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La poesia di Pasquale D’Alessio, nota di Rita Pacilio

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La poesia di Pasqualpasquale d'alessioe D’Alessio, finestra sul mondo

Settembre (Raffaelli Editore, 2009)

Occhi scritti (Raffaelli Editore, 2011)

Odore d’Italia (Raffaelli Editore, 2011)

La poesia di Pasquale D’Alessio transita attraverso dimensioni naturali e sociali. La sostanza delle visioni, che si susseguono in maniera teatrale, reinventano, volontariamente, l’anima letteraria. Per questo motivo alcune poesie si sdoppiano dal reale alienante … Ci calano nell’acqua/Mastichiamo rugiada/ S’inciampa. Legno rotto/ Chiodi. Piedi. Occhi stesi/ Chiusi. Massa umana/ Ci distingue il sole/ Ci asciuga … Bambini. Donne. Uomini/. È da tenere in forte considerazione il gioco teatrale dei sensi poetici: le matrici sono multiformi e relative a un riscatto emozionale dalla sofferenza Giorni di dolore/ Spavento/ Questo vento/ Ti porta via la carne/. Emergono tematiche che vengono direttamente dal mare e dai paesaggi/accadimenti mediterranei fortemente interiorizzati … asciuga la schiuma del mare... Sulla spiaggia la notte… L’autore si lascia toccare da tensioni sociali in cui il significante rende dignità alla storia dell’umanità … Da dover fuggire/Non arriveremo/Né ritorneremo/La disperazione sbatte/ Rompe muscoli contro le onde/... Sembra che alcuni passaggi siano corretti dalla ragione che esercita la forza dominante per reggere storie umane, sentimentali in frantumi. Quindi, la poesia diventa l’antidoto per architettare sublimazioni e analogie, cioè una combinazione, non solo sintattica, ma filosofica per comprendere meglio gli infiniti mondi paralleli e per costruire il senso del tempo … Ho chiesto al mare/ Di ciò che passa/ Ho guardato le onde/ E’ di come passa. E’/ Il senso del tempo/. I destini, velati di nostalgia, conducono a un’indagine della realtà che si compie in maniera inesorabile: bisogna rivelare il vero, I nastri erano molti di più/ … Bugie e falsità … Bagagli manomessi … rovesciare scelte giuridiche, inchieste giornalistiche La mia macchina fotografica/ Cosa/ Poteva esserci dentro da spaventare tanto utilizzando i versi come scarto tra il passato e il presente, tra il dolore e la trasparenza. Tenere unite le coscienze sociali è di primaria importanza: la poesia come risposta necessaria al senso di scontatezza, di precarietà. Come corda tesa per stare in equilibrio. (rita pacilio)



Settembre

Come l’amore ritrovato

Quando torna il silenzio

Così le cabine

Sorridono al mare

A settembre

Quando i pali delle tende

Vanno via dalla spiaggia

Si lasciano lavare

Conoscono il rito

Le cabine adesso indossano

Porte invernali

Legno secco e lamiere

Ritrovano il mare

L’amore di una vita

D’estate intravisto

Tra sdraio lettini giochi di carte

Sul finire di settembre

Si ritrovano distanti una spiaggia

La cabina e il mare

Lui, le offrirà il suo carattere

Giorni agitati dove si alzerà

Per vederla. Le urlerà

Dell’Africa che inghiotte

Sarà silenzioso

Lei, che si può passare la vita

Ad ascoltarlo

Nel frattempo le palme

Come le donne

Quando son stanche che

Tirano su i capelli

Così raccolgono la chioma

***

Ho chiesto al mare

Di ciò che passa

Ho guardato le onde

E’ di come passa. E’

Il senso del tempo

***

Quando poi che il vento

E’ gagliardo

I granelli dell’arenaria

S’avviano all’avventura

S’affollano ali angoli

Tra le lastre di cemento

E galleggianti dei mosconi

Come il quarto di luna

Quando poi che piove

E piove molto

Ci sono pozzanghere

Nei campi di bocce

Sono colli che si allungano

A raddrizzare traiettorie

Brevi corse a schiena bassa

Inseguire la boccia

Braccio teso e della mano

Che raccomandano alla stessa

La traiettoria

Chi insegue ricurvo

Il bacio con il boccino

E l’altro come funambolo

Accarezzano la sfera

Leggermente protesi

La seguono con una spalla

Quando sta per cadere la boccia si avvitano

Toc ! boccia e boccia

Tac ! il corpo si blocca

Si segnano punti

Muovono lancette

L’estate schiocca

Passa

***

Oltre

A passarlo il tempo

Lo sento posarsi

Sulle cose al mare

Autunno

Così

Vado e mi poso

***

Giorni di dolore

Spavento

Questo vento

Ti porta via la carne


Occhi Scritti

Orazione Civile sulla Morte di

Ilaria Alpi Miran Hrovatin

Uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994

Sono stati due i proiettili

Miran, c’erano pochi soldi per l’Africa

Mira, pochi per venire a morire a Mogadiscio

C’era l’Africa polvere cocente

Miran, a me hanno portato via le mani le parola

A te gli occhi le immagini

Non si sono accontentati della sola vita, la nostra

Della sola vita. Sembrava poco

un Lavoro se fatto, va ben fatto

Hanno preteso voluto

Hanno mentito

Mentito rubato

Possibile?

Si! Possibile. Voluto

Perfetto? Si! Studiato. Ragionato

Ordinato!

C’erano pochi soldi per andare a Morire a Mogadiscio

Quanto valiamo ?

Quanto costiamo ?

A Kg ? A pezzi ? A quarto ?

Tutti interi ?

Quanto ?

***

Lascio senza volerlo

Non sapendo dell’addio

Le ultime parole

Lacio parole scritte

pèer me dignitose

Per me vere

Per me coscienza

Di solo ragionare. Di sola intuizione

Non lascio sangue asciutto

Sui fogli

Non lascio sangue asciutto sul mio lavoro

Le mie parole

Nascoste. Uccise

Block notes per il mio lavoro

Appunti, domande, pensieri

I miei rubati

***

Come poter raccontare della mia penna

Che fa scivolare pensieri

I miei ragionamenti africani

In piena luce a cercar di far luce

E’ il mio mestiere

***

Lascio parole scritte

Viste. Osservate

Per me coscienza

Per me dignitose

Seguite. In-seguite

Varcate

Nascoste

Uccise

Block notes per il mio lavoro

Appunti domande pensieri

I miei, rubati

***

Avevo semi di rose nel cervello

Avevo semi di consonanti e vocali

Cucivo parola

Merletti da raccontare

Un sole

Accecante

Bruciante

Abbagliante

Africano

Mi raccolse

Avevo occhi scritti

***

Odore d’Italia

Il capo della barca è razza

Ha per timone dieci coltelli

Controlla i nostri denti

Più delle onde. Delle stelle

Protegge la sua acqua dolce

Gli scafisti sono razza

Puntano la morte in faccia

Per un lamento. Un grido

Una ferita. Spingono

Da una parte all’altra del legno

L’onda ci spinge dall’altra parte

Non il destino ci butta in mare

Duro di sale e sole

Tenero

Conosce l’odore dei morti

***

Scivoliamo stanchi nel mare

Umidi bagnati di luna

Secchi dal sole. Alle spalle

L’angoscia del motore

Un affanno

Secchi dal sole figli

Pochi mesi per

Dover fuggire

Non arriveremo

Nè ritorneremo

La disperazione sbatte

Rompe la carne contro le onde

L’onda rompe il legno

Il sale esplode fra i denti

Non arriveremo

Non ritorneremo

***

Odore d’Africa

Una

Fortuna abbiamo

Non scaviamo fosse

Non c’è terra sotto i piedi

da fare fosse

Entriamo nel mare

Peso. Ferro.Piombo

Carne freddo buia scura

Ci calano nell’acqua

Mastichiamo rugiada

Si inciampa. Legno rotto

Chiodi ai piedi. Occhi stesi

Chiusi. Massa umana

Ci distingue il sole

Ci asciuga

Noi per uno

Abbaglia la sete

Porta umidità sulle mani la luna

Le succhiamo

Massa umana

Ci distingue il sole

Bambini. Donne. Uomini

***

Da

Un mistero mamma

Alle tue viscere

Alle viscere del mare

A quelle dei pesci

Nutrimento

Prelibatezze

Di mare

Sono

***

Non era plastica

Ferro. O legno

Non era un tiro a segno

Era carne. Era nervi, sangue

Un vaso di parole. Pelle nera

Pelle e carne da latte

Era figlio

Il mio

Da parte a parte te lo sei preso

Un buco in fronte

Foro al cuore

Squarciato come la terra dal vulcano

Ghiacciato dal non tempo del sangue

Non era plastica. Ferro. O legno

Non era un tiro a segno

Era il figlio. Il mio

Teneva dentro l’idea di essere giovane

Teneva ai piedi l’idea del cuore

Per andare

Era un figlio

Il mio. Il tuo

Era figlio. Era figlia


Pasquale D'Alessio, nato 1955 a Somma Vesuviana - Na, vive a Riccione. È diplomato in MusicArterapia; è fra i soci fondatori dell'Associazione Ilaria Alpi di cui per anni ha svolto il ruolo di presidente e fra i fondatori del Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi; autore e regista di opere per il teatro, per Raffaelli editore , Rimini ha pubblicato sei libri di poesie




Sebastiao Salgado a Forlì: "Genesi", fotografia e scrittura per immagini - Nota di Elisa Castagnoli

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sebastiao salgado"Genesi" di Sebastiano Salgado: fotografia e scrittura per immagini ( ai Musei S. Domenico, Forlì)

"Genesi" per Salgado è viaggio alla ricerca del mondo delle origini, la natura tale che ha preso forma e si è manifestata per secoli prima che l’organizzazione delle società moderne iniziasse ad allontanarci, e renderci estranei ad essa, inconsapevoli della nostra originaria provenienza. Le immagini di “Genesi” esposte attualmente ai musei S. Domenico di Forlì scattate da Salgado dal 2003 al 2011 nel corso di 25 viaggi e riproposte presso le più importanti istituzioni d’arte del mondo da Parigi, a New York, da Milano a Buenos Aires raccontano perlopiù di paesaggi terrestri e marini, sconfinano in regioni remote della terra dove la natura domina limpida, incontaminata nel silenzio della sua magnificenza; attraversano le foreste pluviali e tropicali dell’Amazzonia, la vastità delle savane o i deserti roventi d’Africa, le distese di ghiaccio nel grande nord delle zone antartiche più rigide della terra oppure le isole solitarie del Pacifico. Regioni troppo fredde o troppo aride perché la vita umana possa insediarsi se non in contingenze estreme o attraverso le sue forme più resistenti: specie rare di animali, piante e tribù indigene di popolazioni insediatesi lì da secoli a stretto contatto e in perfetta sintonia con le leggi prime della natura. Come scrive Salgado: “nel corso di otto anni in cui ho viaggiato attraverso il mondo per questo progetto ho imparato a lavorare con altre specie che quella umana …non come fossi un etnologo o un giornalista ma per scoprire, mettere in luce, esplorare o dare voce, visibilità e bellezza al pianeta. Il paesaggio è vivo, immanente all’umano, come i minerali, i vegetali, gli animali, il pianeta è intrinsecamente connesso in tutte i suoi elementi, vivente a tutti i livelli. Ho capito quanto rispetto gli dobbiamo, un rispetto immenso”.

In questo senso la fotografia per Salgado diviene nelle sue parole “ una lettera d’amore scritta al cosmo , verso una natura in cui gli umani devono sentirsi parte integrante ”,e, dunque, nel corso degli anni un grido di allarme, un monito sempre più chiaro perché il pianeta non divenga oggetto di distruzione incondizionata da parte dell’uomo, esposto ai profondi disequilibri del suo eco-sistema generati ogni volta che si perde quella connessione profonda al mondo naturale perché si impone una logica di sfruttamento, di profitto incondizionato, di uso e abuso senza limiti della straordinaria ricchezza di risorse che esso ci offre.

Salgado decide nel corso di un viaggio durato una vita di percorrere il mondo a piedi, a bordo di piccoli aerei, di barche, di canoe e persino d’una mongolfiera per fotografare “ l’immensa bellezza del continente”, i suoi santuari naturali, le sue isole.


In primo luogo si tratta di “incontrare il pianeta, “addentrandosi nelle zone più remote della terra o verso le sue estremità meno raggiungibili; contemplare il mondo dalle cime più alte agli abissi più profondi- minerali, vegetali e degli esseri animati-, vedere come gli uomini erano all’inizio della storia e come in essi si manifesti ancora, secondo Salgado, la parte più istintiva e viscerale dell’umano, quella che ci ricollega direttamente alla vita, alla sopravvivenza e alle leggi di natura negate portando all’eccesso l’individualità puramente razionale, logocentrica e dominante dell’ego.

“Ho visto ciò che eravamo prima di lanciarci nella violenza della città dove il nostro diritto allo spazio, all’aria, al cielo e alla natura si è perso tra i muri delle case. Abbiamo eretto barriere che ci separano gli uni dagli altri, dal mondo naturale. Di colpo non siamo più in grado di vedere di sentire..di osservare. “Genesi” mi ha fatto prendere coscienza che a forza di allontanarci dalla natura per via dell’urbanizzazione siamo diventati animali molto complicati e che, diventando estranei al pianeta, diventiamo estranei a noi stessi”. Il progetto “Genesi” si inscrive come un messaggio chiaro inviato all’umanità, una sorta di imperativo, grido o certezza inequivocabile che tornare all’essenziale, al cosmo e al rispetto e delle sue leggi, della sua implicita e perfetta armonia sia il solo modo di garantire all’uomo la libertà, allo stesso tempo il rispetto dell’essere umano sulla terra contro il processo inverso di disintegrazione in atto prodotto da forze che implicitamente avversano i cicli naturali dell’esistenza.

Ancora le parole di Salgado mirano a dare un senso ultimo e unitario, una visione poetica umanitaria e politica insieme a un progetto estesosi negli anni e sconfinato attraverso i quattro continenti ai poli più estremi del pianeta: “Genesi mi ha insegnato che tutto è legato e tutto vive senza farmi dimenticare degli umani, perché anche loro sono parte di questa natura meravigliosa”.

I. Il Pianeta Sud, l’antartico e le sue isole

Iceberg nel mare di Weddell tra l’isola di Paulet e le Shetland, (Antartide 2005)

Sono fluttuanti forme di ghiaccio in movimento, danzanti su una immensa bianchezza d’eternità, poi la corrosione divorante delle medesime come se una schiuma o mousse soffice e spumosa fosse stata scavata e ritagliata dagli agenti atmosferici o dalle forze naturali in azione. Un bianco cielo di ghiaccio si riflette a specchio sulla superficie brillante e quasi immobile dell’oceano, nero petroleum nell’effetto del chiaro-oscuro estremo voluto dall’immagine in bianco e nero . Contemplare l’idea di perfezione attraverso la natura, opera e strumento nelle mani della divinità, fonte di ispirazione o di trasmutazione estetica per l’artista. Contemplare semplicemente le forze di creazione in atto in un estremo incontaminata dell’universo, la penisola antartica.


Dove esattamente finisce la terra, inizia l’acqua? Le leggi della natura vi agiscono innate, in maniera a noi quasi inconsapevole . Grandi blocchi antartici si staccano dai massi originari e fluttuano attraverso i mari del sud al largo delle Shetland australi. Dall’oceano emerge una grandiosa montagna di ghiaccio intagliata, internamente scavata e svuotata, corrosa dagli agenti del tempo o della materia: arco, rilievo, apice di iceberg ghiacciato sorge, elevandosi in un turbinio di flutti, onde e rollii di correnti nordiche. Dove esattamente è il confine, dove finisce la terra e inizia l’acqua, dove l’oceano si perde a vista allo sguardo, domina e regna incondizionato, dove inizia quel luogo originario, della terra alle origini nel mentre della creazione, Genesi descritta nell’Antico testamento o grande diluvio biblico mandato come punizione divina su tutta l’umanità? Il vento passa attraverso le onde disegnando fluttuazioni, orbite cosmiche, sorprendenti circoli d’energia d’impronta divina sull’acqua.

La forma è là granitica, immota come una soglia che sorge attraverso l’oceano, un antro, un luogo di passaggio verso un altrove, quasi fosse il limite ultimo d’una dimora o castello di ghiaccio all'estremo della terra mentre immoti circoli d’energia si perpetuano in forma ciclica sulla superficie dell’acqua.

