità per l'uomo. Meditazione sull'evento e la sua offerta a (o corrispondenza con) Dio, rispecchiamento nel divino o viceversa in quanto di divino contiene la vita, anche allorquando l'uomo riscontrasse una sua solitudine, una sua orfanezza da Dio medesimo. Anche allora, anche in quel dolore, mi pare dicano questi versi, rimarrebbe forse dubbiosa o incerta ma intatta la coscienza, l'intelletto (e forse l'orgoglio) dell'uomo di sé, dei suoi limiti ma anche delle proprie forze, anche nella dialettica costante con l'Altro, o con la propria anima, il proprio "servo rosso".

Anche la preghiera, se vogliamo, è un'invenzione dell'uomo, la creazione di un medium, di un linguaggio, di un canale di comunicazione (o comunione), di un sollievo. Invenzione non solo nel senso storico evangelico, ricordando che il Cristo ne ha insegnata e lasciata in legato una soltanto - e ricordando anche (tornando sui binomi pubblico/privato, preghiera/poesia) quel che dice Matteo (6.5-8): "quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto" (un discorso, appunto, di privatezza che la poesia non può né deve riconoscere); ma anche come artifizio retorico (sia detto senza nessuna connotazione negativa), esattamente come la poesia stessa, nel suo istituirsi come "voce" o canto che racchiude in sé la sua bellezza o il suo fine.

E la preghiera, nella necessità ancestrale dell'uomo, è anche comunicazione univoca, a cui non segue risposta, o ne segue per vie e manifestazioni ellittiche o forse non immediatamente percepibili. Ma Valesio, come tutti i credenti, non ha ragione di porsi il problema, la domanda viene formulata, o solo suggerita, e magari non è nemmeno una vera domanda ma una invocazione gettata in aria, ed è questo il senso della sezione del libro intitolata "Volano in cento (Poesie 1999-2001)", cento "dardi" scagliati verso l'alto, giaculatorie (di cui "dardo" è calco etimologico) con le quali l'invocazione si libra e che in sé esauriscono la loro funzione, si conchiudono come una dossologia, poiché "Se non mi dai risposta questo è il segno / che mi stai ascoltando". E' l'essenza della fede. Nessuna pretesa né sicurezza di riscontro, la preghiera (e anche la poesia, tutto sommato) non è "la formula che mondi possa aprirti": non lo è con certezza, e forse non lo è nemmeno per Valesio. Ma io credo che nel "contrasto" tra poesia e preghiera, nella sospensione del tempo che la preghiera assicura, nella sublimazione e annegamento mistico dentro la poesia e nella riformulazione della preghiera in quella, nel suo fondo, Valesio cerchi una sua personale sintesi. Una sua gnosi. (g.cerrai)


da IL DIALOGO DEL FALCO E DELL’AVVOLTOIO (1987)

 Alla figlia della sua giovinezza

Vedi, è quando io sono da solo
che siamo, noi due, insieme –
no, non nel senso
del trucco dialettico
o giuoco diabolistico dei contrari.
Quando io mi ritrovo da solo,
ma veramente solo, che vuol dire:
solo di fronte a un rischio, e sopra tutto
in faccia all’ incrinatura
fessa, della follìa – della scalmana,
vittima della mattana che mi astrae
in concretezza eccessiva
di capelli sudati sulla fronte
è in quel momento
che io non sono più figlio-creatura,
non più animale debole che possa
venire in traccia d’un suo genitore
per rifugiarsi, per succhiare aiuto;
è solamente, dunque, in quel momento
quando io non sono più figlio
che io posso pensare a cominciare.


da AVVENTURE DELL’UOMO E DEL FIGLIO (1996)


La nona giornata della Novena di Santa Teresa di Lisieux

Ieri notte
gli è sembrato di stare ritto in piedi
ad essi rivolto, e di dire:
« O sorelle e fratelli dell’acquario –
in questa chiesa grande di Saint Mary
che (lo ha detto un parroco invidioso)
‘ha le pretese di una cattedrale’–
lo sentite anche voi
che l’aria del mattino è come acqua
filtrata dall’ampie vetrate
ricamate di piombo e di colori?
Nàutili dello spirito
o palombari condannati,
galleggiamo sospesi
(non c’è nessuno
con cui verificare la realtà).
Siamo pochi a quest’ora – una ventina –
ed ognuno di noi ha un lungo banco
tutto per sé.
Al momento del segno della pace
non ci serriamo le mani,
ma ci salutiamo da lungi
leviamo leggera la destra
con un gesto che nasce
da un certo qual languore e sonnolenza
ma che finisce
con il diventare solenne.
Non siamo
affamigliati insieme
non scorrono tra noi
fili di amicizia
o rivoli di sangue.
Siamo soltanto un piccolo
popolo dentro a un cuore.
A ogni alba parliamo con qualcuno
che mai risponde
(così che in certi momenti
ora l’una ora l’altro di noi
si sente stupido e bruto)
ma che pure non cessa di ascoltarci.
E questa sua perfetta equidistanza
questa
indifferenza stupenda
come la superficie di un gioiello
abbraccia l’universo
e valica al di là dell’universo.
Così, faccia a faccia
con l’equanime forza che ci schiaccia,
quanto ci può aiutare
questa santa che parla di rose?
Sotto l’ombra gettata
dalla croce patibolare
le rose incominciano a tremare.
Il tremito dei fiori ci contagia;
in silenzio
ognuno tra di noi chiede soccorso
per la sua povera
anima crudele» .


da ANNIVERSARI (1999)


Il servo rosso

Stamattina ha cavato fuori l’anima.
Era prima del sole
                        (se non si desta nel vibrar del buio
                        perde il suo appuntamento con l’alba).
Ha affondato pian piano la mano
dentro la gola
per alcuni minuti: dolore
(gli sembrava di mordersi la gola
con i suoi stessi denti),
e ha posato il minuscolo uomo
rosso come lacca
(era unto di sangue)
sul tavolo; l’ha ripulito,
quasi fosse cornice d’argento,
con un lembo di pelle di camoscio.
Al momento di riporlo,
le mani hanno un poco tremato:
se non avesse più trovato il posto?

25 gennaio 1995


da PIAZZA DELLE PREGHIERE MASSACRATE (1999)


Sperso

Quello-in-croce che lei gli ha regalato
                        (di ottone rosso: un torbido antiquario
                        l’ha venduto con mani un po’ tremanti)
e che sta appeso al vertice, al triangolo
del soffitto di legno:
lui si sente incitato, nel silenzio,
a rivolgersi ad esso
e quasi corre in camera
e si piega giù ai piedi del letto.
È l’ora blu-morente del crepuscolo,
e già la cosa non si vede più
la parete è soltanto una macchia
di buio che calmo s’addensa –
un colpo di pennello dietro l’altro –
e lui resta insicuro
che ci sia veramente,
quel patibolo piccolo lassù.



La tentazione

Forse passai la vita respirando,
giornata dopo giornata,
gli odori di un’alba non mia.
Viene sopra di me la tentazione
della disperazione:
io e la vita mia,
mai ci siamo incontrati. Ma poi penso:
queste albe, qualcuno le ha mandate;
queste albe, qualcuno
le deve accogliere.


da VOLANO IN CENTO (2002)


Dardo 7: Contra Platonem

(Simposio, 203b)

Se Eros nasce dalle furtive nozze
di Povertà e Ingegno in giardino
quale mai dio scugnizzo e fosco
(dio-demone della mia vita)
nasce dal congiugnimento
del Silenzio e la nuda dei boschi,
la Nulla?



Dardo 9: Contra Lucretium

Con gemiti, la natura
genera senza voce la preghiera:
i cespugli e gli alberi qui fuori
sudano trasudano
                       (contagiando l’interno della stanza
                       dove il legno ha profumo di selvatico
                       come un’ascella)
dopo la pioggia.



Dardo 19

Io prego e non comprendo
che cosa sia preghiera.
Polimorfa richiesta indifesa
per cui pregare vuol dire
vincere la vergogna
che si annida in ogni petizione?
O è afferrare la corda che salva,
la monistica supplica di unione?



Dardo 65

Nei rari momenti (ad esempio
nello specchio abbrumato di un motel)
in cui lo sguardo declina
verso il corpo in sua povertà
(defoliato dagli anni) e nudità
intorcigliato intorno all’indifeso
oscuro pene contro
il pallore del ventre
dunque in disperata purità
là dove la miseria
escludendo vergogna
è la modesta via maestra
verso la dignità –
ecco io allora scorgo il corpo di Gesù.



Dardo 78: Phoné

O mio tesoro
ardente e oscuro:
sei la fotografia
spietata come tutte
(ma maggiormente incide la spietà
là dove il suo oggetto è più vitale)
dei solchi brutti
nell’anima mia.
Io la vorrei più bella, questa anima,
perché tu scintillassi di tutte le più belle
sonorità.

“Teatro del Fontanone”, Roma



Dardo 86

L’unico modo, a questa
altezza di vita,
per riconciliarsi con la notte:
l’estenuazione – dentro cui scavare
una nicchia o covile
come un letto di foglie dentro un bosco.



Dardo 96: Autunno

Per Graziella Sidoli

Arriva un momento
non già di freddo, ma di lucentezza:
tutti i fiori son morti ma sono morti bene
il mondo è come un rotolo di seta
o una grande scultura di ceramica;
i castelli più veri
non son quelli degli alberi cùprei
sull’altra sponda del lago
bensì i loro riflessi dentro l’acqua.


da OGNI MERIGGIO PUÒ ARRESTARE IL MONDO - TRENTA SONETTI 1987–2000


Figuraltra

Assai rado mi miro nello specchio
per schermire bruciante delusione:
che non è quella di vedermi vecchio
ma quella di non scorger la visione,

dentro il vetro, del vólto del Rabbino
(prima di trasformarsi in Giardiniere)
solcato dal dolore e: ora acclino,
ora vòlto a un superno Belvedere.

La faccia che mi affronta nel miraglio
rivela una vita ammorbidente.
Dunque, di fronte a Lui sono uno sbaglio?

No. Perché, se mi tuffo nel mio interno
e dico « Uomo », sento in me presente
la figura del Giovane eterno.

Brooklyn-New Haven, 16-18 aprile 2000



Le labbra

Labbra nude: ecco quello che rammento.
Tagliavano il mio volto, od altri visi?
Poco importa. La vita è un corrivento
ed è finito il tempo dei narcisi.

Solo il silenzio fa accompagnamento
a questa estate priva di sorrisi
in cui mi addentro (e provo smarrimento)
nel ricordo dei falsi paradisi.

Quando sto soccombendo alla vendetta
del passato, e al suo peso suicidario,
risorge entro di me la benedetta

frenesia del presente, a cui soggetta
è la storia e il suo sforzo extra-ordinario.
Labbra chiuse: io resto di vedetta.



Ritratto in concerto

Per Alfredo de Palchi

O vïolina in fondo all’emiciclo
(nastro viola e capelli color tè),
il tuo viso è di quelli che Cosmè
Tura incideva agli orli del suo ciclo.

Il muro alle tue spalle è trasparente:
dietro il fiocco ch’è in tinta dei tuoi occhi
cadono i fiocchi estenüatamente
della neve (l’inverno è agli sbocchi).

Impazientita verso la sottana
tu ti sfoderi in pantaloni neri.
Il tuo viso d’argilla padana

è ombrato sotto gli zigomi seri.
È l’ombra dove io cerco quella tana
da cui nasce la mia vita emiliana.

“Filarmonici di Bologna”
(Aula Absidale di Santa Lucia)




L’antico amante

“Quant l’aura doussa s’amarzis”
Cercamon

Quando la dolce aura s’inamara
dicono che è l’inizio dell’inverno.
Chi sa? Più non conosci le stagioni
ma soltanto le ossa e il loro gelo.

Quando un umano esulta e s’innamora
può scendere il sentiero dell’inferno;
o esaltarsi più in alto dei cicloni
svelandosi a se stessa, e al rosso zelo.

Quando più tardi scivola il momento
degli anni pesanti e il braccio è stanco
al risvegliarsi, come un’ala infranta,

prega che non vi sia un cedimento
ma invece un abbandono ardente e bianco,
nutrimento di voce che canta.



Venerdì Santo

Qual è la prospettiva della Croce?
Lento strisciare a un termine lontano
giocando a fare da assistente al boia
(portiamo in spalla quello che ci uccide).

Qual è la prospettiva dalla Croce?
È un volo poco alto, non sovrano
che plana sopra il mondo senza gioia
(traversando il non-tempo che gli arride).

Ecco perché il mondo oggi è promosso
a creazione, per qualche momento.
Chi oggi discenda alla città dal colle,

trova il selciato silenzioso, e molle
di rugiada; ogni passo è fondo e lento,
la nuda vita è stretta al legno e all’osso.



Ewa Lipska - Il lettore di impronte digitali, nota di Claudia Mirrione

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Ewa Lipska - Il lettore di impronte digitaliEwa Lipskaè una delle voci che più spiccano nel panorama contemporaneo della poesia polacca, europea ed internazionale. Tradotta in oltre venti lingue (tra le quali inglese, francese, russo, tedesco, spagnolo e italiano), è autrice anche di opere teatrali, poesie in prosa e prose poetiche per cui ha ottenuto numerosi riconoscimenti e diversi premi.

Questa raccolta, “Il lettore di impronte digitali” (titolo originale Czytnik linii papilarnych), pubblicata quest’anno in traduzione italiana da Donzelli Poesia a cura di Marina Ciccarini, indaga un tema caro alla poetessa, come si deduce dalla poesia introduttiva “Rebus” (ma anche da altre liriche della raccolta come “Il Big Bang” e “Il mondo”): ovvero il grido di sofferenza dell’uomo che non riesce a decodificare il rompicapo cifrato ed enigmatico del mondo in cui è immerso (“Il mondo / in cui vivevamo / si chiamava Rebus / e se ne infischiava delle nostre domande”). Eppure quello dell’enigmaticità del mondo è solo uno dei temi toccati da Ewa Lipska che si sofferma anche sul valore terapeutico della folla e sull’intimo richiamo del ricordo (“Il banchetto”: “Nella clinica della folla / ci sentiamo più sicuri. / Innocenti inezie di ricordi. / Ostriche. Vino. Risate. / Per fortuna / c’è sempre più rumore. / Un chiasso pulsante di vita), per poi puntare dritto sull’individuo, che viene colto sia in quanto singolo sia nella relazione interindividuale.

L’individuo unico e irripetibile, come le sue personalissime impronte digitali, e afflitto da una solitudine che “volteggia…come un aereo da ricognizione” (La solitudine), si trova alla congiunzione tra il reale e il virtuale. Il web infatti entra prepotentemente nelle liriche di Ewa Lipska: da un lato, il profilo virtuale del singolo alleggerisce e anestetizza la vita reale sublimandola in un una convulsa e compulsiva congerie di “nuovi eventi”, “nuovi mi piace”, “contatti”, “notifiche”; dall’altro lato, ogni atto condiviso sul web si moltiplica a dismisura negli altri profili degli utenti dei social network, con l’amplificato risultato finale di “baciarsi con miliardi di bocche” (“I nostri file virtuali di corpi / in album / blog / in taccuini di conoscenti. / Nuovi eventi. / Nuovi mi piace. / Piacciamo alla Coca-Cola / a Ronaldo e al Papa / Siamo già / nei contatti / e nelle notifiche. / Il nostro letto nel diario. / Toccami / e tieni premuto / Ci baciamo con miliardi di bocche”).

Come il web è visto da Ewa Lipska come un’anestetizzazione della vita reale, così l’ amore avviene sotto “la tenera narcosi del cielo”, che libera l’anima dal dolore e induce al sonno e al distaccamento dalla realtà (“Innamoramento”). Tale distaccamento dal reale può essere solo momentaneo perché l’amore è fragile e friabile come ghiaccio al sole che alle prime luci di marzo si scioglie e di esso rimane solo un acquoso collirio (Il collirio), oppure può durare più a lungo, ma a costo di diventare una guerra di compromesso perenne (“Nozze d’oro”: “Nel loro matrimonio / alcuni colpi di Stato. / L’esercito / nelle strade del letto. / Arresti di amanti. / Esecuzioni. / Ora / anni dopo / dormono con le spalle alla parete. / Con una paura analgesica”).

Il discorso poetico di Ewa Lipska, che ha in comune con la poetessa Wisława Szymborska (che conobbe quando era ancora in vita) le immagini surreali, il gusto del paradosso e il sapiente uso dell’ironia, si arricchisce inoltre, nella raccolta, di riflessioni metapoetiche sullo status della poesia. La poesia è, nell’immaginario di Ewa Lipska, la preda che si insegue, orma a dopo orma, per tutta la vita (“La caccia”) ma che è e rimane sempre sfuggente e inafferrabile contro cui i versi abbai ano, guaiscono, latrano senza raggiungerla però mai completamente: “Un verso randagio vagabonda / nella materia oscura della carta. / Non ha padroni. L’autore l’ha lasciato / in balìa del destino. Orfano di parole. /A volte / I versi sono come cani abbandonati / che abbaiano alla poesia”. (Claudia Mirrione)


Il collirio

Verso di loro
avanza il fronte del ghiacciaio.

Incombe un amore gelido.
Un tempo friabile sotto cui si spacca il ghiaggio.

Sono come due ghiaccioli.
Incatenati dal gelo.

Ma è in arrivo marzo.
Una torcia di sole.

E di questo amore solo
un collirio.




Il lettore di impronte digitali

Poggiamo un dito
sul lettore di impronte digitali
e iniziamo ad amarci.

I nostri file virtuali di corpi
in album
blog
in taccuini di conoscenti.
Nuovi eventi.
Nuovi mi piace.


Piacciamo alla Coca Cola
a Ronaldo e al Papa.

Siamo già
nei contatti
e nelle notifiche.

Il nostro letto
nel diario.
Toccami
e tieni premuto.


Ci baciamo
con miliardi di bocche.




Innamoramento

Questi due
sotto la tenera narcosi del cielo.

In viaggio attraverso leggende
omelie e aneddoti.
Finalmente addormentati
nel manto nero dell'hotel
sul quale si dilungano
i media scandalistici.

Risvegliarli dall'amore
è ciò che desidera un lampo fragoroso.
E la vita gelosa in lutto
si aggira intorno alla reception come un cane.

Ma questi due
sotto la tenera narcosi del cielo.
Felici per sempre.
Della morte sputano
soltanto il nòcciolo.




Nozze d'oro

Nel loro matrimonio
alcuni colpi di Stato.

L'esercito
nelle strade del letto.

Arresti di amanti.
Esecuzioni.

Ora
anni dopo
dormono
con le spalle alla parete.
Con una paura analgesica.




Rebus

Forse era un sogno.
Il motore della sofferenza ululava
sempre alla stessa ora.
In mezzo al nostro amore.

Qualcuno usciva.
Qualcuno entrava.
Cene cifrate.
Segreti sotto il tavolo.

Il rimpicapo
non finiva
con la Luna piena.

Ci stupivano
i puzzle delle città
e l'enigma del mare
che sputava una bottiglia
con un grido d'aiuto.

Sempre alla stessa ora
tornava la sciarada.
Con una ciarliera combinazione di lettere.

Ci interrompevamo a vicenda
parlando
degli stessi argomenti.

Il mondo in cui vivevamo
si chiamava Rebus
e se infischiava delle nostre domande.


(i testi originali sono stati omessi per ragioni tipografiche)

Claudia Mirrione si è laureata all’Università di Palermo in Lettere Classiche e Filologia Classica, perfezionando gli studi in varie  sedi tra cui Utrecht, Berlino, Edimburgo, Amburgo. Attualmente è docente di Lettere in Istituti di istruzione secondaria.



Nanni Balestrini - da Contromano

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Alcuni testi tratti dalla bella pubblicazione curata e edibalestrini / curita dal gruppo di [dia°foria nel 2015 (v. QUI), un libro bifronte come Giano, con due autori ma completamente dedicato a Nanni Balestrini. Si tratta (il recto) di " Nanni Balestrini - Contromano", otto testi, di cui uno eponimo, e sei opere visuali, più (il verso) "Fausto Curi - Un’ordinata progettazione del disordine", un interessante saggio dello studioso delle avanguardie italiane sul lavoro di Balestrini, il cui titolo - almeno a me vecchio compulsatore di Gadda - rimanda alla "disarmonia prestabilita" di roscioniana memoria (e credo che l'accostamento sia onorevole, e forse non del tutto peregrino). Vale la pena ricordare che nel 2016, sempre per [dia°foria, Fausto Curi ha pubblicato una raccolta di saggi su Balestrini, compreso il succitato, dal titolo "Nanni Balestrini e la poesia come questione" (v.  QUI).

Dice Curi nel suo saggio: "Nella letteratura italiana d'oggi, presa, con qualche eccezione, fra ordine banale e disordine incolto, Balestrini è uno dei pochi che hanno capito che il nuovo nasce da un'ordinata progettazione del disordine (...). Per Balestrini comporre un testo poetico non significa soddisfare un'esigenza espressiva personale, soggettiva. Significa costruire un pezzo di realtà. Ciò non implica, né d'altro canto potrebbe, una totale esclusione del soggetto dall'operazione poetica. Tanto più che questa si avvale sempre di strutture verbali prelevate da altri testi, per lo più giornalistici, e consente quindi spesso un accorto gioco di allusioni e di riferimenti che, per essere indiretti, non sono per questo meno significativi. Che Balestrini parli con parole altrui è diventato quasi un luogo comune delle cronache. Ci si dimentica di solito di precisare che la straordinaria abilità e la non meno straordinaria efficacia con cui l'autore compie le sue scelte ed esegue i prelievi verbali e la costruzione di nuovi testi conferisce al discorso poetico una sorta di impersonalità linguistica che è efficace soprattutto nella misura in cui talvolta assomiglia alla asseverazione indiscutibile di certe epigrafi o di certi detti memorabili. Con questo però di particolare, che alla serietà dell'operazione l'autore non manca mai di congiungere un intento ludico, così da creare un singolare contrasto e da attenuare ma non da spegnere eventuali effetti di solennità, o da provocare un imprevedibile grottesco o un'ironia del tutto oggettiva: "che un'altra storia è possibile", "si propone di migliorare il mondo", "trentanni di storia italiana tagliati a pezzi / posò la gallina per terra", "l'abiura. Spesso preghiamo che Dio ci dia una mano / (un cilindro di carta d'amaretto, dateci fuoco in cima...)", "Un uccello / bianco ogni tanto lacera aquiloni nel sole. TEOREMA: / Francesco Petrarca era forse infelice di non avere il caffè?".
Balestrini, insomma, parla di sé e di molte altre cose usando non memorabili parole altrui. Ma quelle parole diventano incontestabilmente sue e acquistano una dissacrata memorabilità per il nuovo assetto che egli conferisce loro. Si noti: quando non è essa stessa il senso, è spesso la struttura a decidere del senso. (...) Quelli che convenzionalmente chiamiamo versi sono delle cellule verbali ossia dei sintagmi che quasi certamente Balestrini preleva dai testi di altri autori, testi non poetici ma giornalistici o scientifici. Ciò non significa che egli si precluda ogni intervento, sia pur minimo, e che pertanto un sintagma - al di là di quanto di soggettivo è già presente nella scelta e nel prelievo - non possa essere modificato a piacere dal nuovo autore. Il punto essenziale è quindi in quale modo un sintagma, o se si preferisce un verso, viene congiunto con il sintagma o verso successivo. Senza affatto escludere possibili errori di interpretazione dell'esegeta, Balestrini sembra procedere alternando due diversi modi: 1) per consecutività o per similarità, fornitegli dal prototesto, o inventate da lui stesso; 2) per contrasto o per alterità, ossia per assenza di connessioni proprie della logica comune".
Insomma, continua Curi, "la realtà com'è non piace a Balestrini. Ma non gli piacciono nemmeno i progetti variamente elaborati per la realtà come potrebbe essere, non lo soddisfano, non lo persuadono, perché, nonostante la buona volontà di coloro che li hanno disegnati, corrispondono a idee e immagini della realtà com'è. Come non è un naturalista, così Balestrini non è un utopista. Come non penserebbe mai a riprodurre la realtà com'è, così non lo sollecita fantasticare, immaginare  mondi possibili. È un realista deluso, inquieto, eretico, e disperato. Ma è un realista. E un realista deluso dalla realtà e che si rifiuta di rifugiarsi nella fantasia non ha altre risorse che usare la stessa realtà per costruire una realtà diversa. Costruire, si badi, edificare, dare forma, non immaginare, se non per quel tanto di immaginazione che è necessario per dare forma a qualunque oggetto. Quello che cerca Balestrini non lo immagina, lo costruisce".


CANZONETTA DI BUONANNO

        le cose non hanno nomi
            le case non hanno muri
                i tetti non hanno porte
                    i treni volano bassi
                        chi parte non ha meta
                            c'è poco da stare al passo
                        la lingua è artificiale
                    poltiglia cerebrale
                la morte non fa sconti
            non basta tirar le somme
        per star bene travestiti
    spegni tutto non muoverti
        gironzola senza organi
            arrampicati fin dove puoi
                lasciati pure cadere hai
                    la fortuna di non essere eterno
                        a che serve sentirne il ritmo
                            l'ebete natura sballa
                        la vita bela balsamiche
                    iniziative a cuore aperto
                tentacolari tramonti in
            accecati sintagmi per
        allegre stagioni spremute
    sulle rotte di un liquido epicentro
        accettare magnifiche cose
            limpide insensate mutazioni
                cosa vuoi di più non ne hai
                    abbastanza gridava appeso
                        appena ci siamo accorti che
                         svaniva in un verso spappo
                        versami ancora sei messo
                    bene disse qualcuno sensibile
                sento echi di sillabe fresche
            stanno per cadere tutte le ore
        ci disegnano strabici
    affreschi evanescenti



        CONTROMANO

        non possiamo parlare
            tutto chiuso
                trafitto senza denti
                    barattolo imprigiona
                        primavere scoppiate
                            intenso diventare
                        fotogrammi sbagliati
                    sparpagliate meditazioni
                primavere scoppiate
            metti l'animo in pace
        slittamenti e lividi
    oleodotti spremuti
        sincopate gengive
            insistono prelibati
                slittamenti e lividi
                    impedimenti gratificanti
                        fermati baciami
                            non va più via
                        petali d'infanzia
                    memorie sconfitte
                fermati baciami
            cicatrici rilassate
        sta piovendo ancora
    profumate interiora
        abisso protetto
            presuntuose perdizioni
                sta piovendo ancora
                    ripeti a memoria
                        tante parole premono
                            intingono il diluvio
                        catatonico autunno
                    piattaforme del desiderio
                tante parole premono
            significano il segno
        incollato al presente
    cellofanata riproduzione
        paracadutato dove
            ha preso fuoco
                incollato presente
                    miracolose sintesi
                        le arterie bruciano
                            non si fa più in tempo
                        liquefatta stagione
                    tempi che scorrono
                le arterie bruciano
            tempie che scoppiano
        muri che scottano
    involucri squarci
        giganteschi giraffe
            nell'orizzonte bucato
                muri che scottano
                    curvatura dell'occhio
                        scintillante burrone
                            ragnatele incendiate
                        navi appese
                    sedie gettate
                scintillante burrone
            rimasugli disseminati
        sfiniti protesi
    frivoli girotondi
        una volta o l'altra
            separati indivisi
                sfiniti protesi
                    stravolte attese
                        smetti di leggere
                            l'imbuto capovolto
                        spegni tutto
aggrappati al ciclo
                smetti di leggere
            scompiglia le ruote
        non mi va di stare qua
    vola là fuori



        HOMO STUPID STUPID

        né ciclico né lineare
            nella società dei consumatori
                frantumato in una moltitudine
                    di pezzetti distinti
                        ognuno ridotto a un punto
                            dallo stupore della merce
                        si avvicina sempre più
                    alla sua idealizzazione geometrica
                di non dimensionalità
            non ha lunghezza larghezza
        o profondità esiste
    fuori dallo spazio e dal tempo
        contiene uno stupendo
            potenziale di espansione
                un'infinità di possibilità
                    che attendono di esplodere
                        nell'eruzione dell'universo
                         delle merci una moltitudine
                        in inarrestabile espansione
                    di nuovi inizi vaste distese
                di nuovi stupri che salvano
            la speranza dalle macerie
        la neutralizzazione del passato
    per rinascere con facilità
        in una serie infinita di nuovi
            inizi la determinazione
                casuale è disarmata ogni
                    punto è pieno di potenziale
                        ogni potenziale è diverso
                            e unico in modi realmente
                        stupefacenti ogni cosa
                    deve prima o poi succedere
                nel momento presente
            né ciclico né lineare
        della società dei consumatori

    frantumato in una moltitudin

di pezzetti distinti

            ognuno ridotto a un punto
                dallo stupore della merce
                    che lo avvicina sempre di più
                        fuori dal tempo e dallo spazio
                           a una scomparsa definitiva

Interessante rileggersi anche un paio di testi tratti da Le avventure complete della Signorina Richmond, tra cui il sempre attualissimo "C'è chi loda il letamaio" (v. QUI)



Viviana Scarinci - Annina tragicomica

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Viviana Scarinci - Annina tragicomicaViviana Scarinci - Annina tragicomica - Formebrevi edizioni, 2017
Mi pareva di conoscere il lavoro di Viviana Scarinci, di avere qualche chiave per penetrare la sua scrittura. Un lavoro che complessivamente apprezzo, come apprezzo le qualità intellettuali di Viviana. In altre occasioni avevo scritto alcune note su di lei e le sue cose, in particolare su Piccole estensioni, con cui aveva vinto il Montano (v.QUI ) e su un altro lavoro dal bel titolo L'amore è una bestia cronica , fatto in collaborazione con il pittore Sergio Padovani (v.QUI ). Avevo inoltre letto, anche senza poi scriverne, La favola di Lilith, una pièce breve in due atti in collaborazione con Edo Notarloberti (Ark Records, 2014, con CD), un lavoro ambizioso e interessante, in cui viene messa in scena, come simbolo protofemminista della donna che guarda al cielo, aspira a congiungersi con Dio e non vuole sottomettersi all'uomo, colei che secondo la tradizione cabalistica fu la prima moglie di Adamo, ma anche, sempre per tradizione, portatrice di elementi demoniaci. Avevo anche avuto modo di leggere qualche estratto di Il significato secondo del bianco, da qualche parte in rete.
Insomma, mi pareva di avere qualche strumento più o meno adatto all'uopo, pur nella consapevolezza che quella di Viviana non è una scrittura facile, che nel tempo è andata connotandosi, mi pare, per una ricerca soprattutto sul linguaggio e sulle sue pieghe. Ma devo dire che questo Annina tragicomica mi crea qualche difficoltà di "ingresso". Che la prefazione di Anna Maria Curci non contribuisce a risolvere del tutto, dato che dopo averla letta mi rimane l'impressione che pur abilmente abbia affrontato il lavoro come  un kubrickiano monolite.
Diciamo intanto che non si tratta di un livre de chevet, da leggere distrattamente. Ha bisogno dei suoi tempi e di riletture organizzate. Ma provando e riprovando, come gli accademici del Cimento, alcune cose mi pare siano emerse. La prima riguarda indubitabilmente il tema di fondo, quello che potremmo chiamare il basso continuo o il canone ricorrente. Il libro intanto non è una raccolta, termine che sarebbe fuorviante. Rientra immediatamente in quellla forma lunga che in questi ultimi anni sembra essersi riproposta, che sta tra il poemetto strutturato e la legatura (usiamo un altro termine musicale) di brani che per semplicità diciamo di prosa poetica o prosa in prosa. Lo dico per intenderci, prendendo comunque atto di quanto scrive Viviana in una nota finale, rifiutando qualsiasi capziosa catalogazione in questo senso (e mi pare che sia pacifico - anche - che ogni autore non ami essere catalogato), quando afferma che "mi è capitato di ritrattare la parola verso anche dal suo etimo, in favore di una scrittura senza quell'argine, cercando qualcosa che si adattasse meglio alle complessità in perenne transito (...), senza sconfinare nella prosa". Qui ci sarebbero da dire un paio di cose, ma ne parliamo più avanti. Sono due le sezioni del libro, ben intravate all'interno di ciascuna e tra di loro, Bambole e bambine e Annina tragicomica, titolo eponimo. entrambe di trentacinque testi. I titoli, qui, danno i protagonisti, gli attori, e i temi. L'idea e il pensiero di Viviana, diciamo la missione, continuano, come nei lavori precedenti ma a diversa profondità, l'indagine non tanto sulla condizione - che è termine sociologico - quanto sullacostituzione in essere della donna, del suo divenire ed essere - nel corso della storia e contemporaneamente - natura generante e catalizzatrice di colpe, educatrice ed educanda, forza ctonia e elemento celeste, figurante generica e protagonista, e così via ma sempre nell'ambito di una percezione, certo tutta maschile, per così dire verticale, che la guarda o in alto o in basso, a seconda. Ma soprattutto, io credo, la sua capacità (e la capacità dell'autrice) di interpretare e leggere lo spazio siderale che sta (citando il Mesa presente in un esergo) tra "lo spreco di minuzie" e "il senso degli atti", mediante (cito Curci) "altre modalità di accesso alla conoscenza". E un'indagine che, aggiungerei, si sposta da un ambito più o meno privato ad un altro più universale. E' un'interpretazione possibile? Forse. Che lo sguardo sia femminile, e non solo per questioni autoriali, non c'è dubbio. La bambole e le bambine, Annina e le sue derivazioni (Annie, Anna, Annetta, eteronimi, alter ego bifronti...) sono lì a dimostrarlo per indizi. Minuzie, frammenti, frammenti di frammenti. Che da questo si possa risalire al senso, ricostruirlo, è l'ambizione e il miraggio di parte della poesia italiana contemporanea. Che a volte ci si avvicina abbastanza. E' questa può darsi la (una delle) "modalità di accesso alla conoscenza" di Curci. E indizi, dunque, che sta al lettore reperire. Indizi che non è facile estrapolare se non trascrivendo interi testi, perché intimamente intrisi come elementi chimici nella fibra testuale, nella poesia (o prosa) stessa. Sono i testi medesimi che si prestano ad una lettura polifunzionale, per così dire, che offrono la possibilità al lettore (l'"apertura" del testo) di sovrapporre un dato ideale o l'altro, una fiction o l'altra, una immaginazione o l'altra, senza che tuttavia gli sia possibile dirottare, nell'insieme, dalla visione che è di bambine, bambole, Anne, Annette, e ovviamente dell'autrice (la corrispondente "chiusura"). Che qui elabora la riflessione costante e evidente che certo ha animato Viviana come donna anche al di fuori di un ambito "finzionale". Vedere, come piccolo esempio abbastanza superficiale, il brano 20 qui riportato, che agisce per lo meno su un doppio binario, uno puramente narrativo, l'altro culturale e metaforico, senza contare tutte le evocazioni della parola/target "malaffare". Penso che questa lettura polifunzionale sia dovuta a un certo grado di neutralità della lingua adottata, parlo di neutralità emotiva che non "pilota" necessariamente verso direzioni specifiche, parlo anche della selezione semantica, della voluta ambiguità di un tono talvolta verbalizzante, delle tecniche di disallineamento sintattico o di diacronia, come ad esempio la sospensione delle clausole (chiusure) in certe catene sintattiche, che tende a rivoluzionare l'aspettativa ordinaria di chi legge, e così via. Un effetto anche molto affascinante, come l'osservazione di un frammentato ma continuo pensiero dominante.
Ci sarebbero di sicuro altre osservazioni da fare. Ma lascio in fondo alcune considerazioni extra corpus, di carattere generale. Mi pare di percepire in questo lavoro una certa progressiva distanza rispetto a quelli precedenti, che non è tematica né concettuale. Distanza che è data, pare a me come lettore abbastanza empirico, soprattutto dal lavoro sulla lingua, come ho accennato prima, sul livello comunicativo che questo libro realizza. E' un discorso di una certa importanza, non solo in relazione all'opera in sé ma anche all'idea di poesia in genere. Su quanto cioè il linguaggio influisca sull'oggetto della poesia, sul suo tema, mutandolo; se la poesia debba essere un'arte mimetizzante, piuttosto che mimetica; e così via (ma sono solo piccole parti della questione). E soprattutto se la ricerca poetica, come pare sia, debba essere quasi esclusivamente sul linguaggio, nella convinzione che da esso le cose si incarnino, che dalla sua torsione, condensazione, astrazione le cose poi emergano. Se così fosse mi pare ovvio che l'oggetto in sé diverrebbe secondario rispetto al modus. Tanto per fare un esempio ancora banale, quello che Lilithportava in sé era un diverso livello di fruibilità e rappresentazione, intendo proprio dal lato lettore.
Naturalmente Viviana è artista troppo intelligente per fare del linguaggio un mero totem. Per cui la distanza (una delle distanze) è semmai nel grado di evidenza del contenuto che la sua scrittura trasporta, basti pensare a categorie forti come il "tragico" e il "comico", qui parecchio dissimulate; o nel grado di allusione delle tematiche o meglio, nel lavoro metaforico ma soprattutto metonimico (usiamo in senso ampio questo termine) di scambio e sostituzione, e non necessariamente per contiguità e nemmeno reciprocità, tra "oggetti" e lingua e anche tra segmenti di entrambi. Un'idea, se questa mia impressione è esatta, già di per sé intrigante ma di estremo impegno.
Siamo insomma testimoni di un percorso abbastanza evidente, di cui Viviana ha perfetta consapevolezza e padronanza, dagli esiti ancora aperti. E questo percorso, ripeto, ha un valore e un fascino. Ma anche io credo (e ora più che mai parlo in termini generali, e forse anche per me stesso) un limite per così dire "fisico" della scrittura (almeno quella lineare e semica). Come la conduttività del silicio, la cui riduzione pone una barriera oltre la quale è difficile andare. (g. cerrai)


da Bambole e bambine


3

Visto da qua il creato è una tradotta ortogonale che obbliga
all'orizzonte. Al termine vi sono sfere celesti e opere custodite
dal tempo che non lesinano partiture sensienti. Un po' più sotto,
un albo irrotto da una qualche cisposità, sconsacrato e neanche
laico, aspetta l'estinzione.