Antartico II

La terra è là granulare, granitica, squamosa come la pelle di una serpe, come quando sassi e limo restano pesantemente depositati al suolo, violentemente portati a riva dalle correnti marine sulla banchina sottile che separa l’acqua dalla sabbia. La creatura marina, un elefante d’acqua dei mari antartici, ugualmente appare distesa a riva come fosse essa stessa un’epidermide rugosa in continuità con l’altra, a squame grigiastre incise sul suolo. Poi la sabbia invade lo spazio dell’immagine ovvero un amalgama di sassi e limo e l’acqua, elemento primario, avanza e irrompe: l’oceano-mare ovunque intorno. La forma immensa dell’animale sul suolo granulare e sgretolante si staglia in rilievo con un volto dai tratti quasi umani simile a una creatura preistorica, un fossile o un anfibio d’acqua magnificamente adagiato sulla terra mentre una marea invadente avanza fino a noi per guazzi, ondate e sciabordii di moti ondosi. Un equilibrio perfetto e sottile, in sé stesso indisturbato vige in quello scenario naturale dove tutti gli elementi si corrispondono di uno stato di purezza, di innocenza primigenia ritrovata al momento della fotografia. Là, lo sguardo del fotografo pare fondersi con quello del paesaggio e la costruzione dell’immagine riemerge, nitida di fronte agli occhi mentre tutti gli elementi si rispondono, magicamente si ricompongono in un equilibrio perfetto: le linee, le forme, il vento, gli esseri, lo sfondo e la luce che gioca attraverso, incidendo le sue trame in riflessi e ombre su quello.


II. Santuari

Sulle isole Galapagos o in Madagascar queste fotografie raccontano di una vegetazione endemica, originaria dei luoghi minacciata dagli insediamenti urbani invasivi: specie di animali e piante rare come le orchidee o i lemuri, di dune naturali di sabbia scavate dal mare e letti di fiumi prosciugati, di immense tartarughe d’acqua o correnti di lava in eruzione attraverso i vulcani attivi. Superfici calcaree e taglienti come vetro in frantumi appaiono ricoperte da conchiglie e stalagmiti di accumuli minerali, foreste pluviali e colonne di fumo si stagliano verso l’alto attraverso l’aria disegnandosi in linee grigiastre all’orizzonte dagli insediamenti degli indigeni autoctoni.

Iguana Marina, Galapagos (2004)

Fotografata un primissimo piano nel corso di un reportage alle Galapagos Salgado racconta a proposito dell’iguana al momento dello scatto: “ guardando una delle sue zampe anteriori improvvisamente ho visto la mano d’un guerriero del medioevo. Le sue squame mi hanno fatto pensare a una giubba di maglia di ferro sotto la quale ho visto dita simili alle mie". La zampa espansa e enorme dell’animale in primo piano ci fa pensare a una mano del tutto umana, istrionica, ricoperta di alluminio quasi o di acciaio rigido e grigio come indossasse appunto un guanto o una maglia metallica per proteggersi dai predatori o dagli agenti atmosferici esterni. Artigliata fende la terra, al fondo della medesima affonda l’unghia nel vivo della carne o del suolo. Artigliata appare simile, tuttavia, a una mano umana vista come un scintillante magnete di metallo in una postura d’allerta o di vigile posizionamento. E’ insieme la corazza dell’animale che ci portiamo addosso e la parte istintiva e viscerale presente al più vivo dell’umano.

Come sottolinea il fotografo: “con Genesi ho voluto raccontare la dignità e la bellezza della vita nelle sue diverse forme e mostrare come abbiamo tutti la stessa origine.” Il termine non assume infatti per lui una connotazione prettamente religiosa ma indica “ quell’ armonia delle origini che ha permesso la diversificazione della specie. Ovvero, il prodigio di cui facciamo tutti parte”.


Ritratti di indigeni

Un volto-maschera appare scavato dal tempo e dalla ardue condizioni di vita nella foresta amazzonica per questo primo piano scattato tra le popolazioni indigene con cui Salgado entra in contatto nel corso di uno dei sui innumerevoli viaggi nelle isole indonesiane della Nuova Guinea.

Volto sciamanico, sguardo scintillante di ardore, di vita contro la secchezza scavata dei suoi tratti, incisi sulla pelle come sull’aridità d’un suolo prosciugato di vita, dissecato da una calura intensa o da una siccità esperita nel tempo al massimo grado. Pigmenti di colore bianco simile a una vernice naturale ne coprono il viso ad eccezione degli occhi, intensamente scintillanti e diamantati sul fondale opaco. L’uomo fissa il proprio sguardo dritto di fronte all’obbiettivo in primissimo piano, vigile, attento, forse incuriosito dalla macchina, con questa sua intelligenza manifesta del corpo in ascolto e in affinità intima con ogni minima vibrazione o movimento che gli accade intorno, lui detentore inconsapevole di tale conoscenza sottile delle leggi e dei segreti del mondo naturale che lo circonda.


Nella fotografia successiva due indigeni della Nuova Guinea sono sorpresi o ripresi dalla macchina durante una cerimonia rituale di danze e canti ancestrali denominata “sing-sing” apparendo come dei veri e propri performer avant- lettera intenti a suonare i loro flauti rudimentali modellati nel legno della foresta. Cappelli piumati, volti ricoperti di maschere di bianca vernice, moltitudine di colori cui allude la fotografia, i corpi appaiono decorati dai loro propri oggetti e collane rituali scintillanti in metallo pesante, i capelli acconciati in una sorta di parrucca naturale decorata di piume, lo sguardo centrato all'obbiettivo in una presenza scenica ineluttabile; loro, essenzialmente intenti a intonare o accordare gli strumenti nel corso della cerimonia . Ornamento, essenza e presenza totale della loro aurea luminosa confluiscono insieme in un’immagine in sé stessa perfetta, compiuta senza necessitare d’ altro commento o traduzione.

“Baia di Moramba” in Madagascar (2010)

Isola vulcanica sospesa come una grande nuvola artificiale, un’eruzione dal mare o dal sottosuolo, una visione, un sogno, un’immagine, irreale fluttuante a tratti nella memoria si materializza, si rende manifesta, riappare lì d’un tratto come in un sogno ad occhi aperti. Grandi, immensi alberi secolari ricoprono il suolo dell’isola, uno in particolare al centro con le sue radici profonde che si gettano e diramano dentro la terra fino a raggiungere le profondità del sottosuolo per ritornare all’oceano e ricongiungersi alla liquidità prima dell’origine. Le chiome ramificano verso l’alto in una radiazione luminosa e clorofilliana di presenza, della loro primaria verde-smeraldo natura.

Una zolla di terra resta fluttuante e sospesa in mezzo all’oceano, al largo della Baia di Moramba; sorge quasi come un Eden terrestre, una piccolo pezzetto di suolo o isola proliferante di vita in mezzo alla vastità calma e piatta dell’oceano al largo del Mozambico.Come una nuvola di vita si innalza e prende corpo - sgretolante di secolari radici e ricoperta di una verde proliferazione di piante - come un’impronta a sé, l’ultimo baluardo di salvezza tra la vastità immobile dell’acqua e l’involucro pesante e grigio del cielo, incendiario, carico sopra la terra di tempesta.


III. Africa

Documenta un’Africa eterna abitata da tribù ancestrali e vista attraverso paesaggi maestosi e una natura selvaggia. Viaggia attraverso il deserto del Sahara nei tredici stati che attraversa considerato porta d’accesso all’Africa. Dai suoi primi viaggi in Ruanda, Burundi, Zaire e Kenya Salgado ritrova in Africa quella vastità selvaggia che egli considera “ l’altra metà del suo continente”: la stessa vegetazione, gli stessi minerali, le stesse origini per quegli schiavi che dalle coste africane venivano condotti dai portoghesi in America latina, infine una simile maniera di vivere, parlare, alimentarsi e mettersi in relazione nella comunità. E’ lì, nel corso di trent’anni di viaggi e innumerevoli progetti fotografici che Salgado si trova faccia a faccia con paesaggi di una ineguagliabile bellezza da lasciarlo senza respiro ma anche di fronte ad estremi di emergenze umanitarie internazionali documentate dai reportage come la siccità in Sudan, gli esodi di massa dei profughi dal Mali, il Ciad o l’Etiopia, infine le atrocità perpetuate in paesi come il Ruanda nel corso della guerra civile. E’ lì in questo continente stigmatizzato e insieme sconfinato che Salgado scopre la sua voglia di mettersi in gioco, la sua passione assoluta e ineguagliabile per la fotografia fino a farla diventare la professione di tutta una vita. I numerosi viaggi portano coerenza al suo lavoro,divengono a poco a poco strumento per vedere, comprendere, seguire i cambiamenti di uno stato di luoghi nel tempo e nello spazio e mostrarli attraverso le sue immagini, infine un modo di convertire il piacere dell’istante in progetti umanitari di lunga durata. La sua fotografia si esplica nello specifico come una forma di scrittura appassionante attraverso la luce ma, anche, nelle sue parole come "un linguaggio molto potente, universale come solo può esserlo quello dell’immagine perchè non necessita d’altra traduzione e si situa innegabilmente nell’attualità del presente".

Zambia

D’ inverno nello Zambia le notti sono fredde, all’alba l’acqua dei laghi ancora tiepida per il sole della giornata precedente evapora e condensa in affascinanti banchi di nebbia che lievi versano sopra il paesaggio avvolgendolo completamente della loro tenue effusione sullo sfondo desertico e spoglio della savana. Una vastità immensa, un mare liquido di foschia, traslucido e riflettente simile a uno stagno di riflessi argentei ne emerge. Sole poche chiome in alto restano ancora visibili, forse il profilo di altorilievi o arbusti appena riconoscibili a distanza, mentre tutta la visione in primo piano appare completamente sommersa e avviluppata da questo deserto apparente d’acqua, di fumo o di lava argentea liquida allo sguardo. Una sola strada sottile è tracciata là al centro in un zigzagare di bianco che procede verso l’orizzonte e lo incide, lo taglia, lo appropria in mezzo a quel manto lucido e scintillante d’acqua e melma apparente.


Ancora dall’ Africa del sud, vicino al deserto del Kalahari sono i ritratti di volti ripresi in mezzo alle tribù ancestrali dei Boscimani che vivono sul territorio.

Nella loro più importante danza rituale in Namibia le donne cantano e battono le mani in circolo mentre gli uomini danzano in un cerchio più ampio intorno a loro su uno spiazzo circolare al centro del villaggio; il ritmo frenetico della musica che si instaura sullo sfondo degli arbusti e dei cespugli nella savana accompagna lo sciamano attraverso il suo viaggio rituale verso l’aldilà. L’immagine coglie il senso di una danza sacra che riconnette il singolo alla comunità, e disegna un scenario simbolico, di passaggio attraverso il quale il mondo materiale entra in contatto con quello spirituale o l’uomo si riconnette alle forze sottili della natura che muovono il cosmo.

Ritratto di una donna dalla tribù Himba (Angola)

Si dice che le donne restavano sole nel villaggio, assumendo tutto il potere su di esse quando gli uomini partivano per lunghe trasumananze alla ricerca di acqua e nuovi pascoli con tutto il loro bestiame.

Questa donna appare seduta sulla terra in posa meditativa, scorta di profilo obliquamente alla macchina eppure a distanza ravvicinata d’essa, forse intenta a una sorta di preghiera o invocazione silenziosa ad occhi chiusi per il ritorno degli uomini. Salgado la sorprende in tale sguardo estatico, nel silenzio della sua postura, nella solitudine essenziale della sua figura volta verso l’interno, ripiegata su sé stessa in atteggiamento di silenziosa contemplazione o, semplicemente di attesa, nella sospensione del momento presente. Ne emerge la dignità solitaria e l’intrinseca bellezza di un ritratto quasi regale sottratto al fluire consueto del tempo nel villaggio. I capelli sono intrecciati e accuratamente acconciati con ciocche in rilievo secondo lo stile locale, bracciali argentei scintillano maestosamente ai suoi polsi mentre il corpo resta per metà scoperto, denudato secondo l’usanza indigena.


Genesis, the origin of creation


Una mandria di bufali è vista dall’alto, riunirsi in un grande branco al centro di una terrapieno nel parco nazionale dello Zambia. La foto scattata silenziosamente a distanza da una mongolfiera per non interferire con i movimenti degli animali appare immersa in un effetto pittorico, quasi astratto. Vediamo questo piano infinito attraversato da onde e fluttuazioni di branchi, pensiamo a spostamenti di animali in massa a distanza, a orme di passi viste dall’alto, all'immagine d’uno sciame, d’uno scorrimento di acque, d’un fiume in espansione e straripamento verso un immaginario orizzonte oceanico al fondo della foto, quasi una grande superficie mossa e movente tinteggiata nelle tonalità argentee del grigio, del bianco e del nero fino all’orizzonte. Al di sopra un cielo carico, trafitto da una luce irradiante per punti di intensità attraversa le nubi al tramonto. E’ a partire da quella luce d’origine quasi divina, scendendo dall’alto come una rivelazione o un’apertura dall’infinito verso la terra più in basso che Salgado crea la potenza dell’immagine e, insieme, coglie l’idea di genesi come di un ritorno all’origine della creazione. Nel testo biblico della Torah , Javé, il Dio dell’Antico Testamento creò l’universo, la terra in sei giorni e il settimo si fermò a contemplare l’esito della sua creazione. Questo è anche quello di cui parla “Genesi “ di Salgado in questa foto: il grande mistero della creazione del mondo, le forze di natura al lavoro, Dio al di sopra di esse, l’inizio e la fine di tutto quello che esiste come leggiamo all’inizio della Genesi: “Io sono colui che io sono. Questo è il mio nome per sempre, questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.”


“L’io sono”, il primo nome dato a Dio nella Torah qui è figurato, colto come questa luce che scende dall’alto e irradia simile a una rivelazione divina al fondo di un cielo coperto e oscurante al tramonto, mentre disegna il suolo, la superficie del mondo, con linee di vita che proseguono verso il loro proprio infinito e iscrivono parole su un Libro Sacro, quello dell’universo, il tessuto significante della terra.


Daniele Poletti - Ottativo

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Daniele Poletti - Ottativo - Edizioni Prufrock spa, 2016Daniele Poletti - Ottativo - Edizioni Prufrock spa, 2016