7

Dire che la bambina non sia intelligente non è esatto. E che in
essa non rinveniamo traccia di profondità e se ciò vi appare una
considerazione di ordine morale, vi sbagliate. In questa bambina
non albeggiano né il bene né il male. Diversa da quanto
ci aspettassimo si presenta nella stanza e stringhe di luce le tagliano
le terga e non si intravede nulla che aiuti a ordinare la fila
avita di abbondanza, desolazione, agi e morti precoci ma il cinguettio,
lo squittio udiamo, l'avanzata di malaccorta ferraglia.



7

Dire che la bambina non sia intelligente non è esatto. E che in
essa non rinveniamo traccia di profondità e se ciò vi appare una
considerazione di ordine morale, vi sbagliate. In questa bambina
non albeggiano né il bene né il male. Diversa da quanto
ci aspettassimo si presenta nella stanza e stringhe di luce le tagliano
le terga e non si intravede nulla che aiuti a ordinare la fila
avita di abbondanza, desolazione, agi e morti precoci ma il cinguettio,
lo squittio udiamo, l'avanzata di malaccorta ferraglia.



20

La stroncatura aggiunge una differita ai semi del melo che
germogliano complici della clemenza di altri allacciamenti.
Nascono abiti dagli orli vivi per Eve esposte a un nuovissimo
malaffare. E anche queste cercano il loro precariato a partire
da un niente, da un dolore da nulla per mangiarsi adagio e dal
principio la mela, a fettine sottili.



29

Tempo prima, ma non ricordava, doveva trattarsi di una sua piccola
innata cattiveria. Il fenomeno poi si era avvalso di un'ostensione
che appariva connaturata solo di rado, quel principio
di malvagità più spesso era attribuito all'arbitrio di quello che
venne poi. La minuscola cattiveria intanto viveva il suo abbandono
nella triangolazione sottocutanea di un'invisibilità nativa.
Era la sua mantenuta sparizione ciò che ora rimaneva in equilibrio
sui tacchi, nel colpo più profondo, viva e miscreduta, senza
più nessuna esuberanza.



32

Nessuna riluttanza o tedio, di nuovo fuori, volenterosa e per
ultima, fino forse a domani che vuole rivelarsi eterno quando
l'apologo è più labile, sovrapponibile, inestricabile e sferzate
espongono quella che sarebbe dovuta essere una bambina
a diventare l'atto denaturato di quanto da altri abbia avuto in
consegna.


da Annina tragicomica


4

All'inizio succedute cose erano timidi progressi, fattezze
pronte e contigue a disserrare la stessa agonia, io - noi, non che
osassimo sfiati descrittivi a divaricarne il glossario ma contare
avremmo dovuto, patire racconti nel numero dato anziché
collezionare garze, guanciali che il battiloro riduceva spessi
il micron dell'ennesima defezione, contigui l'altra durata dei
giorni, liminari il loro ammanto di battigia non combaciata.



8

Attraverso i vasi della sua prerogativa, il poeta, senza dar conto
a nessuno, traversava uno iato, come negoziassero ogni minuto,
l'una e l'altra gamba, la propria dipendenza di sillabe diverse,
stornate da non so che equilibrio. Intanto Annie, Annetta,
Annina tragicomica, scantonava altrove, egualmente acquartierata
in una disparità pedestre che invece - lei, non la tratteneva
dal ridondare.



13

Una mattina, al colmo di quell'inconfessabile delirio, attentò
alla prassi, nell'abbordare l'adagio di tutti. Mentendo il masochismo
del gesto, fuoriuscì prona, rimandata per sempre la
seduzione verso cui tutto volge. Ovviamente nulla appariva mutato
nell'aspetto, dritta Annetta camminava andando verso quel
farsi male, sistematicamente.



15

Evadere la specie era come evadere l'ordine di un numero preciso
di oggetti appartenuti a due nell'atto di una momentanea
condivisione. Ma poiché, in questa storia, uno dei due era Annina
ogni criterio risultava una provocazione e il disporsi degli
oggetti qualcosa di equivoco, tanto che qualcuno, un giorno si
accorse che per nutrire l'ossimoro di tutto quel volere, era il
nulla ciò che Annina si iniettava tremante in vena. Il nulla è un
embolo: non dimentichiamo di averlo appreso grazie a Annie.



18

Con quel cielo pronto a morire, in uno di quei giorni trascurabili,
le si presentò, inaspettatamente Madame. E da quelle parti,
quando arrivava l'approvazione, si pretendeva che quel giorno
fosse più giorno degli altri. Questa volta però Madame se ne
stava immobile, senza enfasi, forse avendo già applicato la meccanica
preventiva di ridurre all'inesistente il confronto con Annetta
e sinceramente pensando di fare lo stesso con il suo gene
tumorale.



24

Cose vivìbili e persone pigramente insuperate, affacciano, è
naturale. Inconsapevoli, montano oltre il pretesto doloroso e
instabile di quell'artefatto che chiameremo ignoranza, raccapriccio
specioso e berbero che Annetta ha ereditato da chissà
chi. Ma il/la pretendente, avvinto/a dal neutro che articola la
sua profferta, con l'inevitabile disfatta, può solo illustrare la
mancanza di neutralità di Annina.


AVVISO AI NAVIGANTI

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Cari amici, ho deciso di rallentare per un po' le pubblicazioni qui su Imperfetta Ellisse, che comunque in questi ultimi tempi si erano diradate. Le ragioni  stanno nel  bisogno di riposare qualche giorno, a cominciare dalla testa, e tuttavia concentrarmi su due o tre impegni che mi sono preso. Ma soprattutto nella necessità di riflettere un po' meno sulla scrittura degli altri e un po' di più sulla mia, per ricordarmi ogni tanto di essere anch'io un poeta e magari pubblicare qualcosa dopo questi anni.
Per chi vuole chiedermi qualche consiglio, come avviene spessissimo, i contatti sono i soliti, sono qua. Con le solite avvertenze: che non so quando e come potrò darne, e che i consigli, anche per questo, hanno un valore relativo. Ma soprattutto valgono, per quanto poco, solo se chi li chiede è disposto almeno ad ascoltarli, anche se spiacevoli. Altrimenti stiamo a perdere tempo.
Naturalmente se trovo qualcosa su cui vale la pena di scrivere una nota la pubblicherò sul blog, ma senza patemi di scadenze o roba del genere. E pubblicherò  tutti gli amici che nel tempo hanno collaborato con IE, se vorranno mandarmi del materiale interessante.     Buona estate.


Joan Miró - "Sogno e colore" a Bologna, nota di Elisa Castagnoli

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joan miró - maqueta para gaudiImmagini e parole da Joan Miró (partendo da "Sogno e colore" a Bologna P. Albergati)

“Sogno e colore” a Bologna espone le opere degli ultimi trent’anni dell’artista catalano Joan Miró, protagonista incondizionato del surrealismo e del rinnovamento pittorico nel ventesimo secolo con grandi tele della maturità intimamente legate all’isola di Maiorca dove decide di stabilire il suo atelier permanente a partire dal 1956. Centrale resta qui l’ispirazione desunta dalle forme organiche e dal mondo della natura attraverso gli splendidi paesaggi di Maiorca in una luminosità vivida, sublimata e riflessa tuttavia, filtrata unicamente in pure intensità di luce e colore. A partire dagli anni ’60 si assiste infatti a una svolta pittorica e, insieme, a una metamorfosi plastica della sua opera: Miró intensifica sempre più il grado di espressività sulle grandi tele e semplifica progressivamente le linee e i tratti riducendo i motivi iconografici mentre attinge sempre più a una multipla ricchezza di linguaggi e tecniche pittoriche tra disegno, collage, scultura ceramica e l’aggiunta di ogni tipo di materiale: gli “objects-trouvés” più diversi che riconnettono la pittura alla "non-arte" del quotidiano. All’ insegna della più totale libertà espressiva, e nella piena autonomia plastica dei segni un immenso universo poetico si rivela tela dopo tela, fondato su un linguaggio materico e insieme su un alfabeto di linee essenziali, dai tratti semplificati e i temi ispirati alla natura. Le immagini oltre all’apparenza astratta rinviano , tuttavia, sempre più a un sostrato materico originario, come bagnassero in una sorta di ordito visivo e magnetico le cui radici affondano nell’ inconscio, nel sogno o nella visione intuitiva della natura. Tale, la trasmutazione lirica della realtà per i paesaggi di Maiorca. Le tele di Miró parlano ai sensi e all’ immaginazione evocando libere associazioni di pensiero ma, anche per chi guarda, la tessitura di un vero e proprio campo visivo; la pittura diviene soprattutto negli ultimi decenni una forma di scrittura universale, onnipresente che riassorbe tutto e ogni cosa e la trasforma, la metaforizza in un alfabeto di segni ora lievi, delicati o minutamente tracciati come fossero linee di china, ora densi, corposi e materici dati per getti o pennellate di colore. Le forme naturali appaiono sempre più immerse in un movimento intrinseco come in una danza di corpi che si muovono in un campo ritmico e sonoro propri.


“Senza titolo”, 1973, (Olio e acrilico su tela).

Il segno è traccia, coinvolge l’intero del corpo, è tracciato, linea del destino o della vita, trama calligrafica sul fondo di una tela bianca, sprazzi e macchie di colore dove il corpo è completamente coinvolto nell’atto del dipingere. Miró lo definisce “ un bisogno quasi fisico come dormire o mangiare”, perché per lui creare è del corpo, della pulsione e del tratto, dell’energia in movimento, dello spazio e del ritmo in esso iscritto. Del pieno e del vuoto anche. E’ movimento-segno e traccia nell’universo. E’ gesto anche che si traduce in una scrittura grafica, del corpo nello spazio o sulla tela.



E’ danza dunque in senso lato. A partire dagli anni ‘70 la pittura coinvolge completamente il corpo: Miró distende la tela a terra, vi versa i tubetti di colore direttamente, vi cammina sopra, stende la pasta colorata con le mani, le braccia o altre parti, lascia impronte, gocciolamenti e spruzzi, lascia asciugare per ricominciare il giorno dopo. L’impulso iniziale è totalmente istintivo ma l’uso dei colori e la tessitura calligrafica finale ri-equilibrano la composizione d'insieme.

Traccia nera ma lasciata da una pennellata corposa e materica, evoca la forma di un dragone nell’ arte giapponese e insieme un segno spaziale - l’arte orientale dei maestri calligrafi lo influenza particolarmente dopo il viaggio a Tokyo. Si impone come una scia materica essenziale e oscura che attraversa tutta la lunghezza della parete bianca in verticale.



Un percorso, una direzione verso, una linea strisciante, uscente dalla tela ma due macchie di colore al di sopra, blu e rosso rompono l’abulia del tracciato che resta tuttavia immerso in questo campo magnetico di un bianco primigenio.

Poesia visiva da “Derrière le Miroir”

Il confine tra pittura e poesia in Miró non esiste là dove la poesia resta per l’artista “quel momento visionario e emotivo che riunisce nell’atto artistico cuore e mente” e la cui sintesi struttura un nuovo linguaggio plastico o pittorico. Pittura e poesia convergono letteralmente nell’edizione del 1961 di “Derrière le miroir” dove le composizioni poetiche di Neruda sono accompagnate dai testi visivi di Miró.

Un punto e una linea incise o lasciate su un foglio, un tratto unico, grezzo o marcante in nero, un’affermazione, un’impronta, un emblema dell’esserci. Una linea casuale si imprime a macchia di inchiostro su una superficie, tale il potere magico di una matita su un foglio, di un colpo di spatola o di pennello su una tela: un gesto sulla superficie del mondo. Nella prima metà del disegno il tratto grafico fine ed elaborato si imprime sul bianco del foglio, sospeso su un fondale di macchie colorate azzurrine, rossicce magenta e gialle sfumate in schizzi d’acquarello. Fa pensare alla trasformazione alchemica della pietra grezza in metallo prezioso, all’aurea o all’alone che circonda le figure e le illumina fino a rischiararle della loro propria interna vibrazione, oppure rinvia all’ombra, all’alone non-manifesto di oscurità che accompagna e avvolge i corpi in alcuni momenti.

L’oggetto e la sua ombra, l’impronta lasciata su una distesa bianca e piana, la linea calligrafica lieve e sottile, appena percettibile, sospesa o tracciata sullo svaporare di aerei colori pastello. Diviene nel lato opposto del foglio una pennellata oscura, una traccia dominante, segno o marcatura di territorio, colpo di spatola o di spugna, cancellazione e insieme incisione di tenebre. E,’ ancora, il cerchio rosso di alchemica ispirazione che, come anello mancante di una catena, primario esubero di un rosso vitale sulla china, sembra chiudere il cerchio magico tra pittura e poesia. Secondo le parole di Miro: “ il pittore lavora come un poeta, prima viene la parola poi il pensiero”, prima la traccia poi il senso o il significante di cui si avvolge e si imprime.

Maiorca, serie Gaudí

Maiorca è una piccola zolla di terra in mezzo al Mediterraneo incorniciata tra cielo e mare dove Miró decide di stabilire definitivamente e il suo atelier permanente, lo studio Sert nel 1956 dando vita nell’ultimo periodo creativo a un linguaggio espressivo rinnovato, libero e primigenio, unico nel suo genere. Maiorca incarna la terra natale di discendenza materna, la purezza del mare che lo circonda ritrovata nel tratto imponderabile della sua linea calligrafica più lieve ed espressiva. E’ anche la luce diffusa, iridescente e espansiva dell’isola che illumina nel pieno del giorno , fulcro di un mondo naturale, di un legame, soprattutto primario e fondante con le radici a partire dal quale si opera la metamorfosi nella sfera spirituale dell’arte. Le pitture rupestri dell’isola, tracce di volti o incisioni riscoperte sulle pareti delle grotte preistoriche, ugualmente, riconnettono a quel fondo di energia prima, selvaggia e violentemente manifesta nei tratti e nelle pennellate più istintive e marcate della sua ultima pittura. Allo stesso modo la Catalogna terra originaria della famiglia paterna a Mont Roig e Barcellona dove Miró nasce, rappresentano l’altro volto, il secondo “luogo dell’anima” che si ricollega il pittore alle sue radici ancestrali. Di là il carattere realista, rude e profondamente fiero delle proprie origini contadine, l’immagine di una terra dagli aspri rilievi e i vasti campi coltivati di vigne e di ulivi. A Barcellona l’influenza di Gaudí resta preponderante come l’incontro con il più alto grado di libertà stilistica e bellezza estetica, espressiva e fiabesca nella moderna architettura catalana. A Gaudí dedica primariamente la serie di ventuno dipinti, le cui immagini come bozzetti preparatori sono esposte nelle prime sale della mostra bolognese. A lui ispirate sono le grandi forme organiche e i colori giustapposti, riquadri o ritagli, pezzetti di un mondo fiabesco, tasselli di un luogo originario scomparso di cui trapela solo la solarità del giallo vibrante di Maiorca, le forme oltremare intense del suo blu oceanico, i ritagli verde smeraldo nella sua vegetazione. Infine i frammenti di un rosso vivo, pulsante e carminio, quasi a riprodurre il vivente in forme naturali e antropomorfe; tali, le energie primitive dell’isola. I collage dello stesso periodo sono spesso aggiunti di ritagli di carta, linee a matita, guaches e pastelli che, seppur radicati al mondo naturale, evocano comete, stelle, meteoriti o altre forme cosmiche, grandi occhi aperti, spalancati sul mondo, abbozzi di figure alate cui si aggiungono altri collage, colori accesi e la sensazione di una linea di vita che si espande sotto i nostri occhi in divenire.



Studio a Maiorca

Studio Sert, l’immenso atelier dove Miró realizza un terzo della sua produzione artistica dalle pareti spesse e i soffitti alti ospita le grandi tele monumentali della maturità; ad esso si aggiunge il casolare settecentesco “Son Boter” immerso in una vegetazione mediterranea rigogliosa e selvaggia a ridosso del mare, ricoperto di buganvillee e piante verdi. Tali, i luoghi di creazione e meditazione artistica per il pittore catalano paragonabili a un orto o un giardino dove crescono insieme frutti preziosi, legumi, piante usuali e erbacce, dove le cose seguono il proprio corso e richiedono all’artista di irrigare, innestare e quando necessario potare. Graffiti ricoprono le pareti delle stanze, grandi tele sono disposte tutt’intorno in contemplazione silenziosa appoggiate a terra insieme a cavalletti e agli altri oggetti provenienti da diversi luoghi: statuette, cartoline, ritagli di giornale, pennelli, colori lasciati essiccare dentro tavolozze da lavoro, pietre o conchiglie; ogni possibile suggestione creativa trova collocazione qui.



Nelle parole di Miró: “E’ così che ho cominciato lasciando impronte. Prendo cose ordinarie e le trasformo, tutto può “diventare straordinario”: la carta riempita di fango e i fogli di fine calligrafia giapponese, martellare con chiodi una tela per “assassinare la pittura”, la mescolanza, occhi che sporgono in modo intrusivo, rettangoli di carta vetrata o carta velina. “L’atelier è come un giardino, come crescesse di giorno e di notte, c’è di tutto dentro, fiori, frutta e erbacce, tutto è nell’immaginario.” La tela al suolo è attraversata come fosse un campo di battaglia, un campo magnetico o minato di cariche esplosive e liquida lava di colori spremuti direttamente dai tubetti, in guizzi, sprazzi e pennellate . Il pittore vi cammina sopra, vi agisce gestualmente, ne fa l’esperienza attraverso il corpo tutto seguendo l’impulso iniziale che lo guida totalmente affidato a un sapere innato, istintivo.

Senza titolo, (ispirato al Maggio 1968)

La rivolta accade nelle strade di Parigi; è espansione gioiosa di turbini e gironi colorati su un fondale bianco in movimento simile a un corto-circuito dove energie e dunque forme entrano inevitabilmente in contatto o conflitto tra loro. La vibrazione della rivolta si impone come asserzione libertaria, turbinante e anti-conformista rispetto alla struttura immobile della cornice sociale. L’anima cromatica della tela è là con i suoi guizzi e sprazzi di rosso vitale, blu intenso, arancio e verde smeraldo colante tra i tratti neri come un atto di posizionamento critico rispetto a una visione statica dell’ordine imposto. Il mondo appare qui in rivolta, l’energia è quella del turbine, del rovesciamento o di un movimento a spirale o vorticante, l’afflato quello della trasformazione violenta e inevitabile in atto. Il fondale fucsia poi blu di uno stesso paesaggio si rivela, ora come notturno tassello di luna calante al centro in un cielo plumbeo, ora solare e immerso nella luminosità indaco del fondale acceso dove chiazze bluastre, e pennellate materiche ricompaiono in un dripping pollockiano. Temi ricorrenti sono gli occhi che fuoriescono dalla tela, le stelle, le meteorite o le spirali, la figura femminile, gli uccelli o le forme alate simbolo di libertà. Terrestre o cosmico il mondo è sempre teatro di costante trasformazione seguendo le due polarità che di volta in volta si impongono attraverso forme ispirate ora alla matrice terrestre ora alla vibrazione celeste. Sono anche due polarità che si parlano in questo faccia a faccia del femminile e del maschile, pronte a riempire gli spazi e a riemergere nelle loro linee iconografiche essenziali in un dialogo senza tempo.



Trittico Bianco e Nero

“Cerco di raggiungere un massimo di chiarezza, potere e aggressività plastica. Una sensazione fisica per incominciare seguita dal suo impatto sul pensiero.” (Miró)




Una distesa bianca, una linea nera, un cerchio di colore al di sopra, astro basso in un cielo colante di striature oscure. Ora al contrario il cielo è nero e il bianco oltre la linea dell’orizzonte. Una sensazione tangibile, chiara, manifesta: il bianco e il nero, la semplicità calligrafica del tratto, una linea che divide, essenziale nel pieno e nel vuoto dello spazio. Nella terza parte del trittico il bianco ritorna dominante con fini linee di nero colanti a lato rovesciando il punto di vista. La purezza del sole all’orizzonte.

Come Miró afferma: “l’opera è come una creazione plastica assoluta ed essenziale, con la sua personale, intrinseca poesia. Perché solo la poesia può interpretare la realtà e la natura”, e forse in definitiva invisibilmente salvare il mondo. Le forme danno vita ad altre forme nello spazio vivente della tela, costantemente mutando rispetto a loro stesse . Diventano tracce, una tessitura primigenia di corpi ora terrestri ora celesti fino a dare vita a una realtà di segni e simboli universali. Lo spazio poetico della pittura. E’ uno spazio vivente, d’una semplicità assoluta dove è sufficiente riempire o svuotare, aggiungere colore al vocabolario essenziale del bianco e del nero per delimitare le figure. Perché, in fondo, la pittura in Miró è intuizione inconscia, impulso dentro la linea e il colore fino a trasformare gli spazi in campi magnetici che seguono leggi ritmiche insieme proprie e universali. (elisa castagnoli)




Corrispondenze

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Corrispondenze


Con Chiara Giniè nata un’amicizia “v
ia fotografia”. Ho trovato, come spesso per caso mi capita, in rete (su flickr) le sue magnifiche fotografie. Le ho scritto, e lei mi ha risposto. Allora, noi ci siamo incontrati. Trovati..

Tempo fa, durante il nostro corrispondere, Chiara mi ha inviato queste fotografie – come fossero dedicate– in un documento che aveva per titolo la mia iniziale. Allora, io provo a dedicare, così, questo a lei. Per il suo lavoro che sa essere così completo e senza orpelli né effetti – per me fotografia e poesia: sono sorelle, sì. Non importa se si tratta di una prosa (aperta e mossa) o di un verso (minuzioso e di spalle) – quello che mi colpisce è che non vi è alcuna posa negli scatti di Chiara, ma un talento (per quanto questa sia una parola a mio avviso abusatissima, oggi più di sempre) che talvolta mi fa pensare anche a quel grande semplice artista che è Luigi Ghirri.

Ma lei è già lei, è ben sottinteso.

Voglio condividere adesso questo “documento” con te, caro Giacomo nel tuo “spazio” d’imperfette ellissi.
                                                                                                                                                                           (giampaolo de pietro)


(i versi/didascalia sono di Chiara Gini e Giampaolo De Pietro)

Soundtrack: The Red F - The story (mp3, necessita di browser con flash player abilitato)





Viaggiatrice - io
ti ammiro. Musica benvenuta di
un'amicizia.





abbonato e abbandonato







solo stare











in azzurrità













vorremmo ali,
e radici





e libri a vela







sapersi perdere





per non perdersi mai





case così











punto





che sa dar la mano da lontano


Il sito dell'artista: chiaragini.it

Simone Maria Bonin - Tratti primi

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Simone Maria Bonin - Tratti primi - Arcipelago Itaca Ed., 2017

Simone Maria Bonin - Tratti primi - Arcipelago Itaca Ed.
Come ho detto altre volte, non è sempre agevole parlare di un'opera  prima. Si rischia di essere troppo condiscendenti o troppo severi. Ma può essere utile. E' pur vero, intanto, che un'opera prima non è mai tale, non spunta dal nulla in una notte come un fungo prataiolo. Immagino che anche nel caso di Bonin questi Tratti primi siano frutto di una scelta di prove precedenti, di elezioni e rifiuti operati su un lavoro di scrittura, per quanto relativamente breve esso possa essere stato (l'autore è del 1993). Un libro che ha vinto, per l'inedito, la seconda edizione del Premio indetto da Arcipelago Itaca.
In questo tipo di letture l'interesse principale, a mio avviso, sta nel cercare di capire l'aria che tira, cos'è che importa mettere in poesia ad un giovane, pur nella convinzione (mia) che il dato generazionale non costituisca affatto una categoria critica, ma solo una prospettiva per così dire sociologica. E quindi, di cosa parla Bonin nella sua raccolta? Del mondo, naturalmente, e della realtà, almeno come percepibile ai suoi occhi. Si tratta, citando la motivazione del premio, di "un approssimarsi inquieto ad una realtà che costantemente sfugge". Se ci si limita a questo siamo nel pieno del secolo breve (ma per Sanguineti interminabile), e si parla ancora dell'ambito della incomprensibilità del mondo e della sua descrizione, e della crisi dell'uomo di fronte ad esso. Un tema a cui anche molti giovani poeti non sfuggono, testimoniando un disagio che però non può essere che presagito, o, nella peggiore delle ipotesi, raccolto, come se l'esperienza soggettiva (per forza di cose limitata) si mischiasse ad una percezione non degli eventi ma della narrazione (magari anche letteraria) dei medesimi, di uno stream poetico. Almeno la prima parte della raccolta (diciamo le sezioni Vicoli ciechi, PTSD, Biopsie) mi pare che si muova in questo senso, identificando lo sfuggire della realtà (che però è cosa diversa dal reale, ma lasciamo perdere) nella indeterminatezza degli oggetti poetici e della loro messa a fuoco, dei "luoghi" esistenziali, delle cose che appunto si osservano nell'approssimarsi. Se questi caratteri sono esatti, mi pare che siamo su un terreno di ermetismo "riformato", in chiave moderna se volete. Da questo punto di vista mi sembra emblematico un testo come il seguente:

Sei parole senza nome, senza
soluzione

impara la posizione del corpo
le cose


non torneranno più

in cui al lettore non è offerto alcun appiglio, tranne la pura suggestione di un ammonimento che l'autore dà a sé stesso (il tu non mi pare riferito a qualcun altro) riguardo, forse, al tempo che scorre in maniera inesorabile, partendo da qualcosa (sei parole) di determinatamente indeterminato. Non sappiamo altro, e comunque sappiamo molto meno di quello che certo sa l'autore, un atteggiamento orfico poco "transitivo".
Un altro esempio può essere quello di Illogiche II, che troviamo prima:

II
Qualunque cosa fosse
l’ho sotterrata in un fosso
ho fatto un cerchio nell’aria
e ho scagliato d’impulso il sasso

un movimento d’elastico e il corpo
si fa molla - lontano, dicevo, va lontano

“Tanto poi sbuco fra le dita della tua mano”.

Qui l'indeterminatezza è concentrata in quel "cosa" (parente delle "cose" del testo precedente) che però, pur essendo lapidario e testimoniato dall'autore nel suo essere inconoscibile, ignoto e, forse, ignorato, ingenera nel lettore l'immagine di un fatto, un evento, una esperienza o chissà cos'altro che viene superato, gettato dietro le spalle, tanto poi qualcuno (come dimostra la forma dialogica virgolettata) ritorna, riemerge come in un frame, anche tra le dita della mano che tenta di impedirne la visione. Non si sa se questo fatto sia un bene o un male, il mistero rimane, in questo testo, ma certo il lettore riscuote qualche guadagno in termini evocativi.
Qual è il problema delle "cose"? Di per sé nessuno, anzi le "cose" hanno sempre avuto la loro dignità, in Montale tanto per dire, nella cosiddetta linea lombarda, in autori come Sereni, Cattafi, Balestrini e diversi altri. In questo discorso servono solo come marcatori (ma ce ne sarebbero altri) di una tendenza più generale a far scomparire la realtà, anzi a nemmeno identificarla, "conoscerla", nascondendo questa riduzione minimalista sotto il tappeto della genericità di un sostantivo come "cose" (o analoghi), come ha cercato di dimostrare Davide Castiglione in un suo saggio di qualche anno fa, intitolato appunto "Le cose, le cose, le cose - Svuotamento e stallo nella poesia recente". Insomma si tratta di vedere se certa indeterminatezza (non tanto in Bonin quanto in molta della poesia giovane attuale) è emblema di poesia che ha il suo proprio "essere nulla e tutto" a cui ancora la motivazione del premio fa riferimento (ma rovesciando qui la connotazione positiva della motivazione stessa). Non è un caso che facciano parziale eccezione i testi della interessante sottosezione Voyages , nella quale il riferimento quasi onirico ad elementi naturali (mare, monti, onde, acqua, alberi) danno al dettato una forza di correlatività tra interno e esterno, tra percezione e realizzazione.
Certo, quelli che ho preso in esame sono due casi forse estremi. In effetti essi evidenziano la differenza che esiste all'interno di questo libro tra una prima parte, quella rappresentata dalle sezioni prima indicate, ed una seconda, costituita principalmente dalla sezione eponima Tratti primi, che a me pare di ben altra e miglior stoffa. In quella prima parte, come si è cercato di vedere, il registro è di una voluta opacità monologante, che mi pare rispondere ad una interiorità tanto privata da risultare talvolta misterica; in questa altra lo sguardo dell'autore è decisamente rivolto all'esterno, in relazione con un mondo più vasto, anche storicaménte e geograficamente più distante, abitato da altri. Un mondo identificabile e concreto pur nella sua metaforica valenza di habitat, di luogo diffuso dell'esistenza, ma anche come territorio da attraversare, campo di analisi, elaborazione di frammenti e visioni proprie o altrui, come in autentici scatti fotografici. Qui troviamo il viaggio, che è conoscenza e realizzazione, come la Timisoara in cui riecheggia una Storia, come la rivoluzione rumena dell'89, che per l'autore (che ricordo è del 93) non può tuttavia che essere una esperienza per così dire "ricostruita", postideologica, qualcosa che le ultime generazioni devono ricomporre; troviamo l'esercizio lirico/elegiaco di una parafrasi, di una reinvenzione narrativa di storie che l'immagine fotografica ha fermato, come la serie di testi dedicati a Edward Sheriff Curtis, fotografo degli Indiani d'America, tutti molto interessanti, pregni di voglia di esserci; oppure il resoconto, anche questo interessante e ben scritto, di impressioni, note, suggestioni, meditazioni raccolte durante un viaggio o soggiorno in Danimarca, caratterizzato da un punto di osservazione laterale ma acuto, di un autore volutamente defilato, che percorre i luoghi con pensosa leggerezza e partecipazione.
Non voglio asserire che questa concretezza sia un valore in sé, né che lo sia per chiunque, e nemmeno contrapporla ad una ricerca interiore, ma è dove il reale, non tanto evocato quanto varie volte nominato direttamente nei versi, si raggruma ed affiora fornendo corpo, consistenza materica e colore al testo.
Direi allora che queste sottosezioni di Tratti primi ( Timisoara, fotografie di E.S. Curtis e Denmark), decisamente superiori alle precedenti, sono la parte migliore del libro in cui tra l'altro riesce ad emergere anche un accento lirico capace di prendere fiato ed espandersi, evitando sempre bene segnali troppo elegiaci o decadenti. E' quindi in questa direzione, di realizzazione (termine qui appropriato) del mondo, di aderenza al visibile che Bonin, anche in relazione alle qualità della sua scrittura, a mio avviso dovrebbe andare. (g. cerrai)

da PTSD (Post Traumatic Stress Disorder)

A GdS

Vedi ignoro ciò che scrivo e con il corpo
taccio tutto quello che conosco
perché qui, in questo spazio
è in forse pure il sogno e ogni tratto chiave del disegno
e sempre perso ai quattro angoli del mondo
a parlare coi poeti a dire loro “non è questa
la fine del tuo verso, non è affatto questa”
ma è in forse pure
il centro, l’essere del verbo a dire loro solo questo
ed è totale negazione totale affermazione un nocciolo nel centro
un’esperienza un percepire così saldo
quasi dire sì soffiando dentro al vento in questo vocicchiare umori a carta
e cellulosa per la sola specie umana.

Risolversi al fluire, certo
ma cosa respirare

                      senza mai toccare il mare

non conosco più nemmeno il forse
                                                                   del reale


da TRATTI PRIMI

(Timisoara - Romania)

II

Intagli di Sole su garze di duro cotone
avvolgono il capo di vecchie donne con gli occhi gialli e le gonne a fiori
e alle spalle di case squamate, di pietre austriache e vetrine sporche
fiori di neve rompono l’estate


III

Più ti scrivo e più le vedo quelle folle il dicembre dell’89
a esplodere virali nelle piazze / mento in alto contro palle di [cannone /
“fai veloce a dire le preghiere” / “mangia il pane” /
e fra le dita gridaci il tuo nome trapungilo di AMEN / pelle
a scaglie che si toglie / l’occhio
è fibra muscolare / racimolo memorie dentro folders / colpi
di esistenza sulle case /



(fotografie di E. S. Curtis)

Goldenrod Meadows - Piegan, 1911

Una ti squadra la fronte con gli occhi, l’altra
ti avvolge la guancia, chiede “Che ci guardi a fare con quella macchina?”
Avranno sì e no quindici o sedici anni e i volti di chi cresce in fretta.
Parlano una lentezza che non mi appartiene più.
Stringono mazzi di foglie di tabacco dentro i palmi e la pelle
è dello stesso colore dell’erba secca.
Sono rughe delle grandi pianure, rese gialle
dal frantumarsi dei giorni – 1911 dice l’insegna –
Pikani, Piedi Neri il nome di quelle genti, e senza un nome queste donne
parlano di esistenza e mi fissano gli occhi ora e mi dicono
parole tanto grandi che tutto ciò che sono oggi
non basta a tenere il passo dei loro sguardi


Lodge Interior - Piegan, 1911

E se tanto ci tiene distanti tanto si stende
annegato di terra e polpa di tuberi e stracci
intatto ai nostri occhi
il reale si scopre senza più vesti e vedo quanto
è visto ai vostri occhi
che senza mai vesti il reale scopre
nomi e ricordi tra resti di fiori e stracci rotti



(Denmark)

II

L’inverno si attende con gli occhi a livello del mare.
È il tempo della neve che non fa male quando piccole luci
di candele scrivono ninnenanne al sole. L’esistenza
di notte ha un estremo bisogno di parole, sottovoce
dette per non disturbare. Il sonno è qui padrone delle cose
e nel sonno si perdono le simmetrie umane


III

Muove la neve i suoi passi lungonde di sabbie e venti polari dove
grida d’alghe brune ritmano il tuo cuore e dove il freddo
screpola la pelle e piano chiede di restare.

Seguiamo l’andare e tornare del mare
sintagmi la voce di strane sirene
uomini dispersi dentro al Sole.

Solo vele di duro cotone, legno indurito dal sale
fendono le onde con poche cose
uomini a galla nel mare


Miguel Hernández - Poesie

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Non c’è estensione più grande della mia ferita,
piango la mia sventura e i suoi congiunti
e sento più la tua morte che la mia vita.

M. H

Miguel Hernández nacque il 30 ottobre del 1910 a OrihMiguel Hernándezuela, nella regione sudorientale della Spagna che si affaccia sul Mediterraneo. Fu il secondo figlio maschio di  un’umile famiglia di pastori di capre. Ricevette i suoi primi insegnamenti tra il 1915 e il 1916 presso il centro di insegnamento “Nuestra Señora de Monserrate”. Completò la sua formazione primaria tra il 1918 e il 1923. L’anno dopo si iscrisse al collegio di “Santo Domingo” di Orihuela, tenuto dai padri gesuiti, ma molto presto dovette lasciare il corso di studio per il conseguimento del diploma, a causa del volere del padre, e impegnarsi esclusivamente nel mestiere di pastore. In questi anni si dedicò alla lettura di tantissimi autori classici spagnoli e scrisse i suoi primi componimenti poetici. Partecipò a vari cenacoli letterari di Orihuela, organizzati dal suo amico Ramón Sijé, in occasione dei quali conobbe Josefina Manresa, che sposerà qualche anno più tardi e che fu ispiratrice di molte delle sue poesie. Nel 1934 all’età di ventiquattro anni, pubblicò la sua prima raccolta poetica dal titolo: Perito en Lunas. Nello stesso anno si trasferì a Madrid dove conobbe molti illustri poeti, tra i quali: Vicente Aleixandre e Pablo Neruda, con il quale fondò la rivista “Caballo Verde para la Poesía”. Le idee marxiste di Neruda ebbero una grande influenza sul giovane Miguel Hernández che si allontanò progressivamente dal cattolicesimo per avviare una rapida evoluzione ideologica che lo portò ad arruolarsi con i repubblicani durante la Guerra Civile Spagnola, durante gli anni 1936-1939. Nel 1936 pubblicò la seconda raccolta di poesie, ritenuta da molti critici la sua opera più importante, intitolata: El Rayo que nao cesa, nella quale spicca l’elegia dedicata alla morte dell’amico Ramón Sijé. Nello stesso anno sposò Josefina Manresa dalla quale ebbe due figli, il primo dei quali morì nel 1938. Negli anni della guerra civile continuò a pubblicare altre raccolte: Viento del pueblo (1937),Teatro en la guerra (1937) — raccolta di testi drammatici sulla guerra —, El hombre acecha (1939). Alla fine della guerra, che vide la sconfitta dei repubblicani e la nascita del regime franchista, ritornò a Orihuela, dove fu catturato e condannato a morte. La pena fu commutata in ergastolo. Nel periodo di detenzione lavorò alla sua ultima raccolta: Cancionero y romancero de ausencias (1938-1941). Dopo essere stato trasferito in varie prigioni, morì il 24 marzo del 1942, all’età di trentadue anni, nel penitenziario di Alicante a causa di una grave forma di tubercolosi.


No cesará este rayo que me habita

¿No cesará este rayo que me habita
el corazón de exasperadas fieras
y de fraguas coléricas y herreras
donde el metal más fresco se marchita?

¿No cesará esta terca estalactita
de cultivar sus duras cabelleras
como espadas y rígidas hogueras
hacia mi corazón que muge y grita?

Este rayo ni cesa ni se agota:
de mí mismo tomó su procedencia
y ejercita en mí mismo sus furores.

Esta obstinada piedra de mí brota
y sobre mí dirige la insistencia
de sus lluviosos rayos destructores.


Non cesserà questo raggio che mi popola

Non cesserà questo raggio che mi popola

il cuore d’esasperate belve

e di fucine colleriche e di ferrai

dove il metallo più fresco marcisce?

Non cesserà questa ostinata stalattite

di coltivare le sue dure chiome

come spade e rigide focare

verso il mio cuore che mugghia e grida?

Questo raggio non cessa e non s’esaurisce:
da me stesso ha preso la sua provenienza

ed esercita in me stesso i suoi furori.

Questa ostinata pietra da me attecchisce

e su di me dirige l’insistenza

dei suoi pioggiosi raggi distruttori.




Guiando un tribunal de tiburones

Guiando un tribunal de tiburones,

como con dos guadañas eclipsadas,

con dos cejas tiznadas y cortadas

de tiznar y cortar los corazones,

en el mío has entrado, y en él pones

una red de raíces irritadas,

que avariciosamente acaparadas

tiene en su territorio sus pasiones.

Sal de mi corazón, del que me has hecho

un girasol sumiso y amarillo

al dictamen solar que tu ojo envía:

un terrón para siempre insatisfecho,

un pez embotellado y un martillo

harto de golpear en la herrería.