L'ottativo è il tempo del desiderio, della possibilità, un antenato di quel congiuntivo che ne mantiene ancora qualche tratto somatico. Forse c''è un nesso tra questa mia breve annotazione e il titolo di questo libro. O forse sono già stato depistato, complici le note editoriali. Cos'è che eventualmente muove il desiderio o l'arte del possibile in un libro come questo? Domande difficili da metter sotto sequestro, recintare, soprattutto leggendo un'opera in cui la suggestione (meglio ancora, il "suggerimento"), come energia messa a disposizione del lettore, è motore principale, alimentato da parole che assomigliano a schiavi liberati dalle catene.
Il libro ha una sua struttura rigida che contrasta con la fluidità del materiale (v. più avanti): circa sette sezioni - la maggior parte delle quali composte da tre testi "doppi" (cosa che poi vedremo) segnati con numeri romani e a volte qualche titolo aggiuntivo -  intervallate da testi dalla connotazione prosastica, identificati da lettere progressive (A, B, C,...) e titolati tutti "deprivazione del sonno". Da questo punto di vista è un'opera organica, o per lo meno c'è una evidente volontà di dotarla di organicità, di una struttura che riconduca ad un tutto ogni singolo testo e a cui ogni testo si appoggi. In sostanza un poema, un genere o una forma che hanno ritrovato il loro habitat naturale proprio nella poesia di ricerca, fornendole una veste concettuale.
Poema su che cosa? Domanda mal posta e fuorviante, in un'opera di questo genere. Nella quale l'evidenza (proprio nel senso di prova provata) è quella di un percorso, anzi di una penetrazione, anche aggressiva, un tentativo di attraversamento di un corpo durissimo da perforare, quello che è già arduo definire come "realtà" (quale? di chi?). Il desiderio e la possibilità accarezzati sono quelli di un accostamento, un accostamento di conoscenza a questa realtà/verità in maniera paritaria, con l'unico strumento possibile, rebus sic stantibus, cioè il linguaggio, uno strumento che però è in parte spuntato, almeno da quando parole e cose hanno preso strade diverse, e il significante ha assunto un ruolo iconico. E con la complicazione non indifferente che qui non sembra entrare in gioco almeno l'altro grande strumento che potrebbe supplire a questo iato, l'immaginazione, sostituita semmai da un impianto allegorico piuttosto rarefatto, poichè distanziato, lontano, dietro la durezza delle parole. Del resto, allegoria di che? Il mondo ha qualche ragione di essere allegoria? O di comunicare qualcosa attraverso di essa? Sotto questo aspetto a Daniele, come ha detto altrove, non interessa la comprensione del dettato, ciò che lo intriga è semmai la dimostrazione (perseguita, mai raggiunta) che tutto è dicibile, è toccabile con la parola, per trarne un senso anche inaspettato, o pitico. Ovviamente una parte di questo senso sfugge, ma solo perché esso è consegnato alla individualità del lettore (e so che una delle aspirazioni di Daniele è comporre un'opera "aperta").
Ci sono in questi versi molte cose concrete, oggetti che popolano la mente o il sogno (?), e molte parole/oggetto. Ma la realtà è un materiale composito, un calcestruzzo però privo di solidità. In questo senso non è reale perché non dispone di sé, non ha la responsabilità di avere una struttura "fissa" che risponda a una qualche mente razionale, di garantire sé stessa, di essere - in termini di sociologia - una "costruzione sociale". La realtà - comunque la si definisca - è (specie in un'opera di poesia) semplicemente un divenire, sia nella realtà medesima sia nella mente di chi la "costruisce" (l'autore). Mantiene, sempre, un alto grado di riscrivibilità. In questo senso, forse, c'è qualcosa di optativo, un margine di devianza o di possibilità, un pertugio che serve a scardinare la superficie, infilandoci un qualche grimaldello al fine di scoperchiarla, di ficcarci dentro uno sguardo speculatore e conoscitivo. Sguardo a volte troppo vicino, microscopico, o forse giustamente vicino, come quelle dilatazioni di frattali che dimostrano nel piccolo un universo complesso, sguardo a volte di una acribia perturbante, a volte rivolto ad un interno profondo, molto corporeo, come di chi sta ad occhi serrati immaginando non il proprio ombelico ma le proprie viscere.
In questa "ideologia" che mi pare di intravedere, c'è forse il senso di altre caratteristiche di questo libro. Dove, ad esempio, le "ripetizioni" dei brani sono in realtà espansioni o interpretazioni di qualcosa che si omette, si fa finta di omettere, o si dimentica. Infatti quasi tutti i testi sono "doppi", ma nel senso, appunto, che il secondo lievita il primo, lo destruttura e lo ricompone, in uno sviluppo che è anche (e forse inevitabilmente) una mutazione o anche una catastrophé, e insieme uno scolio, una glossa, si vedano quegli apici che paiono annotare (chiarire?) certe parti delle seconde "versioni" (e già con questo termine siamo in un territorio instabile, poiché non c'è nessuna certezza che versioni poi in effetti siano). C'è da aggiungere che il primo testo viene definito dall'autore "archetipo", e questo è interessante, per i molteplici rimandi alla psicologia, alla filologia, alla critica del testo, e per l'evidenza dell'artificio di cui dicevo prima, cioè di un secondo testo in cui porzioni del primo sono "ricostruite" (parole dell'autore). Si potrebbe d'altro canto avere l'impressione di una situazione simile (ma contraria) a quando si vuole ricostruire al mattino un sogno avuto nella notte. Qualcosa manca, qualcosa si aggiunge, altro viene reinventato. Il riferimento al sogno non è casuale, in questa mia personale interpretazione, se si guarda alla scrittura di Daniele come se fosse un processo insoddisfatto (e forse aleatorio) di condensazione e spostamento, di costruzione e distruzione di elementi costitutivi la realtà personale dell'autore, anzi una verità "inverata", statuita e riparametrata come tale, per quanto possa essere - scrive un Poletti/Debord - "una verità parallela al vero". Una realtà in cui certo entra anche il perturbante, cioè la dialettica tra il consueto, l'ordinario, il quotidiano, l'oggettuale e il senso di alterità, di estraneità, di "doppiezza" che essi possono generare quando si innescano certi corti circuiti ("è sconfortante come la mela conosca l’albero / e l’albero non conosca la mela"). Dal punto di vista di questa rielaborazione continua di materiali può essere utile ricordare anche che alcuni dei testi di questo libro provengono da un'altra prova (credo del 2013 o 2012, non ricordo se uscita a stampa) intitolata, guarda caso, "Sui Quaderni in ottavo di K. (Ottativo)", cosa che però non è detto che giustifichi o intersechi il titolo attuale (e soprattutto il "prodotto" poetico attuale).
Da un altra prospettiva  i termini scientifici che costellano il libro dovrebbero per loro natura fornire un aggancio alla "verità", a qualcosa di inconfutabile all'interno del materiale composito di cui si diceva, ma appaiono anche come elementi "duri", come conchiglie puntute che trovi camminando sulla sabbia, corpi alloctoni, misteriose presenze non necessariamente funzionali alla comunicazione, come moai in un paesaggio spopolato. E' anche un ricorso alla techné, a qualcosa di surmoderno, un ammiccare ad un sentimento del tempo in cui l'umanesimo in crisi si misura con un positivismo scientifico che da parte sua non se la passa bene, anzi è morto e sepolto. E insieme un affermare: ecco, vedete, le parole hanno ancora una consistenza, come se fossero ancora consequentia rerum. Un approccio ricorsivo negli scritti poetici di Poletti, almeno in quelli che ho avuto occasione di leggere. Ma anche i termini botanici, anatomici, fisici, medici ecc, fanno parte di quelle cose concrete (o empiricamente verificabili, se si rimane in ambito scientifico) che a loro volta intridono quel materiale composito di cui si parlava. Sembrano d'altra parte corrispondere, nella loro concretezza, ad un grado di puntuta attenzione, forse proprio in quelle "deprivazioni del sonno" che fanno da pietre confinarie nel testo. Uno stato di veglia, forse ricercato e indotto ("Benzodiazepine in etere ottundimento, riduzione della vigilanza, / difficoltà del verbale, diplopia, l’albero è un albero / l’albero e la sua funzione") che però non sospende in maniera drammatica solo il sonno, ma per forza di cose incide anche sul sogno, inteso come distruzione, ricostruzione e superfetazione della realtà.
La scrittura di Poletti ha (allora) in sé il suo desiderio e la sua potenzialità, tenta di agire in sé non come strumento di lettura del mondo, ma come parte e forma di esso. Forse è in virtù di questo che, pur mantenendo un andamento certo sperimentale, il libro di Daniele non scivola mai  in quella arroganza, quella presa del potere della parola in cui la parola vale qualcosa a prescindere da quel che dice, diventa rara e perciò preziosa e il suo valore cresce in maniera inversamente proporzionale alla sua usabilità. Al di là delle indubbie difficoltà il libro non è oscuro (Daniele diverse volte si è dovuto difendere da questa accusa) per chi voglia carpire il senso di questo percorso (formativo o plastico, direi), addirittura a tratti illuminato da lampi assolutamente lirici, emersioni che non erano sfuggite, a suo tempo, a uno dei più attenti lettori di Poletti, Edoardo Sanguineti). Il percorso complessivo mi pare chiaramente indicato a chi legge, e ampiamente aperto alle libere interpretazioni soggettive proprio grazie alla sua non univocità, nella accezione in cui intendeva il termine U. Eco. Anche la chiusa ha il suo senso. Alla fine si perde la definizione, forse la chiarezza, forse la strada (dico il lettore, perché certo l'autore nasconde tra i suoi materiali coordinate e punti geodetici utili a ritrovarla, magari andando a ritroso): perché le "deprivazioni del sonno" G,H e I subiscono in chiusura del libro uno smottamento grafico che le rende progressivamente illeggibili, scivolano in altre parole, in ammassi di una inintelligibile oscurità. Forse è obnubilazione. Oppure il sonno è giunto, le palpebre si sono alla fine chiuse. Immaginiamo che inizi un altro libro, forse un libro "nero", un'opera di una diversa densità. L'amico Daniele, se vuole, può prenderlo come suggerimento. (g.cerrai)


IV.

La più piccola distanza al di sotto della quale il concetto di dimensione perde ogni significato fisico
la più piccola unità di misura del tempo al di sotto della quale il concetto di durata
: un grande giallo secreto del fegato gravava sul suolo su ogni cosa grandi ali
spiegate il cui orlo esterno proietta un’ombra infinitamente divisibile
senza alcun ordine lunghezza larghezza profondità le pozzanghere portano sembianze
trombe a meridione premevano alle spalle la sua stessa statura.
L’estensione è omogenea e continua infinitamente divisibile; è indefinita.
Non sono servite a niente tutti i lavandini intasati le vasche
i bidè perché volare via i nostri morti i nostri dei.


IV. (iris)

senza ordine alcuno trombe a meridione ombre nelle pozzanghere grandi ali spiegate
giallo grava sul suolo su ogni cosa [da 561 a 580 nm: zona del giallo nelle sue seguenti tonalità intermedie:
da 561 a 570 nm: giallo-verde da 571 a 575 nm: giallo citrino da 576 a 580 nm: giallo]
lo spettro
del visibile è limitato colori a noi sconosciuti
quelli della rondine [l’iride forma la tonaca vascolare dell’occhio: anteriormente l’umor acqueo lo separa
dalla cornea e forma la parete posteriore della camera anteriore dell’occhio; posteriormente
è appoggiato al cristallino con il quale delimita la camera posteriore dell’occhio]

il cui orlo esterno si estende indefinitamente.
Alle spalle non sono servite a niente la statura deposta
ha memoria dell’immediato [essendo una parte dell’estensione non può fornire
informazioni sull’estensione in generale]
i lavandini le vasche tutta la nervatura murata dei tubi
⟨ce le strapperemmo di dosso⟩ ottusa di morti e dèi


IX.

La masticazione è un adattamento uno dei primi segni
durante le due dentizioni è discontinuo, tutto ciò che può essere addentato
fonda sicurezza radicamento; liso di masticatura.
In trentadue giorni si appalesano i distretti venosi
: continuano a perdere foglie per torsione
: il frasario dei tigli è liso e scopre un’armatura saia
: cedono le valvole a nido di rondine sporgendo nel suo lume
c’è reflusso, desiderio di una cella
nuova, uno dei primi segni il desiderio di
per mordere ogni mattina un carminativo rende
lieve un mordicativo per non separarsi.
La nervatura rimane diagonale i decidui rimangono e variano.


IX.

[fase di apertura: la bocca è aperta e la mandibola abbassata;
fase di chiusura: la mandibola viene alzata verso la mascella; fase di occlusione o intercuspidale:
la mandibola è ferma i denti dell’arcata superiore e di quella inferiore si approssimano].

A partire dalla presenza si determina il segno la mandibola
è sostituto dell’impensabile inizio e fine entro cui la luce consuma le superfici
ingiallimento sbiancatura screpolo, si ritiene che le possibilità ⟨necessità⟩ di dormire
diminuiscono al diminuire dei giorni uno dei primi segni è il desiderio
⟨non vergogna di voler morire, eppure; adattamento⟩
ogni mattina i denti serrati si lisano la mandibola non è che un ferro di cavallo [due spine ossee
simmetriche danno origine al muscolo genioglosso: nelle apnee ostruttive del sonno il muscolo è interessato; deprivazione].

Continuano a perdere le foglie un carminativo per ⟨alleviare⟩ il tatto
dal supplizio delle mosche per non separarsi. A partire dalla presenza
si determina il segno del vacuo


deprivazione del sonno - C

una porzione di spazio separata dallo spazio circostante è corpo in
presenza di luce; corpo e ombra sono porzioni di spazio consentanee;
corpo e  ombra  nel sonno  sono  porzioni di spazio  equipollenti;
superficie linea e punto si limitano reciprocamente all’infinito senza
determinare la finitudine


XI. (saliva)

Non lasciare ti faccia che tu possa verso di esso
credere di avere. Il corpo accoglie il corpo espelle conserva
l’occhio calmo alla penetrazione del foraneo, vulnerario
di salvia lumache incarnativi. La pelle lisa
delle cicatrici è nucleo di immortalità. Deviazione dei flussi
: ciò che sta dentro
sconfina per spinta esercitata
sulla parete contenitrice attraverso
le bocche il dentro sconfina cambi continui
di frequenza nel fuori che si lascia sempre occupare
scarica l’occhio colmo a bocca chiusa il dubbio
della fonazione. Mai stato qui, sempre una prima volta,
neppure l’uso della sedia è così chiaro eppure
i moti nei pressi della sedia secreti. Scavalcare
cancelli ritorna nella mantica ritorno del giorno.


XIII.

Che si ripete continuamente con certezza diventa una parte
della cerimonia vuotano sorsate masticamenti per stomaci mai ingombri
è un fare irruzione continuamente la previsione certa già della cerimonia
l’irrompere, tacere, seduzioni del potere chiacchiere inesorate,
chiacchiere su presidenti chiacchiere su ladri chiacchiere su primi ministri
chiacchiere su eserciti chiacchiere su guerre chiacchiere sul cibo
chiacchiere su bevande chiacchiere sull’abito chacchiere su profumi
chiacchiere su parentele chiacchire su città chiacchere su province
chiiacchere su donne chiacchierere su uomini ciacchiere su eroi
chiacchiere da strada chiacchierre da pozzo chiaccchiere su spiriti
chiaachiere vane sull’origine del mondo sull’origine dell’acqua sull’essere
non essere, sulla storia proprio così come l’adrenalina si trova nel carrello emergenza
primo cassetto a livello sistemico intestino bronchi, aumento della frequenza cardiaca
volume sistolico in gittata cardiaca, deviazione del flusso sanguigno fegato
aumento della glicemia. Quanto ode qua non riferisce là per la disunione di quelli
quanto ode là non riferisce qua per la disunione di questi. La si può prevedere
con certezza e allora diventa una parte della cerimonia.


XIII.

fanno irruzione continuamente la previsione è certa diventa una parte
che si ripete continuamente [ciclo iterativo, è una struttura di controllo che attraverso costrutti sintattici di flusso serve a
specificare se, quando, in quale ordine e quante volte]
all’irrompere si tace - seduzione del potere - imposizione
(consacrante) - masticamenti per stomaci mai ingombri - chiacchiere inesorate.
Il soggetto resta prigioniero delle strutture ripetitive catene ⟨corde⟩ di significanti non svincolate.
A livello sistemico aumento delle frequenze, i volumi produttivi deviano
il flusso sanguigno verso il fegato
aumento della glicemia. [descrizione di una foglia (platano occidentale): organo specializzato, ascella pronunciata che restituisce
il tipico rumore su pavimento in ceramica, cinque corde o nervi principali: rachide portante e quattro vertebre coassiali da cui
partono numerosi nervi emissari; margine lobato e superficie leggermente tomentosa; generosità e abnegazione; la massa fogliare
è strutturata come un linguaggio, ma i rapporti gerarchici che organizzano la funzione sono incapaci di esprimere la razionalità dei
processi economici; il senso di morte è ciclico come un processo economico con la costante del potere avvolto dalla dura madre]
.
Lo si può prevedere con certezza quanto ode qua riferisce là per la disunione di quelli
quanto ode là riferisce qua per la disunione di questi.
Continuamente esce dal campo previsionale - certezza è verità - la parola fa parte della cerimonia


XV.

Una volta che si è accolta in sé non pretende più si creda in lei
parlare fa saliva tutto ciò che svia è dialogo tra due seggiole
nella camera suono cubo di oggetti in parallasse. La mela è tutto
ciò che svia, in un certo senso è sconfortante come la mela conosca l’albero
e l’albero non conosca la mela terminazione solo in apparenza
legittima il timbro lo è del suono la parola della voce la voce del fiato.
I secondi fini coi quali l’accogli in te non sono tuoi ma suoi.
Tutto ciò che svia le coordinate della mela rispetto alle seggiole
variabili al variare della solerzia, delle losanghe a strappo sulla carta da parati.


XV.

tutto ciò che svia è il dialogo. [quattro pareti una porta; la porta è sulla parete opposta al muro crudo che dà a nord;
la stanza è sempre un parallelepipedo; sostiamo o permaniamo avvolti in parallelogrammi;
ci sono anse rientri polmoni, ma la porta sembra non mutare posizione; lo sviluppo è sempre a croce; il corpo è duale
rispetto alla stanza ma ha diversa struttura combinatoria rispetto alle seggiole]. La mela è tutto ciò che svia
[un ramo spunta da un albero, porta nome e essenza dell’albero; ciò che esce è identico a quello che rimane all’interno;
il frutto non è espressione di se stesso]
.
1.9 imitazione è alla base dell’acquisizione del sistema, il principio di riferimento fonda ma anche seppellisce
Se fosse soppressa ogni mediazione tra me e il muro ⟨terminazione solo
in apparenza legittima⟩. [il bene è sconfortante quanto il male; nel dialogo tra due seggiole si sviluppano
segmenti di inappartenenza; cause ed effetti sono assimilabili alla statistica degli strappi della carta]


XVIII. (seme)

Attraverso la porta di destra gli uomini entrano in cui si tiene consiglio
l’ultima parola dell’ultimo con quella per perdere la facoltà di giudicare
con definitiva esattezza gli inserti a coda di rondine dei cassetti
vicino alla porta di sinistra per se stesso il giudizio è errato circa la parola
è esatta la funzione degli inserti la resistenza l’incastro che sfida
un odore di rovere fresco vicino alla porta di destra sono almeno cinque
sarebbero diventati componenti della famiglia e così certo non sarebbero
più entrati dalla porta di sinistra.
Il secondo cassetto contiene solo federe di lino grezzo.


XVIII.

non ci sono finestre attraverso una porta perdere la facoltà di giudicare [la serratura è un dispositivo che
assicura chiusura e apertura grazie a una chiave]
.
La funzione di una porta è esatta, telaio cardini serratura creano soglia
presso un muro la posizione è ingiudicabile.
Il volo di solito è veloce una rapida successione di curve cambi di traiettoria
quando predano insetti che volano veloci [l’incastro a coda di rondine è un tipo di giunzione stringente per
la realizzazione di cassetti; fa parte delle cosiddette giunzioni multiple caratterizzate da una serie di elementi maschio
e femmina: i pieni sono detti tenoni i vuoti mortase]
.
Nel ⟨quarto⟩ cassetto solo federe il secondo non si apre solo due
del consiglio lo sanno e escono sempre dalla porta di centro.
Circa la parola è esatta la funzione degli inserti, il giro di chiave ha struttura fonetica
non espiratoria ⟨l’unita acustica del discorso è il dispositivo⟩


XX. deprivazione

vedeva il /corpo/ ma non il termine qualcosa di continuo, di secchezza
in secchezza fino alla bocca prosciugata; non parlava; capiva
ciò che diceva dentro di sé; gli si era fatto vicino a somiglianza di
una falce; si liquefece; l’indescrittibile non lo ha potuto /conoscere/
dalla fondazione fino a soltanto /colui/; disgiunto dall’/oggetto/
dalla /cosa/ dal /soggetto/; nella combinazione esiste una scala
ascendente di libertà, ma le espressioni non dipendono più in alcun
modo dal /contesto/, il subordine la dipendenza l’accordo vengono
meno a non /essere/; sostituzione con dispositivi anaforici /astratti/,
verso l’ossatura, rimbombo della cassa toracica ottusione, qualcosa
di continuo dallo stomaco alla bocca prosciugata, non usciva; /
lingua/ saliva denti appercezione del fiume senza fiume, capiva ciò
che diceva dentro di sé; semi di suono voci di /memoria/ disturbi
vari; capiva ma non riconosceva: il /malato/ è un cittadino, un individuo,
un soggetto parlante, secondo l’istituzione; alieno dalla
propria /voce/ il soggetto diventa puramente inconscio, nel quale
essendo uno diverrà due; quando i due siano uno e l’interno come
l’esterno e l’esterno come l’interno e ciò che è su come ciò che è
giù e al posto di un occhio rifarete due occhi e una mano al posto
di una mano e un piede al posto di un piede e un’/immagine/ al
posto di un’immagine, allora non sarà più necessario; desunto n°1
/riconoscere/ è un atto di ridondanza della /conoscenza/ che varia
a seconda del /tempo/ a disposizione, il percorso di un corpo in un
tempo imponderabile è un accavallarsi continuo di riconoscimenti;
la falce, si liquefece e parlò attraverso il sonno senza parlare; il rumore
ambientale del sonno copula liturgica della; diceva dentro di
sé; in primo luogo i /mutamenti/ consistono nella creazione di nuove
/relazioni/ tra; divengono materiale significante solo in quanto
utilizzati in un altro /sistema/; una macchia contenuto e contorno;
una macchia su una macchia è identica in qualunque punto dell’estensione;
sarà una certa /forma/ immune da tutti gli atti; essa ne
può produrre in altrui, ma ha in se stessa il connaturale; diaspora
cellulare e tagmemi, il /caso/, espansione, bisogno di spazio; dinamica
oppositiva fuori da sé gli si erano fatti vicini a somiglianza;
desunto n°3 la rottura del /significante/ avviene attraverso l’innesco
della macchina-macchia, bestia e testa cessano di essere discernibili
nella espressione verbale e scritta, il sistema fonologico è un sistema
di rapporti produttivi che libera l’inconscio e sedimenta /storia/; quantità
in qualità, coincidentia oppositorum, negazione della negazione;
il /fiato/ organizzatore sovvertito in allume accorpa i predicati
in feldspati;



Daniele Poletti nasce a Viareggio nel 1975.
Poesia e teatro del corpo sono le attività che animano la sua ricerca.
Pubblicazioni: Dama di Muschi (1995, edizione privata), con i testi introduttivi del poeta visivo Arrigo Lora-Totino e dall’artista Antonino Bove, Una giornata... particolare (2003, Mauro Baroni editore) e Ipotesi per un ipofisario (2005, Marco Del Bucchia Editore).
Tra le partecipazioni: L’ora d’aria dei cani (2003, Mauro Baroni editore), Parabol(ich)e dell’ultimo giorno. Per Emilio Villa (2013, Dot. Com Press), I racconti della metro (2016, Aracne editore).
Sue poesie e lavori concettuali sono apparsi su varie riviste e contenitori d’artista (Offerta Speciale, Risvolti, Geiger, BAU, Italian Poetry Review tra le altre e su l’immaginazione 10 poesie con una nota di Edoardo Sanguineti).
È presente su alcuni blog letterari come Il fiore del deserto, Poetarum Silva, Rebstein, Trasversale, blanc de ta nuque.
Fondatore e promotore del progetto culturale [dia•foria: www.diaforia.org, che all’inizio del 2013 ha inaugurato un nuovo spazio dedicato alle scritture di ricerca: f l o e m a - esplorazioni della parola (http://www.diaforia.org/floema/).


Disaccordi - Antologia di poesia russa contemporanea

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disAccordi - Antologia di poesia russa 2003-2016

Alcuni testi tratti da "disAccordi - Antologia di poesia russa 2003-2016", edita da Stilo Editrice, a cura di Massimo Maurizio, che raccoglieesempi di una produzione recentissima e giovane (gli autori sono nati tra il 1962 e il 1994), spesso pubblicata solo al di fuori dei canali tradizionali, in blog, siti, riviste alternative. Una produzione anche stilisticamente e tematicamente differenziata, lungo però un filo rosso che il curatore ha individuato nella percezione comune della violenza, strisciante o palese, quotidiana o storica, individuale o collettiva. O anche istituzionale, quella insita fin nel linguaggio di sistema, omologato dalla politica e dai mezzi di informazione, cui l'artista reagisce con una "volgarizzazione", con la violenza verbale della lingua dei violenti. C'è la guerra (compresa la guerra in Ucraina), la ribellione, la rielaborazione del passato in chiave identitaria, la riflessione sul linguaggio, sulla funzione della poesia, sulla cronaca.

I testi che ho scelto mi sono sembrati interessanti, altri contenuti in questo libro un po' meno, ma oggettivamente non sono in grado di stabilire in quale misura la traduzione ha contribuito o ha influito in un senso o nell'altro. In entrambi i casi però rimane forte l'impressione di voci così diverse e distanti dalle nostrane, di forte impatto anche nelle manifestazioni più liriche, anche quando prendono in prestito modalità e atteggiamenti occidentali "arrabbiati" e un po' beat che noi riterremmo ormai datati irrimediabilmente (e certo hanno buoni motivi per farlo, di alzare per quanto possibile la voce). Soprattutto una poesia poco incline all'introspezione autotelica, alla speculazione simbolista, al facile psicologismo.
I testi originali sono stati omessi per difficoltà tipografiche, ma sono a disposizione di chiunque fosse interessato a (e capace di) leggerli.




Elena Fanajlova


La mia prima nonna

Prima perché è da parte di mamma
Mia mamma è fondamento del mio intelletto
E del mio cuore. La nonna è come un piedistallo
Portava la dodicesima di reggiseno, dio nutrice di tutta la famiglia.
Cucino il suo boršč ancora oggi.
Era la mia dea. Non posso criticarla.
Anche se ce ne sarebbe motivo. Ora lei sarebbe per
[l’annessione della Crimea.
Come a suo tempo era per Stalin.
La si può capire.
Figlia di un bracciante ucraino

I villaggi di ucraini
Erano frequenti nelle nostre terre.

Lui andò a cercare lavoro nella capitale e abbandonò la famiglia,
Quattro bambini.
Lei si buttò anima e corpo nella rivoluzione. Vi trovò se stessa.
Aveva 15 anni. E, ovviamente, la svolta a sinistra.
La giustizia. Ragazzi con l’eloquio dolce.
Tra di essi c’era mio nonno.
Studiò con Platonov a Voronež alla scuola di partito.
Non credo che qualcuno oggi ricordi quel mondo,
L’edificio che apparteneva all’istituto medico,
Di mattoni rossi
Nel parco Detskij

Perseguiva i kulaki a Tambov
Sparava
Là incanutì
Quando lanciarono dei coltelli dietro al suo carro

Davvero non capiva
Che il nonno era per metà ebreo
Non gli interessava affatto
La questione nazionale
Soltanto il sesso e la rivoluzione
La guerra civile
La vittoria del comunismo
Erano semplicemente bellissimi
Delle furie biondissime
Gli occhi marroni li ho presi da tutti e due i nonni
Io sono la copia esatta di due fotografie salvatesi per miracolo:
Della madre di mio nonno, l’ebrea polacca Raisa
E mia nonna di Char’kov, Avdot’ja Petrovna

Ma Ganna, Anna Ivanovna,
Una furia biondissima con lo sguardo russo ariano ucraino impudente
Nei suoi occhi azzurri senza colore da vincitore della storia,
A me noto tra l’altro da alcune foto degli anni Trenta,
Galina Bujvolova – il mio primo amore di bambina.
Le sue mani non mi parvero mai dure.
Il suo petto non mi parve mai troppo sciatto,
Sebbene vi facesse sempre cadere delle gocce di boršč –

Le gridavo addosso quando interrompeva le mie telefonate
Con i primi fidanzati.
Mi faceva ridere e mi inteneriva quando
Cercava di stabilire un rapporto con loro
Le tagliavo le unghie gialle inspessite da vecchia
E pulivo la sua merda
Quando non riusciva a portarsela fino in bagno
Ero il suo partner d’affari quando mia madre stava morendo
E ci vollero due anni
(qui la pellicola si interrompe)

Ieri ho di nuovo sognato che mi lasciava in eredità,
Ad uso esclusivo,
La sua favolosa casa a sud della regione di Voronež, sul confine ucraino,
Che io possederò dopo la morte.



Linor Goralik

Ad Aleksandr Baraš

Com’è possibile scrivere versi dopo il quattordici aprile del 1942?
Dopo il 6 febbraio del ’43? Dopo l’11 marzo del 1952?
Com’è possibile scrivere versi dopo il 22 giugno del 1917?
Dopo il luglio del 1917? Dopo il marzo del 1984?
Com’è possibile scrivere versi dopo il 6 novembre del 1974,
L’11 settembre del 1965, il 1° agosto del 1902,
Il 9 maggio del 1912?
Com’è possibile scrivere versi dopo il 26 del mese scorso?
Dopo il 10 giugno dell’anno scorso? Dopo il 12 giugno?
Dopo il 14 dicembre del 1922?
Dopo questo giovedì?
Dopo quello che è successo oggi alle tre?
Più orribile, probabilmente, fu soltanto il primo novembre del 1972.
Soltanto il 12 aprile del settantatré fu, forse, ancora più terribile.
O il sei agosto dell’86. Il 4 settembre del 1913. O, diciamo,
il venticinque luglio del 1933. O il ventisei.
Qualcuno probabilmente è caduto dalla scala a pioli in biblioteca,
si è fratturato la colonna vertebrale, non potrà mai più muoversi.
Qualcuno, probabilmente, è morto di morte violenta,
facendosi saltare in aria per sbaglio con gli ostaggi.
Il bambino di qualcuno quasi certamente è andato a prendere un gelato,
soltanto a due isolati di distanza,
e non è mai più tornato.
No, soltanto dietro l’angolo. No, soltanto nella casa accanto.
No, è tornato diciotto anni dopo, il 25 marzo.
O dodici anni fa, il 24 novembre, alle 15:00.
È morto il 26 del mese scorso.
Ha scritto in tutto una sola poesia, molto brutta.



Kirill Korčagin

Vestiti vecchi

1. Aisha

stava di fianco a me e chiacchierava con me
e rideva forte e di cuore mentre
stavano uccidendo i suoi uomini

sebbene a sommare i nomi degli uccisi
sono morti soltanto quattro esponenti
di una tribù e otto
esponenti di un’altra

persino i conflitti famigliari
sono non di rado generati
dal problema degli strumenti del potere
non si può domare con la bontà del cuore
la crudeltà dei costumi locali

e l’hanno ucciso come si svuota
un secchio di immondizia
e gliel’han portato in braccio

la paura ma anche la rabbia si accompagnano
a un’attività incredibilmente intensa
del sistema nervoso simpatico
questo può causare un disturbo incurabile
degli organi deputati alla circolazione del sangue

quando la estrassero dall’automobile
quando le ruppero il naso con il calcio del fucile
quando lei comprese
che era arrivato il suo turno

non c’erano né i soliti lavori umani
né una lussureggiante natura solo il cielo
sopra la testa e la terra sotto i piedi
incolore informe incorporea
che non aveva né bocca né lingua né denti
né laringe né intestino né stomaco
né pancia

occorre comprendere esattamente
di cosa parla questo teorema

le persone non muoiono mai

haràm alaykùm haràm alaykùm



Dmitrij Kuz’min

Dagli ultimi dati di un’inchiesta sociologica:
l’88% della popolazione del mio paese è nazista.
È una notizia di merda, penso io nel vagone della metro pieno da morire.
È vero che non intervistano i minorenni, ma con genitori,
insegnanti, passeggeri del genere non c’è nessuna speranza.
88, una cifra furba, non devi più
masconderti dietro al 14.
Certo, è soltanto una media, penso io,
nel parlamento del mio paese, probabilmente, si arriva  al 100%,
e alla serata di poesia di ieri, probabilmente, non è più di zero.
Ma non credo che alla stazione «Oktabr’skaja» la gente puzzi più
che alla stazione «Komsomol’skaja», in fondo li ha riuniti qui il caso.
Penso che nel vagone ci siano un centinaio di persone,
ma è impossibile indovinare chi sono tra loro quei 12.
Forse soltanto quel mulatto con la maglietta bianca con le lettere russe nere:
«Tratta gli altri come vuoi che trattino te» –
è facile immaginare che cosa stia dietro a quella scritta.
Ecco, quel ragazzino sui vent’anni con i capelli viola –
quasi di sicuro, nei quartieri malfamati per capelli così ti picchiano,
e quello, mio coetaneo, con un tatuaggio rosso e verde sullo stinco –
non è detto, troppo palestrato. Poi il vecchietto,
con la barba di tre giorni e tutte quelle medaglie sul petto
legge la «Komsomol’skaja pravda» – è escluso,
un altro con una barbetta curata e la «Novaja gazeta» –
difficile dirlo, non sono sicuro, quella signora anziana e senza trucco
con un opuscolo sottile in mano – non riesco a vedere se sono
ricette – allora c’è qualche possibilità, se sono preghiere – nessuna.
Più in là, in fondo al vagone non si vede niente.
Ma qualcuno, certo, è riuscito a camuffarsi,
nulla nei vestiti, nella pettinatura, nelle maniere che lo tradisca.
È una competenza utile. E tu, Zazie,
ora sei cresciuta, ma non ti sei separata dalla tua frangia lunga,
ora hai cambiato il tuo maglione color arancia con pantaloni rossi,
ora hai un solo orecchino all’orecchio destro, stai attenta,
non credere che nella folla non si veda come abbracci la tua amica,
non credere che la tua minore età renderà qualcuno più clemente,
e se uno degli 88 arriva al pulsante per parlare con il macchinista,
questi potrebbe far venire direttamente davanti alle porte del vagone
i vigilanti di turno della gestapo della stazione «Leninskij prospekt».

***

A.R.

Sei meraviglioso, mio amato,
sul lenzuolo verde gettato sul divano sgangherato,
con i tuoi brufoli, che a vent’anni non hai ancora mandato via,
con il buco del piercing sul labbro superiore infiammato,
con le ciocche lunghe e arruffate del colore della paglia marcia,
e la pelle di un giallo lunare, abituata a stracci orrendi,
che non ha mai visto nemmeno il sole debole di qui.
Un eros incarnato sotto la dura scorza di thanatos.
Per la quinta volta il tuo cellulare squilla senza fine,
il numero viene riconosciuto come «Mumin-mamma»,
ma tu ti limiti a scacciare dall’orecchio un bombo invisibile,
senza emergere dal tuo russare discontinuo con il fiato che sa di assenzio e gin.
Potrei cercare la tua borsa, frugarti nelle tasche,
potrei levarti le mutande comprate da mamma e le tue calze puzzolenti,
potrei scoparti, visto che ti sei girato su un fianco
e hai piegato l’anca verso la pancia,
non ti sveglieresti, fino all’alba non ti sveglieresti,
e all’alba non ricorderai che cos’è successo ieri sera in quel pub
e di notte nell’appartamento in affitto in via della Primavera,
qualcosa c’è stato, ma ti è scivolato tra le dita
nelle acque scure dell’inconscio, coperto da una lastra di ghiaccio,
insieme al nome della ragazza dell’altro ieri e alla parola «futilità».
È stato futile il tuo servizio di volontariato di due mesi all’ospizio,
è stato futile presentarsi con quel goffo nome inventato,
è stato futile, addormentandoti, tirare la mia mano verso il tuo membro goffamente eretto,
e poi tentare di mordermi la vena sul polso sinistro,
vendicandoti per la perseveranza del palmo destro
(infilami, come un cockring, nel tuo cuore non circonciso), –
la morte ti copre con la sua patina spessa,
si sovrappone a se stessa come delle banchine,
ma se io ti sparassi, come quella volta a Bruxelles,
se io ti sputassi addosso una scarica di metallo o di semi,
qualcosa, lo so, si sprigionerebbe da me, verso di te:
sangue, amore, versi, versi, versi.