Guidando un branco di pescecani

Guidando un branco di pescecani,

come con due falci eclissate,

con due sopracciglia annerite e tagliate

da annerire e tagliare i cuori,

nel mio sei entrato, ed in lui poni

un reticolo di radici irritate

che avaramente accaparrate

hanno nel loro territorio le proprie passioni.

Vai dal mio cuore, di cui mi hai fatto

un girasole giallo e sottomesso

al dettame solare che il tuo occhio invia:

una zolla di terra per sempre insoddisfatta,

un pesce imbottigliato e un martello

stanco di battere nella fucina.




Si nosotros viviéramos

Si nosotros viviéramos

lo que la rosa, con su intensidad,

el profundo perfume de los cuerpos

sería mucho más.

¡Ay, breve vida intensa

de un día de rosales secular,

pasaste por la casa igual, igual, igual,

que un meteoro herido, perfumado

de hermosura y verdad.

La huella que has dejado es un abismo

con ruinas de rosal

donde un perfume que no cesa

hace que vayan nuestros cuerpos más allá.



Se noi vivessimo

Se noi vivessimo

quello che vive la rosa, con la sua intensità,

il profondo profumo dei corpi

sarebbe assai più di questo.

Ah, breve e intensa vita

di un giorno di secolari rosai,

passasti per la casa uguale, uguale, uguale,

a una meteora ferita, di bellezza

e verità profumata.

L’orma che hai lasciato è un abisso

con macerie di rose

dove un profumo che non arriva a finire

fa che vadano più in là i nostri corpi.




Umbrío por la pena, casi bruno

Umbrío por la pena, casi bruno,

porque la pena tizna cuando estalla,

donde yo no me hallo no se halla

hombre más apenado que ninguno.

Sobre la pena duermo solo y uno,

pena es mi paz y pena mi batalla,

perro que ni me deja ni se calla,

siempre a su dueño fiel, pero importuno.

Cardos y penas llevo por corona,

cardos y penas siembran sus leopardos

y no me dejan bueno hueso alguno.

No podrá con la pena mi persona

rodeada de penas y cardos:

¡cuánto penar para morirse uno!



Ombroso per la pena, quasi nero

Ombroso per la pena, quasi nero,

perché la pena annerisce quando schiocca,

dove io non mi ritrovo

non si ritrova uomo più disperato.

Sulla pena dormo unico e solo,

pena è la mia pace e pena la mia battaglia,

cane che non tace e non mi molla,

fedele al suo padrone, ma inopportuno.

Cardi e pene porto per corona,

cardi e pene sembrano i suoi leopardi

e non mi lasciano neppure un osso.

Non può farcela con la pena la mia figura

attorniata di pene e di cardi:

quanto deve penare uno per morire!




Todo era azul

Todo era azul delante de aquellos ojos y era

verde hasta lo entrañable, dorado hasta muy lejos.

Porque el color hallaba su encarnación primera

dentro de aquellos ojos de frágiles reflejos.

Ojos nacientes: luces en una doble esfera.

Todo radiaba en torno como un solar de espejos.

Vivificar las cosas para la primavera

poder fue de unos ojos que nunca han sido viejos.

Se los devoran. ¿Sabes? No soy feliz. No hay goce

como sentir aquella mirada inundadora.

Cuando se me alejaba, me despedí del día.

La claridad brotaba de su directo roce,

pero los devoraron. Y están brotando ahora

penumbras como el pardo rubor de la agonía.



Tutto era azzurro

Tutto era azzurro davanti a quegli occhi ed era

verde fin alle viscere, dorato fin a molto lontano.

Perché il colore trovava la sua prima incarnazione

dentro quegli occhi dai fragili riflessi.

Occhi nascenti: luci in una duplice sfera.

Tutto irradiava intorno come un suolare di specchi.

Vivificare le cose per la primavera

fu il potere di certi occhi che non furono mai vecchi.

Li divorano. Sai? Non sono felice. Non c’è piacere

come sentire quello sguardo straripante.

Quando m’allontanai, mi dispensai dal giorno.

La chiarezza germogliava al loro diretto sfiorare,

ma li divorarono. E stanno germogliando ora

penombre come il bruno rossore dell’agonia.




Canción última

Pintada, no vacía:

pintada está mi casa

del color de las grandes

pasiones y desgracias.

Regresará del llanto

adonde fue llevada

con su desierta mesa

con su ruinosa cama.

Florecerán los besos

sobre las almohadas.

Y en torno de los cuerpos

elevará la sábana

su intensa enredadera

nocturna, perfumada.

El odio se amortigua

detrás de la ventana.

Será la garra suave.

Dejadme la esperanza.



Ultima canzone

Dipinta, non vuota:

dipinta è la mia casa

del colore delle grandi

passioni e disgrazie.

Ritornerà dal pianto

dove fu portata

con il suo tavolo deserto

con il suo letto rovinoso.

Fioriranno i baci

sopra i cuscini.

E intorno ai corpi

solleverà il lenzuolo

il suo intenso rampicante

notturno, profumato.

L’odio ammortisce

dietro la finestra.

Sarà artiglio soave.

Lasciatemi la speranza.


(nota e traduzione di Emilio Capaccio)


Poesia d'estate: Merico, Ravizza, Brandolini, Cardinali - nota di Rita Pacilio

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La poesia e il caldo dell’estate duemiladiciassette (nota di Rita Pacilio)

Estate duemiladiciassette: caldo e incendi, caldo e piogge torrenziali, caldo e vento, caldo e dipartite di innumerevoli amici. L’Italia sembra stia bruciando viva nella morsa di un’estate che procede al di là delle responsabilità personali. Eppure c’è voglia di poesia con la consapevolezza di andare nel mondo verso tutti sondando animi, aspettative e motivazioni umane. Con la parola ci si occupa di se stessi, degli altri per mettere a nudo la propria appartenenza alle vicende di tutti: il poeta diventa un ascoltatore com-prensivo, determinato a dichiarare l’esistenza come un conflitto sempre aperto sui problemi più rilevanti dell’Universo.

Contro Venere di Alessandra Merico – I quaderni del Bardo Edizioni, 2017 Contro Venere di Alessandra Merico

Se al poeta è concesso opporsi al modello tradizionale della poesia, intesa come mimesi dell’esperienza oggettiva non gli è, invece, possibile fuggire dalla realtà sia che scelga la via dell’estetismo o della speculazione metafisica, oppure sia attratto dalla ribellione avanguardistica (Gabriele Morelli). Alessandra Merico, nel suo lavoro poetico Contro Venere, sceglie di partire dall’esperienza personale per porsi di fronte alla poesia moderna immergendo il soggetto, l’essere umano sacro e fragile, in continua lotta con il sentimento, nel conflitto palpabile del sentimento stesso. È l’amore, puro e spesso umiliato, che viene a trasformarsi in un diario originale tra senso ed esperienza. La musicalità del verso libero vigila sulla creazione della coscienza che in queste pagine, si ribella, combatte e agisce, non in maniera moralistica, ma con sensibilità e indagine visionaria. Si sviluppa il discorso linguistico: le immagini intime e sociali, il perdono simbolico, la temporalità, la vendicazione, la guerra, nei diversi registri emozionali, richiedono l’esigenza della verità e la sua stessa ricerca. La formula del rapporto con il mondo reclama una riscrittura e una ricreazione della stessa storia. Merico si esprime in prima persona confessando lo sguardo consapevole sul senso sottile di amare. Lo fa alla sua maniera inscenando una pièce teatrale.


*

Fosse anche

stretto tra le mie dita

io lo vedrò il tuo cuore bruciare

all’Inferno.

*

É sole per un giorno

e sproni lo squarcio

forcella che dà sul passato

raccogli dal femore

le tue monete

parole rodiate

non brillano più

si è persa al contatto

la doratura

le agiti assieme per fare

rumore

e il valore è rame che

invecchia

le infili nel petto a gettoni

e trema la carne

sprotetta

nel silenzio cavo

ancora parola

miraggio che non sneva.

*

Le nostre pareti

si aprono ai lati

rotte le assi

delle tempistiche

a nulla valsero

i ciliegi

rifugi su alberi

senza nidi

ognuno tornava

a dormire

su letti affollati

stringere gli occhi

alla federa

sul farsi di sonno

svaniva il busto

di pece

mischiate alle piume

carcasse dell’altro

sotto la testa

- lucerna

sul vero -.

Sopra i tavoli

mazzi di giglio

e date cerchiate

in rosso.

*

L’attesa è l’anticamera di un fine

qualsiasi esso sia

non ha autonomia se non quella

di spezzettarsi in attimi e spandersi

in una circonferenza precisa

il cui centro è nell’unico punto possibile

al sepolcro del fine non sopravvive l’attesa,

il dolore, la rabbia, la delusione o la gioia possono

proseguire in macabri simposi a tenere in vita

memoria che tra le sante è la più ambita

l’attesa è connessa a chi o a cosa

che sa di essere sposa invisibile

è il celebrarsi di una comunione quotidiana

tra un agente che attende e il surrogato del corpo dell’altro

un rito tra due fedi che piegano alla volta del non uno

nel non ora, ma in quell’unica ora in cui potrà compiersi

l’attesa è nel farsi

il suo arco di vita è l’agire di un frutto

al celebrarsi della sua primavera

è quel verde che sa di giallo

è un morso di rosso in potenza

questo e null’altro è l’ attesa.

Alessandra Merico nasce a Maglie (Le) nel 1986. Nel 2012 si diploma all’ "Accademia Internazionale di Teatro” di Roma, con la quale rappresenta diversi spettacoli per la regia di Fiammetta Bianconi, Marco Paciotti, Silvia Marco Tullio ed Emmanuel Gallot Lavallée. Nel 2016 viene selezionata per il corso di perfezionamento “ATTORE PERFORMER” e per il corso di ”SCRITTURA SCENICA PER ATTORE PERFORMER” tenuto dal CUT (centro universitario teatrale) e dal Teatro Stabile dell’Umbria. Nel 2013 vince il “Teglio teatro festival” in Valtellina con “ODI A SE. Soliloqui e dialoghi di solitudini nell’Odissea” scritto, diretto e interpretato dalla stessa e dal collega Giuseppe Zonno. Nel 2014 scrive ed interpreta “Fuori Fuoco” insieme alla cantante Eloisa Atti e “La Notte degli Imbrogli” con la partecipazione di Michele Placido. Nel 2016, per Rai fiction, produzione Endemol, prende parte a “Scomparsa” regia di Fabrizio Costa. Tra gli altri spettacoli: “Il mio nome è nessuno” con Valerio Massimo Manfredi (anche autore) e Sebastiano Somma , “Ciao Amore…” insieme ad Athina Cenci per la regia di Marco Grisafi, “A.A.A. Amore offresi”, regia Roberto Ruggeri, “Ritratti di Signora” insieme a Guenda Goria, Francesca Nunzi, Jonis Baschir e Claudia Ferri per la regia di Vanessa Gabarri, “Affetti stretti” (anche autrice) con Silvia Quondam e Barbara Cerrato.

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La coscienza del tempo di Filippo Ravizza – La Vita Felice, 2017 La coscienza del tempo di Filippo Ravizza

Ogni poeta è segnato dalla storia interiore dell’umanità, dal collettivo, ciò che riguarda tutti. Lo sa bene Filippo Ravizza che, nel suo recente lavoro poetico La coscienza del tempo, ha materiale esperienziale da offrire alla poesia moderna. L’elaborazione visionaria dell’immaginario e del reale si concretizza in una scrittura che evidenzia il tempo e lo spazio riformulato con sguardo analitico e passione ideologica. I luoghi interiori, visibili e invisibili, assumono prospettive esteriori e viceversa. I testi possono essere stati composti davanti allo specchio pensante in cui lo spettatore rivede se stesso in tutta la sua carica potenziale: illusione, sconfitta, perdita, ricerca dell’essenzialità. Si sopprimono le sovrastrutture formali e gli oggetti del quotidiano suscitano interrogazioni ideologiche. La matrice poetica si adegua alla trasformazione e alla riflessione della sua stessa destinazione. Ravizza intende, infatti, confezionare una plurima tensione della storia letteraria rimodellandone le operazioni meccaniche, riproducendo, quindi, un’azione spoglia di passività. Il poeta soffre gli aspetti del viaggio, dell’attesa, della fiction, della ricaduta ed eredita dalla letteratura del novecento, il disegno concreto della realtà scritturale come necessità di vivere esattamente il tempo futuro e i suoi ostacoli.


UN PONTE INTRAVISTO NELLA NOTTE

E' qui! E'giunto: è veramente un premere

le dita del giorno portarle come scena

aperta tra le tempie ...

Le tue mani,di tutto, della forza

del respiro della vita, nella mente;

nulla nulla si leva sopra i pericolanti

albori sopra i sentieri dei nostri

illusi giorni ...

un ponte intravisto nella notte

dicevi e volevi dire il palpitare

di un attimo mentre ancora

esistiamo, ancora - chi può

pensarlo senza vacillare? -

noi ci siamo, stiamo, senza

alcuna verità, senza possibilità

di senso o di vittoria nel premere

dell'ora.

*

TU LO RICORDI BENE

Lo sai, sai che avevo arie, avevo canti,

avevo sogni e rimpianti tutti dentro

alla passione della terra...

volevo stare dentro alla verità

delle cose nel cuore stesso

delle cose...

andiamo? tutti insieme andiamo?

uguali sì veramente uguali ...

avessi amato ancora di più

l'essere tutti ...

io correvo io pensavo è vero

lo ammetto tu lo ricordi bene

tu lo sapevi è vero sognavo

anche io una città socialista,

di più, io.. . hai sgranato gli occhi

allora, mi hai chiesto: Che cosa

più di questo?Una patria socialista

sognavo ti ho risposto.

*

NELLA TERRA - ORO

Raccontami, dimmi di questo sole

cocente sull'acqua mentre

indifferenti girano le sfere

nel grande vuoto e tutto

scandisce come cicala nella

terra - oro la presenza la superficie

opaca segnata dal pieno dei corpi

e delle cose. Anni,mesi,giorni:

tutto è inutile per noi; per te:

e questo, ora, lo sai. Passeranno

queste risa, queste grida, queste

meraviglie...a nulla sarà servito

averle amate come inclinate assenze...

risucchiati noi saremo, estinti.

Dunque ora tu siedi, abbi pace,

calma la tempesta del dolore,

resta nell'alba e nella quiete

mio lettore, mio fratello; come

paglia bruceremo in pochi istanti,

nulla nel nulla.

Filippo Ravizzaè nato a Milano, ove risiede, nel 1951. Poeta e critico letterario, ha partecipato intensamente alla vita delle riviste, a partire dai primi anni Ottanta, ricoprendo, nel corso del tempo, la condirezione del semestrale di poesia Schema, di quello di scrittura, pensiero e poesiaMargo, del semestrale di poesia, arte e filosofia La Mosca di Milano. Ha pubblicato saggi e poesie su numerose altre riviste letterarie, tra le quali “In folio”, “La clessidra”, “L’Ozio letterario”, “Materia”, “Poesia”, “La Corte”, “Quaderno”, “Iduna”, “Atelier”, “Poiesis”, “Capoverso”, “Gradiva”. Ha pubblicato sette raccolte di versi: l’ultima in ordine di tempo è “Nel secolo fragile” (La Vita Felice Editore, 2014), preceduta da “La quiete del mistero” (Amici del Libro d’Artista, 2012), “Turista” (LietoColle, 2008), “Prigionieri del tempo” (LietoColle, 2005), “Bambini delle onde” (Campanotto, 2000), “Vesti del pomeriggio” (Campanotto, 1995), “Le porte” (Schema Editore, 1987). Nel 1995 ha ideato, insieme al poeta Franco Manzoni, il “Manifesto in difesa della lingua italiana”, oggi parte del programma orale ( Cours de production orale) per il conseguimento del dottorato specialistico del Dipartimento di Italianistica dell’Université Paris 8 (Paris - Saint Denis, docente Laura Fournier). E’ stato chiamato a rappresentare la poesia italiana contemporanea alla XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano (1996). Nella sua città ha tra l’altro ideato e realizzato, insieme al docente e critico letterario Gianmarco Gaspari, Lezioni della Storia – Dopo un secolo quale memoria, un ciclo di conferenze iniziato nel 2011, lettura della Storia italiana ed europea attraverso la letteratura. Tra le altre vanno segnalate le conferenze che Gaspari e Ravizza hanno tenuto su Alessandro Manzoni, su Vittorio Sereni, Eugenio Montale, Umberto Saba, Italo Svevo, e Giovanni Pascoli.

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Il volto e il viaggio di Alessio Brandolini – Stefano Cardinali – Edizioni Fili di AquiIl volto e il viaggio di Alessio Brandolini – Stefano Cardinalilone, 2017

La raffinatezza artistica di Alessio Brandolini, nel libro Il volto e il viaggio, fornisce al lettore elementi determinanti – grazie anche ai ritratti di Stefano Cardinali inseriti nel volume- per com-prendere la trama raffigurabile di un viaggio fatto di partenze, di tappe, di pregrinatio e innumerevoli domande. Il viaggio è il codice, il registro che consente di formulare una struttura dinamica della realtà. Fornisce, quindi, al pensiero poetico dell’autore, il percorso percettibile e invisibile nella storia come mappa in cui è segnato il dialogo tra la vita e la memoria. Non ci sono sensi sottesi: Brandolini utilizza il verso libero, fluido e disteso, con scintille poetiche scandite, per segnalare il destino di vita e morte comune a tutti gli uomini. La ricerca dell’essenziale natura umana, il suo compito, l’eterna contraddizione geografica e culturale, fa risuonare le coscienze. Il quotidiano, i piccoli gesti incrociano sguardi enigmatici, sentimenti profondi nei disegni dei volti di Cardinali. Viene dato rilievo e provocazione alla componente psicologica del tratto, mentre la parola assegna ai panorami umani un percorso interiore posto al servizio di appartenenze, di presenze letterarie, pur conservando l’esperienza sociale e apocalittica dell’assenza, dell’abbandono, della solitudine. Non si tratta di rinuncia, di arresa di fronte alla promiscuità dell’uomo. Un’ambivalenza che viene sceneggiata osservando la tradizione del passato, la modernità di modelli e schemi di vita contemporanei prosciugati di rinnovamento. Brandolini e Cardinali, in questo bel libro, indicano la tangenziale per uscire dal nulla portando sulle spalle l’amore del mondo. Per il mondo. La speranza.


Fili stellari

A terra e vorrei buttar via

le cose che non servono:

l’inutile, anche il superfluo.

Seduto al centro della stanza

ma ho sempre troppe cose

da sistemare e poi, per dirla

tutta, è proprio il superfluo

(l’esatta futilità di ogni cosa)

a dare la forza di alzarmi

uscire per strada, incontrare

altre persone e poi inseguire

un sogno dove ai fili stellari

si attorcigliano volti e versi.

*

Architetto

Quante buone ragioni per essere

così pensoso e irrequieto?

Più di una, dirai, nell’oscuro

scenario nell’imprevisto

che trasforma il pane in briciole

di muffa. Nervi tesi e frasi color

porpora duplicate dal trambusto

mediatico. Frattanto un sole ubriaco

racconta storielle adagiato sugli abeti.

Hai smarrito il tocco della tua antica

creatività e ora mormori frasi

sconnesse, frammenti di mappe

urbane. Le risate sono astratte ferite

e il sudore riga il volto, scroscio

interno di grandine: una visione

della Tunisia, è da lì che sei partito!

Ecco il culto delle facili scommesse

edificate dalla pressione minacciosa

ingombrante alle cinque del mattino.

E tu ben saldo, in piedi, in trincea

a riflettere per ore sul possibile riparo

sull’inaccessibile costruzione difensiva.

*

Nella mischia

Avremmo dovuto essere un’unica forza

un saldo motore che alimenta le azioni

persino i nostri cuori. Cala il sipario

sulla finzione. C’è Venere lassù alle sei

del mattino a tenderci una mano

e null’altro, se non l’abituale isolamento.

Un cane disegna con la coda panorami

inaccessibili, l’inchiostro delle zampe

macchia la luna. Dal cielo cala il freddo

e polvere di stelle contrassegnata

con il sangue degli esuli, con il grido

di aiuto di chi affoga. Indosso abiti

da guerra e innalzo solide costruzioni

difensive: cerco la lotta, la sfida e non

importa se ad attenderci ci sarà la sconfitta.

ALESSIO BRANDOLINI (1958) vive a Roma dove si è lau-reato in Lettere moderne. Ha pubblicato i libri di poesia: L’alba a piazza Navona (1992, «Premio Montale - Inedito»), Divisori orientali (2002, «Premio Alfonso Gatto - Opera Prima»), Poesie della terra (2004; anche in spagnolo: Poemas de la tierra, 2004 e 2014), Il male inconsapevole (2005), Mappe colombiane (2007; anche in spagnolo: Mapas colombianos, Colombia, 2015), Te-vere in fiamme (2008, «Premio Sandro Penna»), Il fiume nel mare (2010, Finalista«Premio Camaiore») e Nello sguardo del lupo (2014). Nel 2016 è uscita l’antologia poetica: Il futuro è un campo incolto (1992-2014). Suoi testi sono stati tradotti in di-verse lingue e pubblicati su riviste italiane e straniere. In Costa Rica sono uscite le antologie En el ojo del lobo (2009), Desde otro planeta (2014) e in Colombia Llamo desde otro planeta (2016), tutte con la traduzione di Martha Canfield. Dal 2003 al 2013 ha fatto parte del gruppo letterario “I Libri In Testa”. Nel 2013 ha pubblicato il libro di racconti brevi Un bosco nel muro (Empirìa). Traduce dallo spagnolo e dal 2006 coordina «Fili d’aquilone», rivista web di «immagini, idee e Poesia». Nel 2011 ha fondato la casa editrice Edizioni Fili d’Aquilone.

STEFANO CARDINALI (Roma, 1955) vive a Latina. Nel 1989 partecipa alla prima mostra collettiva seguita a breve da una in-dividuale di acqueforti. Dopo varie esposizioni con altri artisti nel 2002 presenta la prima personale di acquerelli e grafiche dal titolo “La Natura delle Cose”. In quel periodo comincia la colla-borazione con Alessio Brandolini e alcuni suoi disegni vanno a corredare i libri del poeta. Ritenuta conclusa l’esperienza grafico-pittorica si dedica alla scrittura entrando nel collettivo Anonima Scrittori. Nel 2011 pubblica l’e-book Savile Row - La strada per la musica degli anni settanta. L’avventura con la scrittura lo porta a conoscere Antonio Pennacchi che gli chiede di realizzare le cartine dell’Agro Pontino, prima e dopo la bonifica, per il suo romanzo Canale Mussolini che vincerà il Premio Strega nel 2010. In seguito alla felice partecipazione al libro di Pennacchi, riprende a disegnare dedicandosi però esclusivamente al ritratto. Nasce così l’esperienza che lo porta a riprendere la collabora-zione con Brandolini e alla realizzazione di questo libro.



Mario Fresa - Alfabeto Baudelaire

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Mario Fresa - Alfabeto Baudelaire - EDB Edizioni, 2017Mario Fresa - Alfabeto Baudelaire - EDB Edizioni, 2017

Come ho detto altre volte, d'estate per rinfrescarsi conviene tornare ai classici. Hanno l'innegabile vantaggio di segnare una distanza da una contemporaneità spesso deludente, se non indicativa di una drammatica mancanza di prospettiva. Distanza che offre un largo orizzonte, un orizzonte di cui almeno sappiamo che cosa c'è oltre. Baudelaire è uno di questi classici, che Mario Fresa affronta in una sua versione in questo interessante libro edito da EDB di Milano, arricchito, come avvenne per Apollinaire, dai bei disegni di Massimo Dagnino, i quali, come nota in postfazione Davide Cortese, "si rapportano al proprio testo di riferimento per via concettuale, (...) i versi funzionano come materia prima da modificare; un elemento, una tematica laterale che si mostra nei versi viene isolata e sviluppata in maniera autonoma". Ne esce quindi, in primis, qualcosa di più e diverso rispetto ad una tradizionale pubblicazione d'arte, nella quale la parte iconica è come suol dirsi "di corredo": un'opera culturale in cui si misurano in maniera sinestesica - più che due media - due sensibilità artistiche (vale ricordare che Dagnino è anch'egli scrittore e poeta), una corrispondenza sensuale favorita pure dal grande formato del libro (quasi un "in quarto").
Mario Fresa estrae dai Fiori del male dodici testi esemplari con cui compone il suo alfabeto: si va dalla "benedizione" al "vino degli amanti", passando per il gatto, il morto lieto, lo spleen. Momenti, luoghi, presenze topici della poetica baudelairiana, poi diventati passaggi quasi obbligati per la poesia successiva, per l'enorme influenza che hanno avuto, per la mutazione del paesaggio che hanno determinato (si pensi soltanto all'irruzione della città e di tutto l'ambiente urbano nell'immaginario poetico, "luogo perfetto - dice Fresa in una nota - per accogliere, in sé stesso, il delirio e il rapimento dell'ubriacatura e dello sperdimento"). Credo che sia questo il senso principale della selezione di Mario, che costituisce anche un indirizzo critico ed estetico, non tanto e non solo nei riguardi dello stesso Baudelaire, quanto, come accennavo prima, nella direzione di una eredità successiva di cui è necessario tenere conto leggendo e scrivendo anche della poesia italiana contemporanea, in cui è difficile trovare un flaneur che non sia rattratto in sé, né una città che non sia un non luogo, un mero arredo esistenziale. Fresa, anche quando traduce, è uno che non dimentica mai il suo bagaglio né i suoi debiti culturali. Ne sono parziale dimostrazione i suoi lavori su Marziale o su Apollinaire (v. QUI ) e diversi altri autori, ma anche i suoi svariati interventi critici sulla produzione letteraria attuale. Ma Mario è soprattutto un poeta, ed è poeticamente che ogni volta affronta una sfida traduttiva, non limitandosi mai ad una trasposizione, per quanto sempre autorevole e correttissima, da una lingua all'altra. Il suo lavoro è sempre di sintonizzazione con l'autore "ospite" e nel contempo di sfida espressiva nei suoi confronti, forse qui meno di quanto ebbi a dire a proposito del suo approccio a Apollinaire, quando parlai di "traduttore inventore o ri-creatore, sempre alla ricerca di un giusto mezzo (ma sempre con l'azzardo dell'invenzione) tra metro e senso, tra rima e lima, tra barocco e dodecafonia, ma sempre mosso da una specie di innamoramento di partenza verso l'autore che traduce". Amore e rispetto, come è facile verificare in traduzioni come ad esempio quella de L'albatro, nella quale Fresa consegue un eccellente equilibrio, tra segno e senso, tra lettura e interpretazione, tra sostituzione e conservazione di significati, ritmi, resa poetica, registri lirici. È, ovviamente con le dovute proporzioni, uno scambio proficuo tra poeti, in cui in sintesi Mario riesce a trasmettere, anche ad un lettore come me che abbia presenti altre versioni dei Fiori, l'espritsempre nuovo e fresco di questa opera fondamentale. (g. cerrai)

(illustrazione in calce: Baudelaire visto da M. Dagnino, 2017 - riproduzione vietata)

II

L'ALBATRO

Spesso, per divertirsi, gli uomini d'equipaggio
Degli albatri catturano; grandi, marini uccelli
Che seguono, indolenti compagni di viaggio,
Il vascello che scorre sopra gli abissi amari.

E li hanno appena posti sul ponte della nave
Che, vergognosi e inetti, questi re dell'azzurro
Calano, pietosamente, accanto ai fianchi,
Le grandi e bianche ali, come fossero remi.

E com'è goffo e maldestro, quel viaggiatore alato!
Proprio lui, ch'era prima così bello, com'è buffo, ora, e sgraziato...
Già qualcuno, con la pipa, gli stuzzica un po' il becco;
L'altro, arrancando, mima l'infermo che poco fa volava;

Il Poeta somiglia davvero a questo principe dei nembi,
Che vive nel mezzo d'una tempesta, e ride dell'arciere;
Ma pure, in esilio sulla terra, posto al centro degli scherni,
Per le sue ali di gigante non può muoversi di un passo.



II

L'ALBATROS

Souvent, pour s'amuser, les hommes d'équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.

À peine les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l'azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d'eux.

Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule !
Lui, naguère si beau, qu'il est comique et laid !
L'un agace son bec avec un brûle-gueule,
L'autre mime, en boitant, l'infirme qui volait !

Le Poëte est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer ;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l'empêchent de marcher.




IV

CORRISPONDENZE

E un tempio, la Natura, ove colonne vive
Sussurrano parole misteriose; e l'uomo
Vi attraversa foreste di simboli che sempre
L'osservano con occhi familiari.

Come echi lunghissimi, che di lontano vengono
E si fondono in una scura e densissima unità,
Vasta come la tenebra e il chiarore del giorno,
Profumi e colori e suoni si rispondono:

E so di odori che ricordano la carne purissima di un bimbo:
Dolci come un oboe: quasi intinti nel verde d'un giardino;
- E altri ne conosco, più torbidi e corrotti, e ricchi e trionfali,

Che possiedono il respiro di ciò ch'è illimitato;
E sono il muschio il benzoino l'ambra l'incenso:
Essi cantano, insieme, l'estasi dell'anima e dei sensi.



IV

CORRESPONDANCES

La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles ;
L'homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l'observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

Il est des parfums frais comme des chairs d'enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
— Et d'autres, corrompus, riches et triomphants,

Ayant l'expansion des choses infinies,
Comme l'ambre, le musc, le benjoin et l'encens,
Qui chantent les transports de l'esprit et des sens.




LXXVI

SPLEEN

Ho più ricordi che se avessi mille anni.

Un grande mobile a cassetti, ingombro di bilanci,
Di versi, di lettere d'amore, di verbali, di romanze,
E di pesanti ciocche di capelli ravvolte in quietanze,
Nasconde meno segreti del mio cervello triste.
E una piramide, un immenso sepolcro,
Che contiene più morti d'una fossa comune...
- Io sono un cimitero dalla luna aborrito
In cui, come rimorsi, si trascinano lunghissimi vermi
Che s'accaniscono senza nessuna tregua sui miei più cari morti.
Sono un vecchio salotto pieno di rose appassite,
Dove giace un'accozzaglia di mode superate;
E i pastelli miserevoli e i pallidi Boucher,
Soli, respirano il profumo d'un flaconcino aperto.

Nessuna cosa è pari alla lentezza di quei giorni claudicanti
Durante i quali, sotto i fiocchi pesanti delle annate nevose,
Il tedio, frutto della cupa indifferenza, assume già
Le proporzioni dell'immortalità.
- Tu non sei altro, o materia mia vivente, che un granito
Circondato da uno spavento vago, che s'è addormito
Nel fondo delle nebbie d'un Sahara;
Tu sei una vecchia sfinge ignorata dal mondo noncurante,
Dimenticata dalle mappe, con un selvaggio umore
Che canta soltanto ai raggi di un sole che tramonta.



LXXVI

SPLEEN

J'ai plus de souvenirs que si j'avais mille ans.

Un gros meuble à tiroirs encombré de bilans,
De vers, de billets doux, de procès, de romances,
Avec de lourds cheveux roulés dans des quittances,
Cache moins de secrets que mon triste cerveau.
C'est une pyramide, un immense caveau,
Qui contient plus de morts que la fosse commune.
— Je suis un cimetière abhorré de la lune,
Où comme des remords se traînent de longs vers
Qui s'acharnent toujours sur mes morts les plus chers.
Je suis un vieux boudoir plein de roses fanées,
Où gît tout un fouillis de modes surannées,
Où les pastels plaintifs et les pâles Boucher,
Seuls, respirent l'odeur d'un flacon débouché.

Rien n'égale en longueur les boiteuses journées,
Quand sous les lourds flocons des neigeuses années
L'ennui, fruit de la morne incuriosité,
Prend les proportions de l'immortalité.
— Désormais tu n'es plus, ô matière vivante !
Qu'un granit entouré d'une vague épouvante,
Assoupi dans le fond d'un Saharah brumeux ;
Un vieux sphinx ignoré du monde insoucieux,
Oublié sur la carte, et dont l'humeur farouche
Ne chante qu'aux rayons du soleil qui se couche.




Christian Boltanski - Anime. Di luogo in Luogo, nota di Elisa Castagnoli

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“Anime. Di luogo in Luogo” da Christian BoltanChristian Boltanskiski
(al Mambo di Bol
ogna)

E’ un percorso sensoriale, un’esperienza fisica che implica l’attraversamento, l’immersione del corpo percettivo e partecipe dello spettatore nello spazio di “Anime, di luogo in luogo” per ricevere, o meglio sentire, essere parte dell’ evento prima che comprenderlo intellettualmente; una serie di installazioni realizzate dall’artista francese Boltanski in occasione dell’omaggio resogli dalla città di Bologna ripropongono fino al 12 novembre le sue opere più significative e due inediti raccolti nella mostra antologica al Mambo, museo d’arte moderna.

Entri nell’oscurità di specchi che rifrangono gli uni sugli altri dal fondo delle pareti nere di una stanza; in sottofondo un battito amplificato pulsa intermittenze ritmiche da una moltitudine di cuori archiviati e raccolti dai suoi precedenti lavori alla luce di una lampadina.

Entri dentro questa atmosfera rarefatta, velata e illusoria, lieve ed effimera ai sensi. Attraversi un portale come fosse una soglia del “tempo” che ti conduce fuori dall’esperienza della realtà all’altra parte dell’esistenza sensibile. Sul tessuto leggero e evanescente di una tenda vedi affiorare grandi occhi scuri, ritratti ricompongono e fanno scorrere da un fotogramma all’altro immagini in movimento di un volto, quello dell’artista dall’infanzia all’età adulta nelle sue molteplici, fluttuanti sfaccettature. Entri e continui ad attraversare pareti di seta che si susseguono ad altre trasparenti e velate; ricompongono sguardi, occhi di volti persi nell’oscurità proveniente da vite precedenti, anime che si affacciano e ci guardano dialogando attraverso le tende. Compaiono, si illuminano per un istante, troppo breve, poi ripiombano nell’oscurità. Sono salvate come anime, riportate per un attimo all’esistenza sensibile, non a quella terrena dei corpi ma, incorporee, in questi tessuti materializzano come immagini fotografiche di volti solo a metà focalizzati.





Luce e oscurità: è così che i volti si rivelano nelle tenebre attraverso occhi grandi, aperti, magnificenti e resi visibili sui tessuti. Traspaiono là per un istante sulle tende, il volto primo specchio dell’anima, per questo tanti gli specchi convocati all’inizio del percorso. Battiti cardiaci, regolari e ad intermittenza sul sottofondo. Attraversi sensorialmente, di luogo in luogo le varie isole o punti di sospensione di un percorso libero, vago quanto sotteso a due indicazioni essenziali; “Départ” e “Arrivée”.



La Luce o la sua assenza, le intermittenze sonore, le apparizioni di immagini e l’altrettanto rapido ritorno alla semi-oscurità sono parte integrante della mostra insieme ai temi ricorrenti, alle eterne questioni o ossessioni che da sempre accompagnano Boltanski: la coesistenza di vita e morte nell’esistenza sensibile come nell’esperienza percettiva che egli mette in scena; la necessità della memoria contro la corsa ineluttabile del tempo e la distruzione del medesimo, infine il bisogno di testimonianza ricreando tracce, reali e fittizie per raccontare, restituire una versione possibile della storia, infine rielaborare una memoria intima e collettiva in parte rimossa .

“Ombre” nella prima stazione sono quelle oscure che si affacciano dal sotto-mondo, piccole e basse frequenze materializzano in scheletrini appesi alla figura evocata nella proiezione in nero espansa sulla parete. Una maschera digrignante e fantasmi appaiono sospesi da fili al profilo delineato al centro come piccole marionette dal regno delle ombre. Attraversi le tende, incroci le auree evanescenti dei ritratti che ricompaiono vagando di luogo in luogo tra le installazioni retrospettive di Boltanski fino che al centro della galleria dove ti imbatti in una sorta di montagna incantata; una struttura piramidale si eleva verso l’alto ricoperta e metallizzata in oro attraverso coperte isotermiche utilizzate oggi per prestare un primo soccorso ai profughi migranti in Europa. Delle tante morti anonime in mare tra i molti dispersi in tragiche condizioni sono i fantasmi senza nome, le prime anime alla deriva volutamente evocate da Boltanski qui per rendere loro un ultimo omaggio. Un’aspirazione all’assoluto sembra imporsi con la luce dell’oro nell’eterno ritorno dell’anima alla divina perfezione senza dubbio nella sua proiezione luminosa, espansa ed elevata verso l’alto in ascesi come questa montagna incanta. Al centro della galleria essa sola è illuminata dal raggio chiarificatore di una grande lampada accesa.


“Autel Detective” “primo altare” di fotografie e memoria assembla immagini in bianco e nero su un fondale oscuro e lampadine blu alogene a illuminarle in primissimo piano . Un’isola del passato riaffiora in un approdo istantaneo della memoria, in un salvataggio “in extremis” attraverso i volti ridenti di giovani da un tempo prima del conflitto mondiale. “Autel du Lycée Chases”, allo stesso modo è un arcipelago di volti adolescenti di giovani ebrei a Vienna prima dell’avvento del nazismo. Sorridenti in primissimo piano, in bianco e nero sfuocato, i grandi ritratti si rivelano attraverso i loro tratti espansi e fluidi alla sola luce di lampadine puntate contro nell’oscurità circostante. Tale, un modo per dare dignità, mettere in luce e in rilievo la verità unica e inconfutabile iscritta, incisa in ogni singola vita come traccia, lascito di una storia individuale e insieme riscatto di una memoria storica e collettiva ancora in parte da rielaborare. In “Monuments” i volti sono sempre più grandi in bianco e nero fluido ora totalmente presenti come auree di corpi svaporati, aloni luminosi e vaghi, involucri spirituali di anime rivelate in traccia fotografica nel profondo chiaro-scuro dalle lampadine, unica fonte di luce circostante.