Galina Rymbu

La scuola


adolescenti che leggono «la società dello spettacolo»
io dico: «non è un po’ tardi?»
mi rispondono: «no, l’orologio indica le sei»
settembre. i sistemi circolatori della scuola
nel boschetto di betulle di un riformatorio.
nell’aula di biologia i corpicini dei ratti in formalina,
il topolino morto d’una nazione a brandelli.

mi sono sdraiato con la testa tra le foglie. sul petto i fiori secchi dell’elicriso, l’immortale.
sulla lingua i tesori neri del formalismo russo.
nel boschetto soleggiato un ragno infila i ceppi
sui rami sottili. e l’insegnante
sporco di sangue s’accascia di colpo.

apro gli occhi e vedo i bambini cospargere di terra un grande cuore.
la nebbia dei libri si dirada.
il bianco crepuscolo. la prima sigaretta.
abbracciata alle ragazze in una palla di fumo
siam serrate. la carta straccia
si innalza verso l’alto. la schiuma nera
dei caratteri tipografici dalla nascita di cristo.

la bocca strappata della televisione di stato.
le grigie interiora della stampa indipendente.
poliziotti morti nell’aula di biologia durante una lezione
aperta imbacuccati in un pelame debilitato.
lunghe colonne di persone in fila sulla  strada per casa:
di che cosa vi si tace?
fogliame rosso, giallo… corpo infantile e scudo
un urlo improvviso.
andiamo via di qua. ma non c’è
qui alcuna stazione. sbatto contro i muri.
il fil di ferro squarcia il corpo,
lo avvolgono chilometri di pellicola alimentare.
nel profondo delle arti locali dormono i curatori di carne,
cuciti di polpa di maiale, conditi con polpa di vitello
durante l’intervallo di un tempo sospeso baciano il membro del preside
l’edificio della scuola coperto di scaglie leggere ondeggia al vento
un piccolo fienile, un carrozzone mobile
è in ogni cuore, celato nei dorsi dei libri,
come l’istituto della famiglia e della proprietà
contro il lettore,
contro di te,
contro l’uomo,
un carrozzone che si fa largo come una fiamma
che afferma soltanto
menzogna, menzogna, menzogna.

***

il sonno è passato, Lesbia, è giunta l’ora della mestizia,
È ora di gettare gli anelli e i vestiti nel falò di sangue
per la gloria del buon ricordo delle sorelle nostre
mandiamo i calici in frantumi!
o, Lesbia, l’ora della guerra è giunta,
di comprare armi pneumatiche da ometti tarchiati
e nella custodia del mac book nascondere una lama, un punteruolo
e procedere, a denti stretti, in mezzo a file scure di fasci.
o, Lesbia, quest’ora è sdraiata, come un corpo costretto in una tomba,
come la sua vittima ha il cranio spaccato
e il sangue gli copre il viso, lo sguardo indifferente.
se appoggi la mano sul mio petto puoi sentire
come batte il cuore, come questa notte ci schiaccia?
è giunta l’ora di uscire ubriachi sulla tverksaja, su prospekt mira
e di abbracciarsi.

un’ora tale che l’amore e la politica sono una cosa sola,
e la polizia e l’odio sono qualcosa di diverso.
dove le lezioni pubbliche sono sostituite da lezioni di lotta di strada,
dove il respiro al gelo si trasforma in università libere e immaginarie
la mascotte delle olimpiadi miška sta in ginocchio,
e accanto a lui un bambino sta in ginocchio,
vedo, Lesbia, un rasoio nella tua mano, i capelli scompigliati, lo sguardo è folle.

fermati dunque sopravvivrà il nostro cuore!
guardando i genitori negli occhi, attraversando il cortile in mezzo agli schiaffi,
attraversando di corsa i cordoni come uno sfolgorio,
lasciando graffiti e versi,
Lesbia, alzati! è giunta l’ora di cantare una canzone allegra,
sputando sangue e briciole di denti,
coprendosi la faccia con le mani, squarciando l’asfalto,
intanto i nostri fratelli, i nostri amici, i nostri genitori
si sono levati in cerchio e gridano: «hop! hop!»

non so quali libri bisogna leggere,
quale lotta politica bisogna portare avanti qui,
quanto chi ti sta intorno non è né morto né vivo,
come se si fossero accordati, nell’oblio stabiliscono un ordine,
quando ti passano sulle labbra un membro che sa di piscio
dietro a un mucchio di lavagne nel cortile della scuola: «ora ti insegniamo noi»

questa notte non è né viva né morta,
quando non conosci la lingua dell’altro,
alzati, Lesbia! basta stare in ginocchio, alzati!
alzati, mia amata, anche se si trattasse di morire
e questo falò, orribile e da paura, questo desco di carne,
questi vermi sulle teste della «chunta nera»,
queste urla, botte, manifestazioni, gemiti – tutto marcirà nell’abisso.


Henry Ariemma - Aruspice nelle viscere

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Henry Ariemma - Aruspice nelle viscere - Ladolfi Editore 2016Henry Ariemma - Aruspice nelle viscere - Ladolfi Editore 2016

Pubblico qui alcuni (pochi) testi tratti dal libro di Henry Ariemma. Non ho molto da dire su questa raccolta, e quindi per una volta sarò breve. Un libro oscuro, di ardua e forse inutile penetrazione, nel quale sembra accentrarsi un paradosso, e cioè che  l'arte di interpretare i segni criptici della realtà, la difficoltà di trarne qualche senso, si risolve nella creazione di ulteriori intrichi, nebulose. ammassi, ulteriori arcani. Non parlo di labirinti, perché i labirinti hanno una loro logica, una storia simbolica leggendaria e una forza evocativa che qui non trovo (oltre a una loro estetica).  Leggo questi testi e ho come l'impressione che le parole abbiano perso la loro funzione eidetica o iconica, proprio quando il tentativo  di porre quesiti esistenziali, trovare risposte o spiragli di senso (come dice il prefatore) avrebbe richiesto altrimenti. Ho l'impressione insomma che l'aruspice invece di infrangere il mistero ne sia stato inghiottito, cercando di trovarne il fondo. In altre parole che in questi testi egli annodi invece di sciogliere, compatti invece di sublimare, complichi invece di semplificare, nasconda invece di trovare un responso, per quanto poeticamente mimetizzato. La "difficoltà" in poesia non è un difetto di per sé, non lo è ad esempio quando lancia una sfida, quando innesca nel lettore la volontà di ricostruire nessi partendo da indizi interpretativi, da allusioni, da frammenti, come di uno specchio che specchio non è o non è più nella sua integrità, ma di specchio mantiene la natura e la ragione, restituendo lampi illuminanti.
E' certo che il responso dell'aruspice è per sua natura sibillino, anfibolico, ma è anche vero che si presta (deve prestarsi) ad una qualche interpretazione (ibis redibis non morieris in bello, ricordate?), altrimenti, semplicemente, non è. Ma non è facile, perché come dice il prefatore (Giulio Greco) "i “segni” non sono sempre chiari e allora ci si rifugia nell’’«involucro di arachide», in un’esistenza appartata, nel sogno". O forse ci si rifugia nell'involucro del linguaggio, ma un linguaggio nel quale (rovesciando il senso con cui lo scrive Greco) davvero è veramente arduo separare la metafora dalla descrizione della realtà, e dove anzi l'effluvio di parole che ci colpisce in certi testi (v. qui sotto "Quattro immagini")  appare esso stesso, nella sua (spesso) totale mancanza di sospensioni, nella sua ostinata ipotassi, un tutto d'un fiato, l'apnea di quell'inghiottimento di cui parlavo prima. (g.c.)

Con il dispetto hai amato

Con il dispetto hai amato
lusinghe di ogni ragione
fiera, alta testa
prima del cuore
quasi vicino,
linea nel fiore stelo
moltiplicato cumulo
infinito orientale
alle mani sulle mani
di montagne per vedere gesti.
Il giustificato amore
inventa le strade
riempite impegno
a mete mentite,
difende a non averne
sbracciate purezze
e occhi di preghiere
ferme a capire l’ondulato
ricolmo continuato altrove.



Quattro immagini

Ho sempre le solite quattro
immagini di quella scuola
e non ricordo più niente.
Sarà perché i giorni erano
sempre gli stessi, tutti uguali
dalla mattina alla sera per crescere …
Non ricordo che un cammino di pinocchio
lontano dai gatti e le volpi
e di una maestra laura per sempre
con gli stessi banchi e lavagna
con il padre che aveva un negozio di vernici
ed era contento delle crepe della scuola
dove gli anni erano volumi di rigore.
Del pomeriggio non era compagna
la bicicletta né il calcio
ma la solitudine che attenuava
con le sole persone di fuori
e i venditori di cibo e dolci
come di libri e griffe.
Di quella stessa sera ne era compagna
l’ordine e lo spirito fermo
per non soccombere alla quotidiana
pelle di grande soldato del discorso
degli adulti pronti a cercare le squadre
dei quadrati della propria libertà
disimpegnando già da quel giorno
quello in cui non si può avere del proprio
premio al proprio gioco.
Ma è finta il giorno di festa
per stare chiusi al sole dei propri dispotismi
e ripiegare nel baluardo della farina
e uova con neve di zucchero
dal nome amore e ora che è tardi, alletto!
con i pronti pantaloni di doppia fodera
americana per sudare il mancato ballo
della proibita musica che rende questa vita
l’errore di averla vissuta.
Ma le ossa più lunghe sono le stesse
per rimanere nel cammino della città
di sempre soldati senza ordini
e navigare nel fiume che più avvicina
l’insieme delle geometrie di una sola bellezza
per sentire l’abbraccio delle montagne lontane
nella cerchia del vino e del buon pane sempre
a portata da dividere con chi senza sapere toglie
la nuova solitudine con quelli occhi zingari nel vedere
l’anima o nelle marce mahleriane che brindano allegria
ai gesti indiani per vendere
fiori che regalano o della quiete africana
che dona giacometti rubati d’ebano
come il guardare del turista che scorge nuovo
quel ritratto sepolto nel cuore
vicino alla catena degli alberi
e per il lontano mare
di una brutta strada di barche
che non porta oli e gesta
della sua fatiscenza.



Inarrivabile

Tutti hanno un nonno
inarrivabile ai padri
figli delle regole
e silenzi nel racconto
fermo delle gesta
per la lingua degli eroi.
E i mondi del viaggio
quanti sono
con addosso le vesti
di ogni guerra rotti
dentro le atrocità
per ricominciare?
Nell’era d’argento
delle grandi tracce
alzando i palazzi del proprio
indiscusso re di cuore?
Ora strategico è
l’avamposto fatto di sedie
alle porte dei passaggi
nei corridoi della casa che parla
di incontri negli occhi
come sorrisi del canuto finto sonno
per le braccia che acquietano
alle corse dei giochi
per ascoltare ancora:
Sentenziare con amore
di questa libertà diversa
che mischia al vuoto
del lavoro che pesa
il soddisfare sogni
imposti quando basta
tornare al semplice tu
e bere birra con i nemici
per sentire l’abbondanza
del tolto e vivere con poco
nei terreni del costruire
con gli uccelli e i ceppi
di cantiere ai gatti
marchiati di saliva
propria nel muso
come il profumo
nella ceramica
del nascondere
in ricavate stanze
armadi d’avventura,
proibite regole
e silenzi nei gesti
dell’unica ragione
alla corta vita.



Per case siamo

Per case siamo noi alberi,
involucro, linfa essenza
e dura scorza per vivere
porte alle distanze dentro.

Per case siamo noi strada,
conosciuti passi in arrivo
destino dell’essere adesso.

Per case siamo noi libri
viventi sogni al crescere
sospesi a scritto ritorno.

Per case perse siamo noi mappe
a rimanere sbiadito tesoro
di strade, alberi sulla pietra
segnata destino, aria densa
al tenere unico respiro del nascondere,
a tenere respiro nella corsa e pianto
per flauto e canto del ridere
dietro finestre sentendo il cuore
mondo lontano, vetro vinto
condensa che appartiene al tempo.


Frida Kahlo: un universo poetico attraverso l’auto-ritratto, nota di Elisa Castagnoli

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Frida Kahlo: un universo poetico attraverso l’auto-ritratto (Frida Kahloa Palazzo Albergati, a Bologna )

“ Il mio lavoro nel corso di dieci anni è consistito nell’eliminare tutto quanto non provenisse dalle pulsioni liriche interne che mi spingevano a dipingere. I miei temi sono stati sempre le mie sensazioni, i miei stati d’animo e le profonde dinamiche che la vita andava producendo in me.. rappresentazioni di me stessa che erano quanto di più sincero e vero potessi fare per esprimere quel che sentivo di me e d’avanti a me .” (F.Kahlo, lettera a Chavez. 1939)


Basta guardare i ritratti dipinti a partire da un medesimo modello, quello di Natascha Gelman, collezionista privata della pittura muralista messicana e prima acquirente insieme al marito delle opere di Frida Kahlo e Diego Rivera - la collezione privata attualmente esposta a Palazzo Albergati di Bologna - per rendersi conto dell’abisso stilistico che separa e tiene insieme i due artisti, allo stesso modo del legame esistenziale e creativo, spezzato e mai interrotto, al centro della mostra bolognese nella presente scelta curatoriale . Il ritratto dipinto da Khalo molto più ridotto nelle dimensioni si vuole intimista e attento al dettaglio, focalizzato in primo piano sul viso della donna per escludere tutto il resto della figura: analitico, introspettivo tanto da rappresentare quasi un alter ego della pittrice assumendone l’intensità e la pregnanza del volto, i tratti marcati, la medesima fierezza e dignità dello sguardo. La versione dipinta da Rivera, al contrario, nelle dimensioni molto più imponenti tanto da occupare un’intera parete, magnifica il modello, la seduzione e la bellezza del corpo femminile attraverso uno sguardo esterno che rende omaggio alla donna oggetto di seduzione come presenza iconica, glamour, amplificata quasi sulla parete in estensione anziché in profondità. Tale la distanza stilistica che separa la pittura dei due artisti.


Come appare dalla mostra, la pittura della Kahlo è un ritorno ossessivo e seriale sull’autoritratto nel corso di una vita, ora esorcizzando nella figurazione di sé momenti o eventi dolorosi, tragici o patologici dell’esistenza ora, per sublimare una bellezza, un’espressività e uno stile fuori dall'ordinario. La sua arte si presenta, in ogni caso, come una pittura dell’interiorità contrassegnata, tuttavia, da una profonda “americanidad”, quell’appartenenza e impronta all’anima e alla cultura messicana nelle sue molteplici commistioni indigene, ispaniche e coloniali. Il lavoro di Frida in stretta sintonia con quello di Rivera si situa all’interno del movimento di “Rinascita Messicana” tra il 1920 e il 1960, parte di quel gruppo d’ avanguardisti post-rivoluzionari tra i quali Rivera, Siqueiros, Orozco ecc.. denominati appunto pittori “muralisti”. Pur nella sua aperta rivendicazione di un attivismo politico a favore del rinnovamento del paese e, successivamente di un’ideologia comunista in Messico, la Kahlo si allontana inesorabilmente dalla concezione di un’arte pubblica, collettiva e popolare al servizio della rivoluzione che, come voleva Rivera, svolgesse una funzione politica e sociale di consapevolezza per tutto il popolo. Perché, la dimensione intorno alla quale si dispiega tutta l’opera di Frida nel corso di una vita è quella dell’esistenza stessa, nel suo attaccamento viscerale alla medesima sotto il segno della sofferenza, dall’infermità fisica e dei ripetuti drammi personali con gli esiti dolorosi o patologici che ne conseguono. Di qui la pittura è per Frida dagli esordi carta traslucida e riflettente di adesione e messa a distanza del sofferente vissuto , mappa figurativa del proprio corpo, strumento e via privilegiata di “trasmutazione del dolore in bellezza”, infine un modo per esprimere, dare continuità, o meglio riversare la densità amorosa e conflittuale della relazione a Rivera in molteplici figurazione di sé dentro la forma dell’auto-ritratto.


Il corpo fisico in questo senso è pretesto, supporto e medium di passaggio verso quello pittorico che emerge come la mappatura simbolica di un corpo reale reso attraverso un’infinità di auto-rappresentazioni o proiezioni di sé. E’ corpo della sofferenza fisica, di una colonna spezzata in tre parti e multiple lesioni causate da un autobus che la investe quando aveva solo diciotto anni. E’, in alcuni casi, figurato dentro un busto metallico rilucente ritagliato lungo tutta la colonna o attraverso una serie di altre armature o corsetti artificiali che ne integrano costantemente l’architettura della figura. E’ ancora studiato e rappresentato anatomicamente attraverso una serie di disegni dall’accuratezza quasi scientifica di un naturalista in seguito ai ripetuti aborti e di fronte all’evidenza della maternità negata. E' infine il fulcro figurativo del passaggio attraverso la pittura dalla “tortura” chirurgica ( nelle trenta operazioni della sua vita) alla trasmutazione iconica di sé. La figura è riscoperta in una dimensione estetica e magnificata negli abiti lunghi ispirati alla tradizione indigena; si mostra con eleganza e convinzione, attraverso uno stile che esalta la propria originalità e appartenenza insieme ai capelli intrecciati e alle perle che sempre l' accompagnano. In questo senso l’arte di Frida si delinea nel corso degli anni con una identità o meglio un’esclusività tipicamente autoctona, quell’estetica detta “messicanismo” nella quale viene riconosciuta da tutta l’intellighenzia del paese nel corso degli anni ‘40; progressivamente da allora è il distacco dal movimento internazionale surrealista attraverso il quale Breton l’aveva resa nota alla Francia e al mondo. Se il suo approccio pittorico attinge infatti in larga misura all’uso di simboli altamente soggettivi e ad archetipi di derivazione inconscia, riportando l'arte alla propria origine innata e irrazionale come volevano i surrealisti, un stile unico, autoctono appare nella visione della Kahlo intrisa di “sanguinosa raffinatezza”, d' una carnalità a tratti malinconica tipica dell’origine messicana. Infine, come è sottolineato dalla mostra bolognese, al centro dell’universo pittorico di Frida resta malgrado la conflittuale relazione di una vita, il dialogo in presenza o in assenza con Rivera, lui incorporato, incluso, smembrato e ricomposto visivamente nell’opera per quel legame unico ed esclusivo in cui lei lo pone dal piano personale a quello propriamente artistico.