Scatole di latta simili a cassetti per la classificazione di dati sono impilati ad archivi ai piedi delle fotografie come altrove erano i ritratti svuotati delle figure, in primo piano sui sostegni commemorativi in ferro. Questi cassetti, oggetti fittizi investiti di un forte portata evocativa sembrano stranamente provenire dalle classificazioni illimitate di documenti celati nei passati regimi nazional-socialisti o sovietici dove tutto era registrato, catalogato, archiviato, passato al setaccio e in gran parte censurato dal grande occhio di uno stato totalitario, da un partito unico centralizzato nei suoi massimi funzionari. In Boltanski tali oggetti simbolici, segni tangibili di una memoria traumatica filtrata dalla generazione post-olocausto appaiono riportati in vita ma traslati rispetto al loro uso originario divenendo archivi ricreati della memoria. Riesumati anche se vuoti come contenenti-contenitori fittizi, appaiono come“monuments” essi stessi di un apparente bisogno di restituire o riscattare un passato anche attraverso la sua finzione, per sfuggire all’inevitabile oblio insito nella cancellazione inesorabile del tempo; verità universale e insieme messa in scena palese alla quale lo spettatore potrà aggiungere una propria percezione dell’avvenimento. Appaiono qui come mattoncini di latta, cassetti estratti da vecchie scaffalature arrugginite, urne cinerarie, infine i supporti per le fotografie. In fondo al percorso illuminati da una luce blu elettrica a neon, impersonale gettandosi in linee taglienti sugli spigoli appuntiti si ergono a “muraglia cinese” fatta di scatole di latta dalle sfumature in ferro e ruggine con piccole foto di identità incollate sopra e lampadine puntate contro a rendere loro giustizia.



"Animitas”, (“Blanc”, video)

Epilogo in uno stato di inusuale e apparente quiete

Primavera sulla terra qui, il suolo vivente, l’humus, l’erba impiantata a vivo sul lastricato della galleria. Il fieno tra i fili d’erba, l’odore della terra presente nello spazio, piccole zolle, fogli, fiori come di un campo verde in parte germogliato in parte lasciato essiccare al sole, simile a fieno.



Sullo schermo, l’immagine in immobile movimento, bianco come neve ma nella fluttuazione di correnti aeree di primavera. Non sappiamo se il tintinnio insistente di campanelli al vento muovendosi su un unico piano sequenza, filmato dall’alba al tramonto nel deserto di Atacama in Cile, sia solo un campo ricoperto di neve con cavi metallici risuonanti del loro interno- quasi in impercettibile eco - se si tratti un cielo stellato pervaso di punti ascendenti e luminosi visto da distanza dalla terra oppure di fili mossi dal vento germogliando, risalendo verso la superficie nel moto continuo della vita contro la pallida immobilità circostante. Resta la sensazione o meglio la suggestione poetica di qualcosa di effimero, lieve e appena percettibile ai nostri occhi , quasi inesistente eppure fuori dall’ atmosfera dominante di morte-in-vita, di oblio e ritorno a una eterna assenza del resto dell’installazione; ed è forse solo per quel contatto diretto, a piedi nudi quasi come su un campo verde, di fieno e fili d’erba germogliati nell’abbraccio rigenerante della natura. (elisa castagnoli)




Georges Bataille - L'ano solare

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E' chiaro che il mondo è puramente parodistico, nel senso che ogni cosa che si osserva georges bataille nel 1943è la parodia di un'altra, o ancora la stessa cosa sotto una forma deludente.
Da quando le frasi circolano nei cervelli occupati a riflettere, si è proceduto ad una identificazione totale, poiché con l'aiuto di una copula ogni frase lega una cosa all'altra; e tutto sarebbe visibilmente legato se si scoprisse a colpo d'occhio nella sua totalità il tracciato lasciato da un filo d'Arianna, che conduce il pensiero nel suo stesso labirinto.
Ma la copula dei termini non è meno irritante di quella dei corpi. E quando io esclamo: IO SONO IL SOLE, ne risulta una completa erezione, perché il verbo essere è il veicolo della frenesia amorosa.

Tutti hanno coscienza che la vita è parodistica e che manca un'interpretazione.
Così il piombo è la parodia dell'oro.
L'aria è la parodia dell'acqua.
Il cervello è la parodia dell'equatore.
Il coito è la parodia del delitto.

L'oro, l'acqua, l'equatore o il delitto possono indifferentemente essere formulati come il principio delle cose.

[...]


(à suivre)

(trad. G. Cerrai)

Georges Bataille - L'ano solare (completo)

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Georges Bataille - L'ano solareDopo l'assaggio di tre giorni fa, ecco il testo completo de L'ano solare , nella mia traduzione. Un testo visionario, aggettivo spesso usato a sproposito, anche per altri autori, ma qui quanto mai appropriato.

E' chiaro che il mondo è puramente parodistico, nel senso che ogni cosa che si osserva è la parodia di un'altra, o ancora la stessa cosa sotto una forma deludente.
Da quando le frasi circolano nei cervelli occupati a riflettere, si è proceduto ad una identificazione totale, poiché con l'aiuto di una copula ogni frase lega una cosa all'altra; e tutto sarebbe visibilmente legato se si scoprisse a colpo d'occhio nella sua totalità il tracciato lasciato da un filo d'Arianna, che conduce il pensiero nel suo stesso labirinto.
Ma la copula dei termini non è meno irritante di quella dei corpi. E quando io esclamo: IO SONO IL SOLE, ne risulta una completa erezione, perché il verbo essere è il veicolo della frenesia amorosa.

Tutti hanno coscienza che la vita è parodistica e che manca un'interpretazione.
Così il piombo è la parodia dell'oro.
L'aria è la parodia dell'acqua.
Il cervello è la parodia dell'equatore.
Il coito è la parodia del delitto.

L'oro, l'acqua, l'equatore o il delitto possono indifferentemente essere formulati come il principio delle cose.
E se l'origine non rassomiglia al suolo del pianeta che appare esserne la base, ma un movimento circolare che il pianeta descrive intorno a un centro mobile, un'auto, un orologio o una macchina da cucire possono ugualmente essere accettati come principio generatore.

I due principali movimenti sono il movimento rotatorio e il movimento sessuale, la cui combinazione si esprime con una locomotiva composta di ruote e pistoni.
Questi due movimenti si trasformano l'uno nell'altro reciprocamente.
E' così che ci si avvede che la terra girando fa accoppiare gli animali e gli uomini e (siccome ciò che risulta è anche la causa che lo provoca) che gli animali e gli uomini fanno girare la terra accoppiandosi.
E' la combinazione o la trasformazione meccanica di questi movimenti che gli alchimisti ricercavano sotto il nome di pietra filosofale.
E' per l'uso di questa combinazione di valore magico che la situazione attuale dell'uomo è stabilita in mezzo agli elementi.

Una scarpa abbandonata, un dente guasto, un naso troppo corto, il cuoco che sputa nel cibo dei suoi padroni stanno all'amore come la bandiera sta alla nazionalità.
Un ombrello, una sessantenne, un seminarista, l'odore di uova marce, gli occhi accecati dei giudici sono le radici da cui l'amore si nutre.
Un cane che divora le viscere di un'oca, una donna ubriaca che vomita, un ragioniere che singhiozza, un vaso di mostarda rappresentano la confusione che serve da veicolo all'amore.

Un uomo messo in mezzo agli altri è irritato di sapere perché non è uno degli altri.
Sdraiato in un letto accanto a una ragazza che ama, dimentica di non sapere perché è lui invece di essere il corpo che tocca.
Senza saperne niente, soffre a causa dell'oscurità dell'intelligenza che gli impedisce di gridare che è lui stesso la ragazza che dimentica la sua presenza mentre s'agita tra le sue braccia.

O l'amore, o la collera infantile, o la vanità di una vecchia borghese di provincia, o la pornografia clericale, o il canto solitario di una cantante smarriscono dei personaggi dimenticati dentro appartamenti polverosi.
Avranno un bel cercarsi gli uni con gli altri avidamente: non troveranno altro che immagini parodistiche e si addormenteranno vuoti come degli specchi.

La ragazza assente e inerte che è appesa alle mie braccia senza sognare non mi è più estranea della porta o della finestra attraverso cui posso guardare o passare.
Ritrovo l'indifferenza (che le permette di lasciarmi) quando mi addormento per incapacità di amare quel che accade.
E' impossibile per lei sapere chi ritrova quando la stringo perché realizza ostinatamente un intero oblio.
I sistemi planetari che girano nello spazio come rapidi dischi e di cui il centro si sposta del pari descrivendo un cerchio infinitamente più grande non si allontanano di continuo dalla loro posizione che per ritornare ad essa alla fine della loro rotazione.
Il movimento è la figura dell'amore incapace di fermarsi su di un essere in particolare, passando rapidamente da uno all'altro.
Ma l'oblio che così lo condiziona non è che un sotterfugio della memoria.

Un uomo si alza bruscamente come uno spettro su una bara e si accascia nello stesso modo.
Si rialza qualche ora dopo poi si accascia di nuovo e così di seguito ogni giorno: questo grande coito con l'atmosfera celeste è regolato dalla rotazione terrestre di fronte al sole.
Così, benché il movimento della vita terrestre sia ritmato da questa rotazione, l'immagine di questo movimento non è la terra che gira ma la verga che penetra la femmina e ne esce quasi del tutto per rientrarvi.

L'amore e la vita appaiono singoli sulla terra solo perché tutto vi è frantumato da vibrazioni di ampiezza e durata diverse.
Tuttavia non c'è vibrazione che non sia congiunta con un continuo movimento circolare, come sulla locomotiva che viaggia sulla superficie della terra, immagine della continua metamorfosi.

Gli esseri non muoiono che per nascere alla maniera di falli che escono dal corpo per entrarvi.
Le piante si innalzano in direzione del sole e si accasciano in direzione del suolo.
Gli alberi innalzano sul suolo terrestre una quantità innumerevole di verghe fiorite drizzate verso il cielo.
Gli alberi che si slanciano con forza finiscono inceneriti dalla folgore o abbattuti, o sradicati. Tornati al suolo, essi si rialzano di nuovo con un'altra forma.
Ma il loro coito polimorfo è funzione della rotazione terrestre uniforme.

L'immagine più semplice della vita organica unita alla rotazione è la marea.
Dal movimento del mare, coito uniforme della terra con la luna, deriva il coito polimorfo e organico della terra con il sole.
Ma la prima forma dell'amore solare è una nuvola che si innalza sopra l'elemento liquido.
La nuvola erotica talvolta diventa uragano e ricade sulla terra sotto forma di pioggia mentre la folgore lacera gli strati dell'atmosfera.
La pioggia risorge subito sotto forma di pianta immobile.

La vita animale proviene interamente dal movimento dei mari e, all'interno dei corpi, la vita continua a tirar fuori acqua salata.
Il mare ha così svolto il ruolo dell'organo femminile che diventa liquido sotto l'eccitazione della verga.
Il mare si masturba continuamente.
Gli elementi solidi contenuti e mescolati dall'acqua animata da un movimento erotico ne schizzano fuori sotto forma di pesci volanti.

L'erezione e il sole scandalizzano quanto il cadavere e l'oscurità delle cantine.
I vegetali si volgono tutti verso il sole e, al contrario, gli esseri umani, benché siano falloidi, come gli alberi, in contrasto con gli altri animali, ne distolgono necessariamente gli occhi.
Gli occhi umani non sopportano né il sole, né il coito, né il cadavere, né l'oscurità, ma con differenti reazioni.

Quando ho il viso iniettato di sangue, diventa rosso e osceno.
Tradisce allo stesso tempo, con i suoi riflessi morbosi, l'erezione sanguinante e una sete impellente d'impudicizia e di dissolutezza criminale.
Così io non temo di affermare che il mio viso è uno scandalo e che le mie passioni non sono espresse che dal JÉSUVE (1).
Il globo terrestre è ricoperto di vulcani che gli servono da ano.
Benché questo globo non mangi niente, esso tuttavia rigetta fuori il contenuto delle sue viscere.
Questo contenuto scaturisce con fracasso e ricade scorrendo lungo le pendici del Jésuve, spargendo dappertutto la morte e il terrore.

In effetti, i movimenti erotici del suolo non sono fecondi come quelli delle acque ma molto più rapidi.
A volte la terra si masturba freneticamente e tutto sulla sua superficie crolla.

Jésuve è così l'immagine del movimento erotico che per rottura da alle idee contenute nello spirito la forza di un'eruzione scandalosa.

Quelli in cui si accumula la forza eruttiva sono necessariamente situati in basso.
Gli operai comunisti appaiono ai borghesi così laidi e sporchi quanto le parti sessuali e pelose o parti basse: presto o tardi ne seguirà una eruzione scandalosa durante la quale le teste asessuate e nobili dei borghesi saranno tagliate.

Disastri, le rivoluzioni e i vulcani non fanno l'amore con gli astri.
Le deflagrazioni erotiche rivoluzionarie e vulcaniche sono in antagonismo col cielo.
Così come gli amori violenti, si metteranno in rotta di collisione con la fecondità.
Alla fecondità celeste si oppongono i disastri terrestri, immagine dell'amore senza condizioni, erezione senza sfogo e senza regole, scandalo e terrore.

E' così che l'amore esclama nella mia gola: io sono il Jésuve, immonda parodia del sole torrido e accecante.
Io desidero essere sgozzato mentre stupro la ragazza a cui avrò potuto dire: tu sei la notte.
Il Sole ama esclusivamente la Notte e indirizza alla terra la sua violenza luminosa, verga ignobile, ma si trova nell'incapacità di raggiungere lo sguardo o la notte benché le distese terrestri notturne si orientino di continuo verso l'immondizia del raggio solare.

L'anello solareè l'ano intatto del suo corpo diciottenne a cui niente di così accecante può essere paragonato ad eccezione del sole, sebbene l'ano sia la notte.

(trad. G. Cerrai - 2017)

Si hanno sempre dei dubbi, traducendo Bataille, come altri. Chi è, oggi, che usa la parola ano, tanto per dirne uno? Certo, con l'uso quotidiano e contemporaneo del linguaggio verrebbe da tradurre culo, o buco del culo, il buco del culo del sole. Ma Bataille non scrive cul, come avrebbe potuto fare. Lo stesso per coitare, accoppiarsi, verga ecc. La scelta, quindi, è conservativa, con buona pace di quelli che amano fornire il paté ai borghesi.

(1) Ho scelto di non tradurre Jésuve. Non è una parola, né un semplice neologismo. E' un concetto, assai sfaccettato, e innanzitutto il titolo di uno scritto di Bataille del 1930, pubblicato postumo. Probabile fusione di je (io) e Vésuve (Vesuvio) secondo alcuni commentatori, o di Jésus e Vésuve secondo altri, tende a sincretizzare e a farsi simbolo di "un soggetto reale, vulcanico, esplosivo, sempre in eccesso in rapporto a sé stesso" (Juliette Feyel), interpretazione che per la verità a me pare riduttiva. Altri (es. Camille Dumoulié) invece rimandano a concetti nietzschiani, che certo il Bataille filosofo rielabora, di soggetti dionisiaci o "furiosi" o "vulcanici" che proprio Bataille o Artaud incarnano. Altri ancora, specie di formazione lacaniana, vedono nel termine una dialettica Eros/Thanatos (èrotos), pianto e riso, crocifissione (dolore) e effusione lavica, orgasmica del godimento erotico e sessuale, anche scatologico. E se tuttavia pensiamo a quanto possa apparire apollinea l'esclamazione di Bataille "IO SONO IL SOLE", mi pare che al centro della sua poetica rimanga una dionisiaca vulcanica eruzione dell'io.


Maria Pia Quintavalla - Vitae

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"Racconti", dice la copertina di questo libro. Sì, certo, racconti, narrazioni, usiamo per uMaria Pia Quintavalla - Vitaena volta questo termine depredato dalla politica, riportandolo alla sua originaria innocenza. Ma anche poesia sempre presente, che affiora in ogni frase, come le risorgive che si incontrano nella pianura padana. E poi Vitae, dice il titolo, con una pluralità che già arricchisce, poiché la narrazione è di una voce solitaria ma che racconta di sé e di altri e altro, di vissuti susseguenti e paralleli. E quindi racconti, sì, ma nei quali la mera componente finzionale è minoritaria, delegata quasi del tutto alla funzione poetica della scrittura, all'estetica e alla retorica di essa (siano entrambi i termini sine iniuria), che Maria Pia padroneggia da par suo, incorniciando perfettamente il fatto. Il quale è sempre, qui e altrove nel suo lavoro, qualcosa di memorabile, nel senso originale del termine, quel che deve essere consegnato ad una forma, un oggetto portatore non tanto di rimpianti quanto di valore. L'opera di Quintavalla è quasi sempre una resa dei conti e una dialettica accesa con il proprio materiale biografico, con le proprie vite, per dirla con parole sue. Questo mi pare avvenga in maniera molto più accentuata che rispetto ad altri scrittori. Ma tutto ciò non è mai autobiografismo, c'è sempre una distanza che Maria Pia frappone tra il dato e la sua meditata elaborazione poetica, basta leggere China o I compianti per averne un'idea (v.QUI ), a proposito dei quali scrivevo che pareva "una lotta feroce, non facile, a tratti eroica, sul fronte almeno doppio dell'affollarsi del materiale poetico e del linguaggio necessario per ridurlo alla ragione, sempre in bilico tra tracimazione e condensazione, tra il bisogno di "narrare" totalmente il fatto o il ricordo di esso, e quello di ridurlo alla sua essenza poetica, decantandolo". Va da sé che questo libro non può avere né la tensione drammatica né la compattezza formale di quelli. Va però letto nel senso che dicevo prima, di affettuoso e partecipato repertorio di persone, luoghi, eventi e esperienze lavorative che hanno avuto un ruolo formativo nell'arte di Maria Pia, che sono in qualche modo lei. Un dipanarsi di storie con la loro verità, anche quando più sembrano essere inventate. Questo avviene ad esempio nei primi brani della prima parte, intitolata appunto Storie, "una romanzata storia che di vero contiene tanto, e autobiografica", scrive la stessa autrice. E' interessante notare che se di vero contengono tanto, ma non tutto,è perché in Quintavalla la poesia non può evitare di esercitare la sua funzione, il suo peso specifico sulla materia prosastica (una cosa tanto più evidente, come vedremo, nell'ultima sezione del libro) e insieme innervare il suo indubbio talento di narratrice. E' per questo che sono - non è paradossale - intrinsecamente veri (e molto belli), sia quando Maria Pia parla dei suoi amori attraverso l'Italia (Nord-Sud) o del suo conquistare e vivere il lavoro (Mi piace lavorare) o del suo essere madre"capofamiglia a sé stessa" (La terribile età) o, ancora, la disillusione di una relazione (Era stato un amico), in terza persona ma che non può che essere la sua.
C'è naturalmente, in questi racconti, una vena malinconica, un come eravamo, soprattutto quando Maria Pia ricorda un periodo irripetibile, una temperie, i suoi incontri con personaggi della cultura e della letteratura, una Milano che non era solo da bere ma anche da respirare, da nutrirsene artisticamente, e terreno di lotta quotidiana per una donna che doveva trovare la sua strada da sola. Un serie di ritratti (è il titolo della seconda parte), tutti molto vividi e belli (Sicari, Campana, Zanzotto, Porta) che restituiscono bene umanità ed atmosfera ed anche il perché di un divenire artistico e intellettuale. E' difficile sottrarsi all'impressione, come lettore, di uno sguardo rivolto all'indietro, di un recupero e restauro di materiali dolorosi da lasciare o no all'oblio. Se è un libro rivolto al passato, e forse un libro che potrebbe apparire episodico, va però ricordato, con Paul Ricoeur, che c'è una responsabilità (tanto più in un autore) su cosa ricordare e cosa dimenticare, perché non si può ricordare tutto. E anzi c'è anche un problema di interiorizzazione, di silenzio, qualcosa cioè che si decide di tacere. E questo oblio selettivo è proprio del raccontare, è peculiare della narrazione. Ma anche, aggiunge, del perdono, cosa che - mi permetto di chiosare - è quanto mai importante quando si fanno i conti, anche per via artistica, con le proprie vitae.
E proprio l'ultima parte del libro, intitolata Da China in prosaè il recupero più significativo, sebbene quantitativamente minoritario. Che è sia recupero di materiali poematici sia un dietro le quinte che torna utile a chiunque abbia apprezzato come me China alla sua uscita nel 2010 per i tipi di Effigie. Si tratta, come spiega Maria Pia stessa di "una sezione da China in prosa, prima che il poeta Franco Loi mi convincesse che era metro e poesia, e a riscriverla in China". Già questo processo transitivo prosa/poesia (e forse di nuovo prosa, con qualche intervento, suppongo) è interessante in sé e seguendolo ci si rende conto di quanto Loi avesse ragione, poiché il peso specifico della poesia a cui alludevo già in queste righe è palese, e non potrebbe essere altrimenti. Ma con questa sezione si torna anche in qualche modo alle origini, si ristabilisce una archeologia e un ordine delle cose in quella copiosa sorgente di ispirazione che è la famiglia, la casa, la madre (China), le radici anche dolorose e complesse che a suo tempo chiamai autobiologia o anche il lessico familiare di Maria Pia.
Nata prima, molto prima dei Compianti, come lei mi scrisse, China, posta proprio in fondo, a sigillo del libro, immagino voglia chiudere - qui - un cerchio, scegliendo, come dicevamo, che cosa responsabilmente consegnare alla memoria o all'oblio. (g. cerrai)

Maria Pia Quintavalla - Vitae - Ed. La Vita Felice, 2017

MI PIACE LAVORARE

Mi piace lavorare, ehm... sì certo che mi piace lavorare, anzi si può dire, io dico, che non ho fatto altro nella vita, sai quando s'intende che hai cominciato a diciott'anni... eh sì, giù di lì, in quell'età della vita in cui gli altri vanno solo a ballare, in giro a divertirsi, pomiciare.