“Venditori di Calle”, Diego Rivera (1943)


Sono volte di spalle, celate a noi spettatori nel volto mentre i capelli corvini lunghi discendono raccolti in trecce sotto le spalle e i piedi nudi restano serrati l’uno all’altro in postura meditativa. Inginocchiate di fronte a questo grande manto o distesa di bianche calle, gemellate quasi l’una all’altra le vediamo nei riflessi neri dei capelli intrecciati sulla pelle olivastra , poi negli scialli tradizionali sotto la luce pura di quel manto che paiono cingere con le loro braccia, totalmente assorbite in esso. Il resto della scena resta a noi occluso, letteralmente tagliati fuori o posti al di qua del suo raggio di visione.

Il senso di una bellezza innata alla terra, la luce del Messico discende a fiotti dai fiori a calici aperti simili a gigli espansi. L’esubero di un mondo originario si apre dischiuso a noi mentre due fanciulle abbracciano il bianco candore della vita.

“Ogni rituale, ogni azione per gli antichi messicani è piena di sacra bellezza”

La pittura figurativa di Rivera aderendo all’estetica del movimento avanguardista messicano si lascia ispirare dal mondo amerindio attingendo alla storia, alle tradizioni, al folklore del suo popolo_ tra i soggetti di predilezione la gente comune, i contadini, i volti indigeni e di bambini_ quell’aspetto originario che costituisce l’identità unica del suo paese. Tale, la “promessa di un nuovo inizio.”



La nuova arte dell’avanguardia sorta in un esubero di creatività a partire dagli anni ‘20 in Messico dopo la fine della dittatura di Diaz attinge a un sostrato unico di colori e suggestioni: la terra rossa nel suo esubero di forme e vegetazioni, i mercati rigogliosi di frutta polposa e di sapori, la luce piena del giorno irradiando sugli antichi monumenti, i bambini a piedi nudi per le strade .

Maria Izquierdo, ugualmente nella sua pittura, si lascia ispirare dal Messico per i suoi colori, per la sua innata bellezza e visionarietà. Tuttavia, sviluppa una forma d'arte moderna che la avvicina al surrealismo con elementi comuni all’estetica della Kahlo: la stessa radice irrazionale e inconscia per la pittura, un uso di segni soggettivi, di miti e simboli estratti in potenza da una trama di oggetti e avvenimenti. Infine, nell'arte messicana trapela secondo Breton “una goccia di crudeltà e umorismo, il filtro del quale il Messico conosce il segreto", come componente tipica presso le due pittrici.


Maria Izquierdo, “Scena Circense”

I cavalli dai contorni morbidi e il profilo avvolgente in ocra volano quasi sospesi sullo sfondo diluito, in parte ricondotto al suolo rosso e granulare della terra messicana dentro l’emisfero appena abbozzato di un telone da circo. Da subito richiamano alla memoria il mondo surreale e notturno di Chagall popolato da creature fiabesche e animali o oggetti del sogno . Acrobati circensi sospesi in bilico sui cavalli finemente disegnati letteralmente aleggiano nello spazio di un circo metafisico dove la vita e la morte, il dolore e l’euforia si insinuano , si sfiorano e sottilmente si fronteggiano in un faccia a faccia tra allegria e tenue malinconia. Evocano la memoria di un mondo originario, primitivo e estinto: una carovana da circo, un fuoco acceso, acrobati in cerchio intorno al fuoco, una danzatrice in equilibrio sulle punte mentre altri la osservano. Preda di questa apparente euforia si rivestono del blu e del rosa dei saltimbanchi e degli acrobati picassiani. Sospesi in aria o appesi ad equilibri precari restituiscono nella sintesi di pochi segni visivi la dimensione di un circo metafisico, surreale nei tratti tra il riso e il pianto dalla più banale realtà della loro vita di girovaghi e saltimbanchi.


Ritratti fotografici di Frida ( Nicholas Muray)


New York fa spesso da sfondo a questi ritratti fotografici a colori in piena focalizzazione scattati da Nicholas Muray fotografo statunitense e allora compagno di Frida che seguì anche la sua prima personale a New York nel 1939. Scialle magenta e capelli neri corvini accuratamente intrecciati insieme, camicia di raso blu e grandi fiori purpurei sul capo, oppure un tehuantepec nero e una collana in oro scintillante su uno sfondo floreale, è sempre l’immagine di uno straordinario potere visivo, un’icona contemporanea quella che si impone nella sua aurea di bellezza e contrarietà. Nella scelta dell’abito Frida rivendica con fierezza la propria origine indigena mentre lo sguardo appare inequivocabile, diretto all’obbiettivo senza false posture o simulazioni, al contrario in una durezza dei tratti che non lascia adito a mezze misure, a qualsivoglia attitudine o estetica posa. E’ presenza carismatica e sguardo fisso di fronte a sé per il potere forse di quella vita scavata fin nelle pieghe del suo volto, sulla pelle tutta, in ogni linea incisa istante dopo istante dal cammino affranto e tormentato dell'esistenza. Enigmatica si impone come una guerriera, azteca, dagli occhi scuri intensamente marcati e le sopracciglia tracciate in una oscura linea del profilo.



Come Frida scrive nei suoi diari: “Il volto è il tempio del corpo e quando il corpo si spezza l’anima non ha altro sacrario che il volto”. Di qui la ragione recondita o forse l’ossessione quasi all’auto-ritratto nella pittrice se il volto è il luogo dove si identifica la verità dell’essere o perlomeno il suo costante tentativo di definizione attraverso molteplici identità o rappresentazioni parziali di sé: in divenire nel tempo e nella verità indelebile impressa su un corpo visto innumerevoli volte spezzarsi e ricomporsi.


Frida Kahlo,“ Auto-ritratto con perle”, (1933)


Indossa gioielli di perle, una collana di perle di giada pre-colombiana per enfatizzare la sua discendenza meticcia, indigena e europea mista, i simboli cristiani e gli amuleti indi , una mente analitica e un’immaginazione a tratti allucinante . La sontuosità delle perle come la fierezza dello sguardo si ricompone a maschera nuda, indelebile e carnale impressa a vivo nei tratti marcati sulla tela come nel ferro e nel fuoco della carne esposta a una prolungata sofferenza fisica. Si rivolge a noi direttamente quello sguardo, d’una intensità e presenza straordinaria , di natura quasi fotografica per il suo mostrarsi diretto e immediato, senza simulacri o schermi occludenti . I colori del volto sono quelli ambrati, rossicci e magenta del mezzogiorno, poi quelli bruni, ocra e opachi d'una terra arsa. Le sopracciglia fanno da schermo alla guerriera, l’acconciatura fissata con cura sul capo nei voluminosi intrecci neri richiama l’immagine di una divinità pre-colombiana alla quale si ricongiunge idealmente come fonte di affermazione identitaria per il paese nel presente .



Frida Kahlo, “L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra (il Messico), Diego e il sig. Xolotl”, (1949)


E' un abbraccio amorevole al cosmo e all’esistenza tutta segnata dalle sue trame, strappi e punti di sutura; tale, il dipinto d’ispirazione surrealista appare colmo di simboli e segni altamente soggettivi che ricomprendono il senso di un’esperienza individuale in una visione cosmica e totalizzante. L’enorme corpo di un bambino, Diego, è avvolto sulle ginocchia tra le braccia di Frida_ capelli neri lunghi e abito rosso tradizionale fino ai piedi per magnificare la donna e l’artista _ mentre il terzo occhio della connessione all’alto è disegnato al centro della fronte di lui.

E’ l’abbraccio tra i due nel fulcro del dipinto ma anche l’abbraccio di ogni cosa a un’altra, d’ogni piano cosmico a un altro in un universo dove un’immane presenza, la natura, cinge e avvolge ogni cosa dentro la sua stretta: bianco e nero, metà giorno e metà notte, distruzione e creazione in una completezza dove tutto si ricomprende, si ricongiunge.

L’amore come forza cosmica allaccia e tiene unito ogni elemento. L’universo è visto in una metà del dipinto nel suo lato oscuro di tenebre e, nell’altra metà, come paesaggio luminoso di rinascita. E’ come una grande dea le cui braccia avvolgono, ora nell’ombra ora nella luce, Diego e Frida, le piante della vegetazione messicana e l’universo domestico degli animali che li circondano. La grande montagna ferita alle loro spalle è parte di questa divinità dalla quale sgorga latte al seno e che riavvolge e riassorbe il dolore in una visione rigogliosa della natura. Diego appare come bambino epurato , riconnesso a una superiore conoscenza a simbolo del terzo occhio sulla sua fronte ed entrambi simbolicamente si stingono dentro questo abbraccio amorevole del cosmo.



Frida e gli animali

Gli animali spesso accompagnano o entrano come parte integrante nella pittura della Kahlo; si assimilano o mimetizzano al suo universo famigliare, si vestono di simboli, iconici raccontano la solitudine esistenziale di fronte ai ripetuti tradimenti del marito, l’impossibile maternità, il mistero della fertilità - fino a divenire parte integrante del suo universo poetico. Come “Nature viventi” parlano la lingua di una cosmologia di elementi e si oppongono alle tradizionali “ nature morte”.

“Autoritratto con scimmie”, (1945)


Appare a mezzo busto, i capelli intrecciati semplicemente sul capo senza altri ornamenti di fiori per focalizzare l’attenzione essenzialmente sul viso, questa volta in assenza di gioielli.

La camicia bianca ampia e tradizionale di una estrema semplicità. I rampicanti delle piante tropicali riempiono lo spazio a lei retrostante , letteralmente sbarrano l’accesso alla visione insieme alla presenza degli animali, scimmie viste espandere con i loro arti, intorno, dietro e addosso alle spalle di lei fino a chiudere la figura in un gabbia percettiva. Se il volto si veste di una calma e compostezza regali esso pare, tuttavia, insinuare tra le righe una sorta di tensione trattenuta dietro la linea netta del profilo, dietro gli zigomi. Una sorta di inquietudine si rivela, si lascia leggere nello spazio claustrofobico del quadro, per via ancora di quelle piante che si espandono in foglie e rampicanti e fungono da riempitivo, completamente su tutta la superficie . La presenza soffocante degli animali non lascia adito a respiro ma pare invadere lo spazio intorno a lei fino alle sue braccia occluse, fino al suo sguardo vivo su cui trapela una tacita, sottile sofferenza.



“ Autoritratto come tehuana o Diego nei miei pensieri o pensando a Diego”, (1943)

Il costume è assunto come una maschera primitiva e ancestrale che, liberando dalle convenzioni e le gabbie borghesi, permette di uscire dal dominio della rappresentazione per entrare in quello simbolico. In tal senso, la Kahlo si riallaccia inevitabilmente al primato della natura, alle forze che agiscono e ordinano essenzialmente la totalità dell’esistenza su tutti i piani superando il punto di vista egocentrico o strettamente razionale dell'occidente . Il tehuantepec indossato nell’auto-ritratto è l’abito tradizionale proveniente dalla stessa città messicana dove vigeva un sistema matriarcale di influenza e predominio attribuito alle donne. Sul volto di Frida, sulla sua fronte è la figura di Diego incorporata, inglobata, dipinta tra la linea di congiungimento delle sopracciglia e quella dei capelli. Lui continua a incarnare quel legame viscerale e primo durato tutta una vita di distruzione e redenzione, di amore e dipendenza, di sofferenza ora epurata su un volto universale che pare riassumere in sé il maschile e il femminile insieme .

L’artista donna qui, come nella società matriarcale di cui prende a prestito il costume, domina e afferma, ristabilisce il legame con le forze cosmiche; lui, indelebile è riassorbito entro la fronte di lei, “al centro dei suoi pensieri”, parte del suo universo creativo come titola l’opera, ma in una figura piccola e epurata, resa minima nelle proporzioni rispetto alla donna magnificente al centro del quadro nell’abito indigeno.


Decorazioni di pizzi e merletti bianchi finemente intessuti si espandono in una sorta di velo o copricapo a raggiera intorno al volto di Frida fino a isolarlo dal resto della figura, renderlo centro e fulcro estetico dell’ autoritratto. Un’immagine mistica ne deriva, quella di una divinità che in maniera sincretica, “meticcia” appunto, tiene insieme l’immaginario cristiano, l’abito dal segno indios e incarna, infine, un punto di vista politico e femminista. Tale costume era indossato dalle donne indie oppresse prima dai colonizzatori spagnoli poi dal capitalismo occidentale nella più vicina attualità del paese. Lei, l’artista e la donna Frida, al centro della tela, pare ricongiungersi idealmente a una visione unitaria, ricomprendere e riassorbire attraverso l’opera il dolore, le rotture emozionali e fisiche dei suoi organi, riconciliare, infine, in sé il maschile e il femminile dentro tale visione totalizzante. (elisa castagnoli)



Sette poete scelte da Rita Pacilio

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La poesia genera vita?

Le credenze intuitive sono dure a morire, come quelle che si riferiscono al movimento, e molto spesso vengono applicate alla poesia. Quando ciò accade si perde la direzione rispetto alle credenze originarie e all’impegno verso l’esistenza. L’artista applica, così, il coraggio della declinazione poetica svelando la giusta direzione, ma se chiedessimo a tutti coloro che scrivono poesie quanti libri hanno letto riceveremmo risposte che rientrerebbero in poche ed esclusive categorie. In tutti, comunque, riscontreremmo imbarazzo come fruitori del lavoro altrui. Subentrano dilemmi complicati in relazione al proprio stato emotivo e al linguaggio che da denotativo si modula in connotativo quando la creatività esiste e persiste. Spesso, però, lo stesso scrittore di versi, è portato ad analizzare la propria scrittura come carica di alta espressività senza misurarsi con la critica e senza affrontare alcuni equivoci di fondo. Infatti, l’arcana e sterile diatriba sul talento innato e acquisito avanza inesorabile alterando la comunicazione, quindi il confronto. Il tentativo di fornire modelli interpretativi validi per la valutazione si articola sempre di più a carico di poche voci che a volte sono sottomesse a condizioni lavorative e di mercato. La selezione/valutazione viene a identificarsi con il luogo comune diventando credenza. Come riuscire a essere fedeli a un libro? Come costruirlo e poi, come leggerlo? A volte sembra non ci sia scampo: molti lavori risultano inutili e sovrabbondanti per la letteratura che si stacca sempre più dal nome per diventare universalità, arte. Altri libri sono piccole gemme che fanno fatica a sopravvivere alla convenzione, al potere poetico. (Rita Pacilio)


Laura Maria Gabrielleschi nella sua raccolta Di padre in padre edito La Vita Felice, 2016 si mette in rapporto diretto con gli affetti accostandosi con delicatezza e, in maniera straordinaria, alla realtà senza mai esserne sopraffatta o manipolata. Nelle due sezioni – Di padre in padre e Al canto del gallo - viene narrato il rapporto genitoriale con l’animo di figlia per entrare nell’assenza temporale e materica da conoscitrice esemplare del dolore. Il tempo e la manifestazione emotiva sovrastano i versi in cui la direzione poetica denuda bellezza e ispirazione.

*

Tu dimenticato nelle mattine

soleggiate, di baci infantili,

di viaggi senza sosta

tu sempre assente nei risvegli

io tra braccia sconosciute

e la fatica di essere un volto

di anno in anno

di padre in padre.


*

Se vorrai tornare

ancora ti aspetto

vicina a quel muretto

basso che nessuno ha mosso

ci sono più piante nell’orto

e una mimosa gigante

è cresciuta senza che tu la vedessi.

Non è uguale la casa

e nemmeno il mio viso

il cuore piccolo

come allora.


*

Ho conosciuto uomini

chiamarli amore mi conforta

tutti sembrano felici qui.

Non ero una brava bambina?

Sono fedele a poche cose

vorrei essere fedele a me stessa

fare il giro del mondo

questo avrei voluto fare da bambina

oggi riesco a fare solo passeggiate

innocenti, senza pensare.

Non ero bellissima?

Da vent’anni non taglio i capelli

dormo male

il telefono ha smesso di squillare

in sogno tutti i volti

si assomigliano.

Perché te ne sei andato?

Laura Maria Gabrielleschi è nata a Lucca. In poesia ha pubblicato i seguenti libri: Le case degli anni con prefazione di Dario Bellezza (Del Giano, 1994); Amore allo specchio (LietoColle, 1997); Dialogo con la madre con prefazione di Franco Loi (Bastogi, 1998); Inizio senza nome (Nicolodi, 2001); Compagno d’occasione (Polistampa, 2007). Nel 1997 ha vinto il premio Montale per gli inediti pubblicati in 7 Poeti del premio Montale (Scheiwiller). È presente in diverse antologie.


**********

Il peso della neve– La Vita Felice, 2016 – di Rosa Riggio custodisce il coraggio dell’amore che riconosce la vita. Si trattadi un argomento naturale, ma che è aperto a innumerevoli esiti. Anche la perdita del padre e la seguente mancanza assumono un carattere decisamente celebrativo, per niente greve. Padre, Parigi sono le due sezioni sospese tra figure sparenti e memoria, perché niente può essere negato all’esistenza, niente può essere pesante quando i paesaggi e i ricordi sono leggeri come la neve.

*

Mia madre guarda fuori

dietro di lei le voci si fanno lievi

poche righe, sì, è tutto così chiaro.

Lasciatemi qui, non è ancora notte

ma sta accadendo

adesso.


*

È solo una neve più bianca

quella che mi tiene

mentre guardo

la tua corsa, da fermo,

mentre non so quale immagine

e come si capovolge il tempo

e se il buio si manifesta

o dove

o cosa

e se.


*

E mi dicevi delle pietre

delle fabbriche

del fumo della tua giovinezza.

La scoperta di un ingranaggio

segreto, girare i bulloni

senza pensare.

La fatica era un assaggio

Di vita, un desiderio infinito

Ghermito di corsa

Nella vite che facevi girare

Le spalle rivolte al mare.

Era Genova

o forse i chilometri

delle spiagge di bruti

spariti da secoli

fedeli

sorretti da da storie di corse

cavalli lanciati

che galoppano ancora.

Era le terra che non puoi lasciare.

L’officina, la sabbia, i mattoni

dove tornare.

Rosa Riggio nasce a Siderno (RC) e vive da alcuni anni a Viterbo. Insegna Lettere nella Scuola secondaria superiore. Appassionata di arte, crea collage su tela. Ha esposto le sue opere presso la Bottega delle Arti a Viterbo. Si occupa di critica letteraria. è redattrice della rivista on-line «NiedernGasse», per la quale cura la rubrica di poesia contemporanea. Ha pubblicato: Un elaborato silenzio (Il filo 2005, Targa di riconoscimento Premio L’Iride – Città di Cava de’ Tirreni); L’orizzonte alle spalle (FusibiliaLibri 2014). Suoi testi poetici sono pubblicati in blog letterari e in antologie.

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Non è tempo di pettirossi di Luisa Puttini Hall (La Vita Felice, 2016) è una raccolta che consegna al lettore un unicopercorso di oggetti e soggetti in movimento e continuamente in dialogo per inalterabile necessità. Il mondo ci viene presentato nel suo simbolismo tormentato e meraviglioso in cui parole chiave conducono al mistero che avvolge gli animi e l’enigma dell’esteriorità. Nessun tempo è perduto quando ci si consacra al sentimento e al senso della fragilità umana.

*

Il sole è luna nel cielo d’inverno

bianco spettro fasciato di nebbie

Le querce nude inquietano

un animo inquieto

Il dolore è compagno di viaggio

fedele

non sopporta tradimenti

neppure tra le pieghe docili

della terra che amo

Nello squarcio arancio del tramonto

io lo costringo

a un armistizio di malinconia


*

Abbiamo perso un giorno

e ancora diamo forma alle nuvole

un cuore una goccia l’America del Sud

o forse la nebulosa del passato

in quel cumulo bianco

sfilacciato dal vento

Percorro i vapori dell’intreccio

e non mi bastano le dita

né gli anni a venire per contare

L’orizzonte

È pieno di cirri

allegre virgole in cielo

Continuiamo a giocare

una foglia un fico un fiore

Luisa Puttini Hallè nata a Milano, ma vive a Firenze, dove si è svolta la sua attività di insegnante e ha avuto inizio la sua produzione letteraria. Legata al mondo britannico per professione e matrimonio, ha sviluppato una grande passione per il paesaggio del Nord Europa, meta di viaggi e lunghi soggiorni. Sia lo sfondo naturale sia quello culturale dei Paesi anglosassoni trovano eco nella sua poesia e nel suo romanzo. Non è tempo di pettirossiè la terza raccolta poetica dopoGiorni d’inedia e d’abbondanza(Masso delle Fate, 2007) e Isole e Terre(Mobydick, 2011) ed è preceduta dal romanzo, di carattere ecologico fantascientifico, Allergia(Mobydick, 2013): pubblicazioni che hanno ottenuto premi e riconoscimenti, dal “Marisa Priori” 2008 al “Portone letterario di Pisa” 2011, al “Buonarroti” di Massa 2014. Le sue poesie e i suoi racconti, vincitori in vari concorsi, sono presenti anche in riviste e antologie. è socia del Pen Club italiano.

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Poesie di frontiera di Alexandra Zambà (La Vita Felice, 2016) nascono dal Laboratorio Poesia e Ombre tenuto nelCentro Diurno Boemondo di Roma. Il progetto viene alla luce grazie all’esigenza di esplorazione dell’animo umano. La sperimentazione verbale e scritta propone al lettore una grande lezione di verità umana. I partecipanti al laboratorio di poesia non pretendono di cambiare il mondo con i loro versi, ma attraverso la forma metrica, interpretano le aspirazioni umane, i desideri più reconditi, la gioia o la tristezza di appartenere alla vita nonostante tutto. Un lavoro non facile che mette a nudo l’amara e desolata esperienza della persona in dialoghi-monologhi fatti di spazio/tempo interiore e intimistico.

I partecipanti al laboratorio: Alessandra, Anna, Antonio, Calogero, Emanuela, Francesco, Giacomo, Giuseppe, Giuseppina, Grazia, Marco, Mario, Massimo, Michele, Mirella, Miriam, Nadia, Paola, Paolo, Raffaele, Rosi, Sandro, Tania, Virgilio e Alexandra.

*

“Padre nostro che sei nei cieli

dacci oggi il nostro pane quotidiano”

per noi e per tutte le persone che hanno fame.

Quelli pieni di fagotti e niente casa.

Quelli che rovistano la spazzatura.

Quelli che hanno figli e niente soldi in tasca.

Quelli che vengono da lontano e girano senza meta.

Tutti quelli che cercano negli sguardi l’amicizia e il ristoro.

Dacci pane per sfamarci,

quello di ieri sempre buono domani.


*

Che dolore vedere la perdita

di un amico che parte,

sconsolato resta appeso

un rettilineo di vuoto.

Ogni ricordo

un sobbalzo del cuore esangue.

Trovarmi solo con la terra che trema,

in fondo sentire il dissesto, resto muto

con la paura guardar lontano.

Nella speranza di un suo ritorno

si sopporta la lunghezza del vuoto.


*

I tuoi occhi dammi, luccicii

della bufera spade e rasoi

dei fulmini dammi la paura.

Dammi, dammi senza chiedere

dammi quel che non oso

nel balbettio pronunciare.

Il pane si offre non si chiede!


*

Era d’inverno: lui

entrò di spalle

gli fece strada un profumo indefinito

col passo indeciso

aranci e limoni si aprirono

balbettò un mezzo saluto

e guardando in basso

nell’ombra indietreggiò.

Alexandra Zambà , di origine cipriota, di lingua madre greca, vive e lavora a Roma.  Nata ad Alessandria d’Egitto da madre greca e padre cipriota, ha vissuto e studiato a Cipro fino al completamento delle medie superiori, ha studiato e si è laureata all’Università di Roma «La Sapienza». Da allora vive e lavora in Italia, docente delle medie superiori prima, produttrice cinematografica e televisiva poi, ideatrice e organizzatrice culturale ha fondato e dirige a Roma il Festival Internazionale di Teatro Italia – Cipro, OMBRE/ ΣΚΙΕΣ . Inoltre ha fondato e dirige da anni l’Associazione dei ciprioti in Italia NIMA, ponte culturale tra Oriente e Occidente.  Autrice e regista teatrale, da molti anni scrive e pubblica poesie in diverse riviste e antologie.  Questo è il suo primo singolare libro di poesie, scritte in lingua italiana tra il 2002 e il 2009 e tradotte in lingua greca, grazie alla persuasione della grande amica Christina Economides, le due lingue/fuochi della sua ellisse artistica.

**********

Percorsi di vetro di Stefania di Lino (de comporre Edizioni, 2012) sono poesie che custodiscono il segreto della parola.Nella sua forma schietta e dialogante, la parola assume connotazioni differenti dando prestigio al sentire la vita nella sua interezza: prevaricazione, stupore, maldicenze, patimenti e amori sono i temi dominanti. Ogni singola poesia si sottrae al lamento conservando il mutamento dei toni come i soprassalti degli eventi in silenziosa dignità. La poesia catartica e contemplativa si fa rifugio perfetto e incantatore per evadere dagli affanni quotidiani, senza ostinazione, cercando di comprendere il rapporto che intercorre tra l’individuo e la poesia.

*

cammino di sera

e come un geco

striscio sui muri caldi

intrisi di urina

di un’estate che si ripete

impietosa e uguale.

si leva appena

un accenno di vento

scappato da dove

in fuga per sbaglio

tra l’asfalto e l’angolo acuto

troppo acuto mi fa male

troppo acuto l’angolo

di quel palazzo

insieme è il sentore

di un’altra stagione

annunciata

che pure arriverà

dovrà arrivare

senza rimando

senza rinvio o sbando.

non posso chiedere:

-sospendi un attimo stagione,

che io sono fuori

per ogni dove, aspetta almeno

il mio rientro. –

ma le stagioni, si sa,

non obbediscono mai


*

[arriverà, mi dico]

arriverà, mi dico

la poesia che devo

ancora scrivere

e colpirà

come un morbo

capace di guarire


*

[un legame che vince la distanza]

un legame che vince la distanza,

sovverte ogni punto cardinale;

so di una porta socchiusa che mi attende

in cima, proprio a nord di quelle scale.

sappi che mi presenterò vestita del mio nulla,

sappi che avrò di nuovo al collo quella sciarpa,

che cadrà, io so morbida e arresa,

sulla punta precisa dei tuoi piedi.

E tu indicando quella sedia, dirai:

- Vieni, siedi. -

Stefania Di Lino, artista visiva e insegnante abilitata per l’insegnamento nei licei, si occupa di formazione e progetti culturali legati all’arte e alla poesia, con mostre e reading pubblici. Espone le sue opere da oltre trent’anni. Ha fatto parte di associazioni culturali; è membro di giuria per Premi Letterari; ha aderito al “World Poetry Movement” e alla “Palabra en el Mundo” per diverse edizioni consecutive. Con un suo testo critico ha partecipato al X Festival Mondiale della Poesia di Caracas. Ha scritto Percorsi di vetro, silloge poetica, con deComporre Edizioni, pubblicata nel 2012. E’ in preparazione la sua seconda raccolta poetica.

*********

La limpidezza dello sguardo sulla vita ci viene dalla raccolta di poesie diPasqualina di Blasio.Come filo nel vento di terra (Sillabe di Sale Editore, 2016) è un impianto che recita differenze e unicità della vita ideologica e intima. I legami familiari, la vita domestica, il tempo, la natura si innestano lungo un ritratto materno e amorevole verso sentimenti che dispensano occhi, volti, umori, silenzi.

*

Mi hai parlato

e in eguale guisa

e strana epifania,

coroncina bianca e bolo canarino!

Mi hai parlato

della vis dirompente

che issa vele nel deserto

e brucia templi.

Sei esplosa, margherita,

in crepa d’impiantito

d’una casa senza porta

e storia stesa dalla sorte.

Ti mostri solitaria

eretta e fiera

e ridi in faccia al sole

primo albore.


*

La luna quella sera nel Castello

aveva un che di mistico nei merli

un richiamo dolce d’abbandono

briciola d’incanto per Lazzaro accucciato.

La luna quella sera mi strappò

un verso ardimentoso e caldo

che giunse fino a te

che incrociavi il mio sostare.

Ma non avevi mano per aggrapparti a me.

Ti nascondesti in quella sfera

fattasi silenziosa Ombra

in assonanza

e lì penasti sordo l’impotenza.

Raganella fredda nello stagno.

Pasqualina Di Blasio, nata a Montesarchio (BN), il 30 Giugno 1954. Ha frequentato il Liceo classico e ha conseguito la  Laurea in Lettere presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Insegna Lettere all’Istituto Comprensivo “A. Manzoni” di Cormano (Milano). Ha pubblicato: – Aprile 2012In punta di piedi … moti del cuore. – Maggio 2013 Orme in movimento con Aletti editore, superando una selezione a concorso per opere inedite. – Marzo 2014 una silloge di 15 componimenti in Rugiade in clessidra- Antologia a 6 autori, Rupe Mutevole Edizioni 2014. – Dicembre 2014 la silloge Silenzio cantore, in “Poeti del nuovo millennio a confronto”, Antologia a 6 autori, Aletti Editore. Altre poesie si trovano in Antologie poetiche: – Tulisium Nova, Brignoli edizioni, 2013 – Habere Artem, Aletti Editore, Vol. 16, 2013 – Il Federiciano 2013, Aletti Editore – Il Federiciano 2014, Aletti Editore – Parole in fuga, Aletti Editore, 2014 – Indice delle Esistenze, Aletti Editore, 2014. Alcune poesie sono state lette e commentate nel programma radiofonico “L’isola che non c’è”, Radioitalia1, Torino.

**********

Non negare Nessuno di Alessia Iuliano (CartaCanta, 2016 collana I passatori) è l’opera prima vincitrice del Primo Premio al concorso nazionale di poesia Serrapetrona – le stanze del tempo 2016 promosso dalla Fondazione Claudi. Credo non sfugga a nessuno l’importanza della strada intrapresa dalla giovanissima autrice. Austera e fruttuosa versificazione che fa riflettere sulla cura della ricerca del verso appropriato per adagiarsi, pazientemente e con rassegnazione, alla malinconica nostalgia delle cose. L’operazione rischiosa conserva il modo di mettersi in rapporto alla realtà corrispondendo ai suoi bisogni più naturali e intimi. La forza dettata dalla tensione verso il mondo e le sue molteplicità rendono il respiro incarnato al punto da sembrare due voci intersecate negli stessi semitoni, nel ritmo armonico che accompagna il senso e la forma.

*

Può essere luglio,

dicembre

può essere pioggia

tempo che scorre.

E d’improvviso

la fine di tutto, l’asfalto

bagnato e il silenzio.

E allora un sorriso sarebbe bastato

a fare bene del male –


*

Appoggia al seno

l’orecchio e sposta

leggermente al centro

quella attenzione.

Ti incontravo nudo

un sogno un anno

prima di oggi, senti

batte in levare

il ricordo è il gesto

quando cade l’accento

la sproporzione di amare


*

L’autista dell’autobus linea quindici

indossa rayban arancio polo azzurra Pescara

è come lui ma è lei

le sopracciglia in matita

e le vele ormeggiate

al ponte delle ciglia.

Porto di stelle di fuochi.

Fumi e fuochi, dove?

l’occhio, il cuore autobus

linea quindici, uomo azzurro

solo occhiali

nello smarrimento sirena

sali nella sera, ti perdi nel mare …

Alessia Iulianoè nata a Termoli nel 1995, studia lettere moderne a Chieti e Musicoterapia presso il conservatorio di Pescara. Dal 2015 collabora con la rivista online ClanDestino diretta da Davide Rondoni e Gianfranco Lauretano . Nello stesso anno, la Word Federation Music Therapy sceglie Thanks to WFMT, canzone di cui Alessia ha curato interamente il testo, come sua sigla ufficiale. Nel gennaio 2016 è pubblicata per la casa editrice Edizioni di pagina la sua prima traduzione dall’argentino: Il ladro di ombre, libro che nel maggio 2016 è il super vincitore del Premio Elsa Morante Ragazzi. Non negare nessuno, la sua prima raccolta di poesie, è vincitrice del primo premio al concorso nazionale di poesia Serrapetrona – le stanze del tempo 2016 promosso dalla Fondazione Claudi.


Stephen Vincent Benét - Poesie, a cura di Emilio Capaccio

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La vita non si perde morendo;

la vita si perde minuto dopo minuto,

giorno trascinando giorno,

in tutti i mille piccoli insensibili modi.