Invece, eccoti qui: con la divisa da maestra. Con trenta bambini piccoli da accudire, istruire, intanto fioccano le riunioni, gli extra, non hai più tempo per vivere per studiare, allora che fai, ecco: abbandoni l'università, anzi fai finta che è inevitabile che lo fai da convinta, e per anni, chi ti ha più visto agli esami?

Poi continui con gli impegni, ti dici, ma mica deve cambiare del tutto la mia vita solo perché lavoro, no.

E prosegui imperterrita: viaggi, hai il tuo amore a Napoli, bene è durato sette anni, hai le riunioni politiche a Milano, magari leggere, riposanti, come in via Dogana, no? Ci vai e basta, non importa se il fiato ti manca, sia perché si fumano ancora le vecchie Pack, sia perché il giorno dopo, anziché riprenderti dal boccheggiare, prendi la cuccetta notturna per Napoli, e via!

Poi, l'università la occhieggi sempre, sai che lì vicino c'è Bologna, con i suoi giri universitari strani, però ci vai, le amicizie tenti di allacciarne, ma solo il sabato e la domenica. Poi pensi che quella domanda di borsa di studio per Parigi, perché non dovresti farla: per laurearti hai dovuto cadere per davvero, ingessarti, sempre vero, avere l'onore dunque delle aspettative per salute, e per potere infilarti dieci mesi a letto, e scrivere scrivere, studiare.

Intanto che lui di là, da Napoli, aspetta che tu lavori sempre, ma pazienza, tu lo sai fare bene: appena puoi torni al lavoro. Poi le cose fra te e lui iniziano a girare sempre peggio, in breve dopo i sette anni vi siete lasciati, allora tu cosa fai?

Riprendi il treno dei compiti e scadenze, te ne dai sempre di nuove, così ti tieni attiva, lontana dai serpenti che sparlano di te, e fai finta di crederle avvincenti, ti ci butti, studi per vincere il concorso direttivo, oramai la china paterna è di seguire - te l'hanno imposto senza tu lo cercassi - le sue orme. E lo fai, ingoiando il mugugno, intanto la leader storica del movimento femminile non ti chiede più perché non vieni a trovarmi, che potrei insegnarti come vincere la borsa di studio a Ginevra.

Però a Milano ci vai, non prima di avere fondato la casa editrice nuova, con la nuova amica e lì pubblichi, anzi fai pubblicare; per primo il fidanzato, così non sbagli a sentirti a pari con la coscienza, che tanto sai che tu conti sempre molto dopo gli altri, poi le scelte più serie, ragionate: pubblicare Rosselli, Vicinelli, eccetera. Ma poi infine te ne vai davvero a Milano, se Dio vuole, perché il concorso l'hai vinto davvero e sei fuori dalle scatole della famiglia, che c'ha messo trent'anni a demonizzarti convincendoti che ne aveva una totalità di ragioni a trovarti una strega, e bruciarti ogni volta ti rivedeva.

Ci vai, lo vinci, trovi casa, vicino alla Ripa Ticinese, in affìtto, anzi affittacamere, da un signore siculo che ti spia in camicia da notte la mattina, quando fai la colazione, prima di andare a fare, per l'ultimo anno, la maestrina, e poi la direttrice, ma lì i tuoi si sono finalmente decisi a farti acquistare la casa, sennò c'era quell'uomo di mezzo.

Allora nella casa nuova, e tua, con un uomo giusto al fianco, con l'analisi a lato, e con le amiche che scrivono, oppure con te sola, eccoti qui finalmente a iniziare la tua storia; di vita di donna, nuova, e tua.

Che insegna, dirige, scrive, organizza ma soprattutto che può anche e finalmente scrivere.

L'autorizzazione a vivere, a essere quella che volevi.

Il lavoro diventano i lavori, tanti, a milioni, ma a te piace moltiplicare le responsabilità, organizzare creare: eventi soprattutto, relazioni, farli parlare con te, ad alta voce, fra di loro, i poeti, gli intellettuali; farsi e farli amare, scontrarsi, pensare, contraddirsi.

Tutto questo ti accende di pensieri nuovi, e ti stanca anche infinitamente. Poi, cominciano a entrare in relazione nella tua vita anche loro, le donne tue somiglianti: eccole là, spuntare come menadi prima del movimento, poi le donne in poesia italiane, come sorelle ginestre, ginecei ambulanti.

Una invenzione pura.

Nessuna meno di una artista desidera confrontare la propria sempre discussa grandezza con le altre, ma tu lo fai, ci credi, te lo imponi, lo fai credere alle altre.

Sai lo sguardo che affida, valorizza la solenne confusione tra questione femminile e lavoro poetico? Bene questo pasticcio sublime ti intrica, appassiona, fa sognare e fa correre la mente in quanto aura, atmosfera, rivendicazione dopo una negritudine, rifonda etica, è scum!

Ti fa nascere parole, idee. Ti insegnerà confini.

Anche se è una tra altre, metafora di altre sintesi viventi, di altri destini che si sono incrociati in quel pugno di anni italiani, mani che si toccano sodali, voglia di rompere amnesie. Sole corrente, contro la corrente.

Poi, furono gli anni dell'onnipotenza a fare da padroni: ideare, organizzare e curare festival nazionali, chi te lo fece fare? Ma perché ti piaceva da morire, era coniugare il sogno al sogno, la tua vita al fare, creare relazioni anche letterarie nuove, o ti illudevi.

A partire da te, da dove ti eri trovata a nascere, da quale fianco della vita.

Però, ti dici, è rischioso: sono tante grandezze sovraesposte, non si rischia di confonderle?

Ma è per eccesso del silenzio che le precede, forse. In un universale vero, fianco a fianco sarebbero stati sempre uomini e donne, artiste con artisti.

Ma storceranno il naso diranno, è ghetto, è offensivo. Pretendono, dipendono, ti reclamano poi si eclissano, preferiscono la cosa tradizionale, dove c'è autorizzazione normativa, realtà istituzionale, ti sono però devote poi oppositive, poi tradiscono; si sentono, loro, di tradire qualcosa che ha a che vedere con l'ordine costituito, il proprio nome e posto riconosciuto, dato. Ma si divertono anche, e te lo dicono scrivono, corrono al pensiero della successiva antologia e invito, se lo prendono e come, quello spazio a lato, quell'antefatto mai goduto. Delle singole e delle estranee, come le chiamava la Woolf.

Le analisi non mancano, anche se non disegnano una mappa critica soddisfacente, ma non la volevi, ne avevi parlato anche con Porta, niente"alternativa" all'universo letterario, semmai alla parte mancante muta, il pathos che sostiene, le idee corali di gruppo; sei sempre tu però a tenerle a mente, non ti fanno lavorare in gruppo anche perché c'è fuga, già paura, diaspora.

E sul lavoro-lavoro?

Perdi la voce, la serenità, ti attaccano dentro e fuori la scuola, sei andata al Costanzo, non dovevi, esibire il tuo status di operatrice donna sola, intellettuale che ama lavorare per la libertà, non renderne conto, (non sei efficiente e non ti aggiorni sul mestiere — che non ti era mai piaciuto - di burocrate, perché non vi eri nata), allora, che fai? Ti dimetti dal ruolo direttivo, nessuno ti aiuta a trovare fughe in posti più rilassanti di comando ad esempio, fuori dalla "medina" permanente. Ti mancano le conoscenze, le raccomandazioni.

Sogni, incauta, di metterti in proprio, sola e calma, a scrivere. Da sola, in casa. Già. Prima che inventino le figure del freelance.

Come in un racconto della Bachmann, dove la donna che rifiuta il codice di prestazione si fa sorprendere semiaddormentata a letto, ma emergendo da continuo sonno si finge in lucido tempismo, di condurre affari "come se" fosse all'esterno, nella realtà, per strada, in ufficio, o sotto la pioggia camminando, telefona al suo uomo, impersona la vita normale.

Non volevi soltanto ribellarti però: dopo aver assaporato il letto accidioso, vuoi davvero tuffarti nel regno dei freelance, nel campo della scrittura creativa per farne un lavoro vero. Dall'anno del prepensionamento, ti butti nella disperata ricerca di inventare, di trovare, allora; e per tre anni si moltiplicano, fioriscono scuole, corsi, seminari dove insegni, dove torni e insegni ancora, poi rilanci: sempre a leggere e scrivere poesia, piuttosto che l'italiano scritto.

Ai futuri laureandi ti lasciano condurre corsi istituzionali.

A volte ti pare sia davvero prestigioso, come fossi una normalmente inserita, e non una fuggitiva, un'irregolare, come sei.

E ti lagni, come di ostracismo generazionale, del fatto che non hai più un posto fisso, non l'hai più voluto, ma lo hai pure snobbato ignorando la legge che, di ogni ambiente, fa una catena di servitù concrete, se appena esci dal suo giro, ne esci. Così col posto fisso, con le relazioni non coltivate prima, anche perché la famiglia, a furia di anatemi, non ti ha insegnato affatto la pazienza, e l'ambizione del perseguire un lavoro voluto, che ti soddisfa, tuo.

Al bando eri, e dal bando tu scappavi, circumnavigavi, al massimo trasgredivi, ti credevi libera.

Ad esempio non ti consentono più, dopo che sei andata in pensione, di curare quelle belle dispense sull'insegnamento della poesia per la scuola dell'obbligo, che per anni ti avevano appassionato, le avevi create tu. Gli ultimi poeti presentati, alla Fabbri, per i più piccoli della scuola, erano stati Vittorio Sereni ed Antonio Porta.

Poi, la parte più bella viene, quando ti inventi mestieri nuovi, meticciati: come conciliare la retorica o gli incipit e topos della prosa occidentale ai futuri copy, come insegnare a ingegneri, anziani, studenti, donne, le peculiarità dello scrivere in poesia e in prosa.

Inventi corsi e te li fai pagare, la domanda pareggia l'offerta.

Circolano idee, sono gli anni Ottanta e Novanta, iniziali.

A volte pullulano le offerte di lavoro, a volte inesistono.

Per mesi non riesci a tirare il fiato, le ore del giorno e delle settimane non ti bastano a respirare, oppure il contrario, vivi in accidia e paranoia, perché nessuno più ti chiama.

Hai soltanto brevi scorci notturni o ritagli sui metro, per scrivere, però. La vita irregolare la danneggia, la incalza con disgrazie, occasioni, raptus. Di nascosto, di fretta sotto dettatura, nascondi lo scritto fra quarte di copertina e biglietti di metro; la mattina lo ritrovi tra le pagine di libri e quaderni: le parole, che saltellano come raganelle e non sai come imbrigliarle.

Le fai aspettare. Tasti gli estremi. Ti fermi, pensi di oggettivare.

Oppure pensi che ti eleggeranno amica, in benevolenza a quel vento nuovo, se ti arriva quel vento nuovo, oggi ne era entrato dalla finestra una brezza, hai provato a fermarlo con le mani.

Si è posato, come un passerotto invernale. Ti diceva coseleggere e care.

Come ti avrebbe avvertita, sai stare alla perfezione così, ore ed ore, ne sei condotta dal cerchio di parole. Poi, a sera, altre persone entrano, e sbattono le porte, portano parole cattive e cattivi pensieri, le tensioni il cerchio inutile e malvagio del litigio, maledicente cronico.

I bambini invece hanno un buon odore. E si ricaricano con un nulla. Ti baciano e ti stringono le mani. Ti ispirano la vita, la motivano dal nulla.

Oggi, una mattina come le altre. Mi alzo e prendo il solito caffè, stavolta al ginseng.

Sara è già a scuola, ci è andata col suo papi. Ha dieci anni, quasi, fa la quarta ancora.

In pigiama resterò a lungo perché nessuno, pochi, mi telefonano per nuovi lavori.

Eccoti nella Milano del precariato e dei non luoghi a rimuginare inutili sogni; se in Emilia tu staresti meglio, è chiaro che ci stai assai meglio, ma per vivere soltanto, cioè aspirare luoghi chiese bellezza e natura viva, e curve collinari che non vedi perché nessuno ti accompagna, ma allora ne scrivi, ti fa ricordare, respirare, passeggiare, nel mondo case come radici sostenere, tua madre intanto è morta, però, sette anni prima, e tua figlia era ancora treenne. Ma era da una vita che la ricostruivi, ora ce l'hai dentro in pace, ti ci è entrata, e riposa.

E il padre l'osso ottuso ancora, che rimane a testimone del divieto a essere amata, a essere accettata in santa pace. (Mai avuto!), forse non ti puoi illudere che con tutto farai pace, anche se ne avresti un gran bisogno, se ne avresti!

Ma a metà mattina ecco i planning del giorno prima, del mese prima, inevasi. E le telefonate e l'invio stampa, perché l'hai scordato, perché lo rimandi, cosa fanno quei libri buttati da (anni, mesi?) sotto al letto, solo perché non vuoi (puoi?) rispondere, e quei testi ammassati, pronti sì, lo dici tu, né editing né revisione, fuffa di polvere di cacca di gatto che piagnucola in cucina, ma al telefono ci vai pimpante, suadente, la cadenza si fa fresca emiliana, o lombarda, ma sorridi o annuisci, speri, chiedi e non trovi o cerchi, aspetti ascolti, taci e rimbomba, c'è un tale traffico lì sotto, perché la lamentela cresce allarmante, non ce la fai più a dormire, a sedare, a staccare neanche all'alba, neppure con le colazioni con latte e biscottini e sedativi: all'inizio dici be', solo dieci gocce, ma dopo un'ora non le sai più, hai bisogno di spegnere gli interruttori e il rumore là fuori sbatte, motorette e ragazzini con gli orari happy hour ormai perenni da precari della fame, ma tutti trendy, tutti per bene e noiosissimi, eleganti che se la tirano, solo perché lavorano o ci aspirano, ne parlano, ma era così Milano un tempo quando ci arrivasti, no, che non lo era: brutalizzata la legge economica che impera e detta una sola legge: «Mangia o muori, venditi e bene, sei, siete un esercito di giovani variegati schiavi di questo mondo, mondo che è solo del lavoro» come il giovane Carletto Marx aveva raccontato, mondo di merci balordamente sì, qua sotto casa mia, solo anoressiche top modelle e top manager ingurgitano gli happy hour del mezzodì, di notte l'happy hour è serale, ma sarà la stessa sbobba di spaghetti scotti e polpettine di cane, mah, chi sa com'è fatta la gente di oggi. Siamo mutati, eccome, eccoti lì alla finestra a riconciliarti il sonno, perché non se ne cura lui, ma neanche tu ti curi anzi, col vizio di curare tutti eccoti qui a rammendo, a freelance, a tedium vitae, a scartabellare appuntamenti, ma quelli medici e di analisti prevalgono ancora troppo, è di lavoro vero che vorresti vivere.

Quello retribuito, come piaceva al nostro mix errabondo popolo erratico ed ebreo, non è così, ogni giorno lavorare allontana la morte, il tedio e i cattivi pensieri, ora basta.

Aspetta di riordinare meglio gli armadi, le librerie, che tanto non lo farai. Da sola, hai detto, non ce la fai.


Ma sola sei — sempre, anzi più che mai quando ritornano a casa i familiari, allora gridano o corrono, pretendono e tu sei tra il nervoso e inebetito, vorresti anche tu l'attenzione, ma la voce che esce è stridula, poco credibile; ridono vedendoti col maglione a rovescio e l'aria inochita, ma forse ti stanno chiedendo se hai preso quelle brutte pillole per dormire. La casa, la figlia, i mestieri, il telefono, la scrittura parcheggiata lì sotto, fra la fuffa, arrivare come l'armata a cavallo, fare capolino, tu sorridi, tieni i due cordless in mano.

Alla sera stai zitta però, hai la testa vuota, un ronzio al cervello, ti appresti a fuggire di nuovo, nasconderti, non ti trovano così, nessuno mai.

Solo a notte ti premi sotto al cuore dove pulsa, dove non tace, dove brilla. Ma è stanchezza o è euforia, è angoscia che cosa è che ti fa sentire l'operaia della casa miniera dove custodisci, nascondi, menti, tradisci, taci, ti torci le dita perché in nessun posto vorresti essere tranne lì, non ci vorresti ma potresti, le tue idee si accavallano, confondono e chiudono, ti mancano.

Scappare, lo so. Le donne che non mettevano la testa nel forno volavano dentro ai fiumi all'alba, o si lasciavano appendere come palloncini dopo avere scritto gli ultimi versi col carbone, come sogni. E là, da quei balconi, dove appesi calavano i vivi, le loro parole come da palcoscenico, come dal suo teatro, ecco la soccorritrice notte, avvistarsi silenziosa, psst, psst, a zampette di gatto, passerotti passetti passeggiare dentro al cranio leggeri e innocui, leggeri e innocui, "i sogni, i sempreverdi".

All'indomani del Venerdì di Passione prese il coraggio, si cambiò, uscì, comprò un tailleurino nuovo, inforcò gli occhiali, si decise: doveva lavorare. Seriamente e fisso, così la figlia, i problemi forse per un po' si fermano. Allora, il planning, cercalo, poi riciclarsi, progettarsi, collocare.

Mi piace lavorare? Sì mi piace, mi piace.


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