S. V. B.


Sstephen vincent benéttephen Vincent Benét nacque il 22 luglio del 1898 a Bethlehem, in Pennsylvania, Stati Uniti. Fu uno dei tre figli di James Benét, colonnello dell’esercito degli Stati Uniti, e Frances Neill Rose. All’età di tre anni si ammalò di scarlattina. La malattia compromise l’uso della vista e le sue condizioni fisiche per il resto della sua vita. Durante l’infanzia molte volte si trasferì con la famiglia per seguire il padre durante i continui spostamenti dovuti alla sua partecipazione nel corpo militare. Il padre aveva molti interessi tra cui anche la letteratura e la poesia. Gli altri due fratelli, William Rose e Laura, ebbero anch’essi un’apprezzabile carriera letteraria. Il giovane Benét ricevette in casa la prima istruzione, grazie soprattutto al padre che gli trasmise l’amore per i grandi autori, quali: Rudyard Kipling, Gilbert Keith Chesterton, Joseph Conrad, Dante Gabriel Rossetti. A dodici anni, su consiglio di un medico, e a causa della sua cagionevole salute, fu spedito alla “Hitchcock Military Academy” di Jacinto, in California. L’anno dopo si trasferì con la famiglia in Georgia dove fu iscritto alla “Summerville Academy”. In questi anni scrisse i suoi primi componimenti poetici, alcuni dei quali vinsero qualche premio letterario e furono pubblicati anche in riviste locali. Nel 1915 pubblicò la sua prima raccolta di poesie, dal titolo: Five Men And Pompey. Nello stesso anno si iscrisse alla “Yale University” dove divenne redattore del periodico letterario studentesco e del periodico umoristico. A causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, dovette abbandonare i suoi studi che riprese comunque qualche anno più tardi fino a conseguire la laurea magistrale nel 1920. Nell’estate dello stesso anno fece il suo primo viaggio a Parigi, dove conobbe Rosemary Carr che sposò l’anno successivo al rientro negli Stati Uniti. In questi anni scrisse numerosi romanzi, racconti e poesie. Nel 1920 pubblicò il suo primo romanzo: TheBeginning of Wisdom, di genere autobiografico, nel quale trattò il tema della vita dura e delle sofferenze patite durante gli anni della scuola miliare. Negli anni successivi pubblicò altri due romanzi: Young People’s Pride (1922), e Jean Huguenot (1923), ma i suoi più grandi riconoscimenti vennero dalla produzione poetica, come la lirica: The Ballad of William Sycamore 1790–1880, (1923), in cui celebra il folklore e la storia americana, elementi che riprese anni più tardi nelle sue opere più celebri come il lungo poema  epico: John Brown’s Body (1928) per il quale vinse il premio Pulitzer per la poesia l’anno successivo. Nel 1933 scrisse insieme alla moglie, Rosemary Carr, la raccolta poetica: A Book of Americans, in cui sono presenti molti caratteri storici dei bambini americani in età scolastica. Tra i racconti più noti ci sono: Devil and Daniel Webster (1937), By the Waters of Babylon (1937) e Johnny Pye and the Fool Killer  (1938). Rimase incompiuta, invece la sua opera più ambiziosa: Western Star, un lunghissimo poema epico-narrativo che nel suo intento avrebbe dovuto consistere di cinque libri. Benét fece in tempo a scriverne solo uno prima di morire per un attacco cardiaco nella sua casa di New York, il 13 marzo del 1943, all’età di quarantacinque anni. Il libro fu pubblicato postumo lo stesso anno e l’anno successivo gli valse il secondo premio Pulitzer per la poesia.

nelle foto: Stephen Vincent Benét;
Pag. 4 della poesia “The Ballad of William Sycamore 1790–1880”, nell’edizione originale del 1923.

Articolo e traduzione a cura di Emilio Capaccio

Foto: fonte web


Nos immortales

Perhaps we go with wind and cloud and sun,

Into the free companionship of air;

Perhaps with sunsets when the day is done,

All’s one to me — I do not greatly care;

So long as there are brown hills — and a tree

Like a mad prophet in a land of dearth —

And I can lie and hear eternally

The vast monotonous breathing of the earth.

I have known hours, slow and golden-glowing,

Lovely with laughter and suffused with light,

O Lord, in such a time appoint my going,

When the hands clench, and the cold face grows white,

And the spark dies within the feeble brain,

Spilling its star-dust back to dust again.


Nos immortales

Forse andiamo con il vento, la nube, il sole,

Nella libera compagnia dell’aria;

Forse con i tramonti quando il giorno finisce.

Tutto questo è in me — io non ci bado molto;

C’è da così tempo come le brune colline — e un albero

Come un folle profeta in una terra di carestia —

E io posso stare e sentire eternamente

La vasta e monotona respirazione della terra.

Ho conosciuto ore, lente e ardenti d’oro,

Belle di risate e soffuse di luce,

O Signore, in un momento simile nomina il mio andare,

Mentre si contraggono le mani, e la fredda faccia impallidisce,

E la scintilla muore dentro la mente debole,

Spargendo in altra polvere la sua polvere cosmica.



Lunch at a City Club

(For, though not to, D. M. C.)

The member with the face like a pale ham

Settles his stomachs in the leather chair.

The member with the mustard-color hair

Chats with the member like a curly ram,

Then silence like the shutting of a clam,

Gulps, and slow eating, and the waiters’ stare —

Like prosperous leeches settling to their fare

The members gorge, distending as they cram.

And I am fiery ice — and a hand knocks

Inside my heart. Three hours till God comes true,

When there’s no earth or sky or time in clocks

But only hell and paradise and you.

Life bows his strings! I shout the amazing tune!

… The dullest member drops his coffee spoon.


Pranzo al City Club

(Per, sebbene non a, D. M. C.)

Il socio con la faccia da pallido buffone

Adagia i suoi stomaci sulla sedia di cuoio.

Il socio con i capelli color mostarda

Discute con il socio come un riccio ariete,

Poi silenzio come il serrarsi di una vongola,

Sorsi, e lento mangiare, e lo sguardo dei camerieri —

Come prospere sanguisughe che pagano il loro piatto

La gorgia dei soci, si dilata come essi s’ingozzano.

E io sono ghiaccio ardente — e una mano bussa

Al mio cuore. Tre ore ancora prima che Dio si avveri,

Quando non ci sarà terra o cielo o tempo negli orologi

Ma solo inferno e paradiso e tu.

Vita chinati alle sue corde! Urlo la formidabile melodia!

… Il socio più ottuso fa cadere un cucchiaino.



A minor poet

I am a shell. From me you shall not hear

The splendid tramplings of insistent drums,

The orbed gold of the viol’s voice that comes,

Heavy with radiance, languorous and clear.

Yet, if you hold me close against the ear,

A dim, far whisper rises clamorously,

The thunderous beat and passion of the sea,

The slow surge of the tides that drown the mere.

Others with subtle hands may pluck the strings,

Making even Love in music audible,

And earth one glory. I am but a shell

That moves, not of itself, and moving sings;

Leaving a fragrance, faint as wine new-shed,

A tremulous murmur from great days long dead.


Un poeta minore

Io sono una conchiglia. Da me non sentirai

Le splendide percussioni di insistenti tamburi,

L’oro orbicolare della voce della viola che viene,

Carica di radiosità, languida e chiara.

Eppure, se mi stringi contro l’orecchio,

Un fioco, lontano bisbiglio sale clamorosamente,

Il fragoroso sbattere e la passione del mare,

La crescita lenta delle maree che inondano il lago.

Altri con mani sottili possono toccare le corde,

Facendo persino Amore in musica udibile,

E gloria la terra. Ma io sono una conchiglia

Che si muove, non da sola, e muovendosi canta;

Lasciando una fragranza, tenue come un vino novello,

Un mormorio tremulo dai grandi giorni morti da tempo.



Lonely Burial

There were not many at that lonely place,

Where two scourged hills met in a little plain.

The wind cried loud in gusts, then low again.

Three pines strained darkly, runners in a race

Unseen by any. Toward the further woods

A dim harsh noise of voices rose and ceased.

— We were most silent in those solitudes —

Then, sudden as a flame, the black-robed priest,

The clotted earth piled roughly up about

The hacked red oblong of the new-made thing,

Short words in swordlike Latin — and a rout

Of dreams most impotent, unwearying.

Then, like a blind door shut on a carouse,

The terrible bareness of the soul’s last house.


Sepoltura solitaria

Non erano molti in quel luogo solitario,

Dove due colli flagellati si trovavano su un piccolo piano.

Il vento gemeva forte a raffiche, poi di nuovo piano.

Tre pini tesi oscuramente, corridori di una corsa

Non vista da nessuno. Verso il bosco più lontano

Un rumore aspro e smorzato di voci di rosa e cessato.

— Eravamo i più silenziosi in quelle solitudini —

Poi, di colpo come una fiammata, il prete vestito di nero,

La terra rappresa si ammucchiò con rudezza

Sul rosso oblungo intagliato della cosa che era adesso,

Brevi parole in latino spadiforme — e una disfatta

Di sogni più impotente, instancabile.

Dopo, come una cieca porta chiusa su un gozzoviglio,

La nudità terribile dell’anima per l’ultima casa.



May morning

I lie stretched out upon the window-seat

And doze, and read a page or two, and doze,

And feel the air like water on me close,

Great waves of sunny air that lip and beat

With a small noise, monotonous and sweet,

Against the window — and the scent of cool,

Frail flowers by some brown and dew-drenched pool

Possesses me from drowsy head to feet.

This is the time of all-sufficing laughter

At idiotic things some one has done,

And there is neither past nor vague hereafter.

And all your body stretches in the sun

And drinks the light in like a liquid thing;

Filled with the divine languor of late spring.


Mattina di maggio

Sono disteso sul sedile accanto al finestrino

E sonnecchio, e leggo una pagina o due, e sonnecchio,

E sento l’aria vicina come un’acqua sopra di me,

Grandi ondate d’aria solatia che baciano e battono

Con un piccolo rumore, monotono e dolce

Contro il finestrino — e il profumo di freschi,

Fragili fiori di qualche scuro stagno zuppo di rugiada

Mi possiede dalla testa assonnata ai piedi.

Questo è il tempo della piena sufficienza del riso

Contro le cose idiote che uno ha fatto,

E non c’è il passato neppure un vago futuro.

E tutto il tuo corpo si stira nel sole

E sorseggia la luce come una liquida cosa;

Pieno di languore divino della tarda primavera.


Before an Examination

The little letters dance across the page,

Flaunt and retire, and trick the tired eyes;

Sick of the strain, the glaring light, I rise

Yawning and stretching, full of empty rage

At the dull maunderings of a long dead sage,

Fling up the windows, fling aside his lies;

Choosing to breathe, not stifle and be wise,

And let the air pour in upon my cage.

The breeze blows cool and there are stars and stars

Beyond the dark, soft masses of the elms

That whisper things in windy tones and light.

They seem to wheel for dim, celestial wars;

And I — I hear the clash of silver helms

Ring icy-clear from the far deeps of night.


Prima di un esame

Le piccole lettere danzano attraverso la pagina,

Appaiono e scompaiono, e ingannano occhi stanchi;

Sfinito dallo sforzo, luce accecante, mi alzo

Sbadigliando e stirandomi, pieno di collera vuota

Al noioso farneticare di un sapiente morto da tempo,

Getto dalle finestre, getto via le sue fandonie;

Scegliendo di respirare, non soffocare per essere saggio,

E lascio l’aria versarsi sulla mia gabbia.

La brezza soffia fresca e ci sono stelle e stelle

Oltre il buio, soffici masse di olmi

Che bisbigliano cose in toni lievi e ventosi.

Sembrano spingersi per vaghe, celestiali guerre;

E io — io sento lo scontro di timoni d’argento

Tintinnare gelidi e chiari dalle lontane profondità della notte.



Dinner in a quick lunch room

Soup should be heralded with a mellow horn,

Blowing clear notes of gold against the stars;

Strange entrées with a jangle of glass bars

Fantastically alive with subtle scorn;

Fish, by a plopping, gurgling rush of waters,

Clear, vibrant waters, beautifully austere;

Roast, with a thunder of drums to stun the ear,

A screaming fife, a voice from ancient slaughters!

Over the salad let the woodwinds moan;

Then the green silence of many watercresses;

Dessert, a balalaika, strummed alone;

Coffee, a slow, low singing no passion stresses;

Such are my thoughts as — clang! crash! bang! — I brood

And gorge the sticky mess these fools call food!


Cena in una improvvisata sala da pranzo

La zuppa dovrebbe essere annunciata da un dolce corno,

Soffiando chiare note d’oro contro le stelle;

Bizzarri primi piatti da un tintinnio di lastre di vetro

Fantasticamente viventi di disprezzo sottile;

Pesci, dal tuffo borbottante di un impeto d’acqua,

Chiare, vibranti acque, meravigliosamente austere;

L’arrosto, da un rullo di tamburi per assordare l’orecchio,

Un piffero strillante, una voce da antiche macellazioni!

Sull’insalata si lasci il lamento degli strumenti a fiato;

Poi il verde silenzio di qualche crescione;

Dessert, una balalaika, strimpellata da sola;

Caffè, un lento, cantando sottovoce non di accentate passioni;

Così sono i miei pensieri come — clang! crash! bang! — Medito

E ingurgito la brodaglia appiccicosa che questi idioti chiamano cibo!



Nelly Sachs - Poesie

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Alcune poesie di Nelly Sachs (1891 - 1970), premio Nobel per la letterNelly Sachsatura nel 1966, di religione ebraica, amica di Paul Celan, anch'essa sfuggita in extremis ai campi di sterminio nazisti passando in Svezia con l'aiuto di  Selma Lagerlöf nel 1939. Ho scelto dei testi che parlano di quella tragedia senza tuttavia nominarne esplicitamente alcun riferimento, parlano di dolore e basta. Perché le memorie sono molte, spesso contraddittorie, e appartengono, devono appartenere a tutti. E tutte sono incastonate nel dolore, e il dolore è incastonato nella Storia. E poiché, come afferma Karl Popper, in realtà non c'è nessuna storia dell'umanità, c'è soltanto un numero illimitato di storie, così credo che ci sia un numero illimitato di memorie, moltissime delle quali atroci. Forse bisognerebbe istituire il Giorno delle Memorie, affinché si impari dalla Storia senza imparare troppo bene da essa, perché credo sia necessario operare, come recita il titolo di una poesia di Sachs qui non presente, "affinché  i perseguitati non divengano persecutori". In fondo la memoria è come la paura, è buona e utile se salva la tua vita, o quella di qualcun altro. Bisogna tentare di capirlo, oppure ammettere, come dice ancora Sachs, che il secolo passato è "un salice piangente chinato sull'incomprensibile". (g.c.)


da Nelle dimore della morte (1940-44)

Wer aber leerte den Sand aus euren Schuhen,
Als ihr zum Sterben aufstehen mußtet?
Den Sand, den Israel heimholte,
Seinen Wandersand?
Brennenden Sinaisand,
Mit den Kehlen von Nachtigallen vermischt,
Mit den Flügeln des Schmetterlings vermischt,
Mit dem Sehnsuchtsstaub der Schlangen vermischt,
Mit allem was abfiel von der Weisheit Salomos vermischt,
Mit dem Bitteren aus des Wermuts Geheimnis vermischt -

O ihr Finger,
Die ihr den Sand aus Totenschuhen leertet,
Morgen schon werdet ihr Staub sein
In den Schuhen Kommender!



Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe,
quando doveste alzarvi per morire?
La sabbia che Israele ha riportato,
la sabbia del suo esilio?
Sabbia rovente del Sinai,
mischiata a gole di usignoli,
mischiata ad ali di farfalla,
mischiata alla polvere inquieta dei serpenti,
mischiata a grani di salomonica sapienza,
mischiata all'amaro segreto dell'assenzio.

O dita,
che toglieste ai morti la sabbia dalle scarpe,
domani già sarete polvere
nelle scarpe di quelli che verranno!



Wenn ich nur wüßte,
Worauf dein letzter Blick ruhte.
War es ein Stein, der schon viele letzte Blicke
Getrunken hatte, bis sie in Blindheit
Auf den Blinden fielen?

Oder war es Erde,
Genug, um einen Schuh zu füllen,
Und schon schwarz geworden
Von soviel Abschied
Und von soviel Tod bereiten?

Oder war es dein letzter Weg,
Der dir das Lebewohl von alien Wegen brachte
Die du gegangen warst?

Eine Wasserlache, ein Stück spiegelndes Metall,
Vielleicht die Gürtelschnalle deines Feindes,
Oder irgend ein anderer, kleiner Wahrsager
Des Himmels?

Oder sandte dir diese Erde,
Die keinen ungeliebt von hinnen gehen läßt
Ein Vogelzeichen durch die Luft,
Erinnernd deine Seele, daß sie zuckte
In ihrem qualverbrannten Leib?



Se soltanto sapessi
cosa hai guardato sul punto di morire:
un sasso, che aveva già bevuto
molti sguardi estremi, un cieco sasso
meta di altri sguardi ciechi?

Oppure terra,
sufficiente a riempire una scarpa
e già annerita
da tanto addio
e tanta volontà omicida?

O era forse il tuo ultimo cammino
che ti portava il saluto di tutti i cammini
da te percorsi?

Una pozza d'acqua, un pezzo di metallo luccicante,
forse la fibbia addosso al tuo nemico,
o un altro presagio impercettibile
del cielo?

O forse questa terra
che non congeda nessuno senza amore
ti ha parlato col volo di un uccello
ricordando alla tua anima di quando palpitava
nel corpo riarso dai tormenti?


da E nessuno sa continuare

Das ist der Flüchtlinge Planetenstunde.
Das ist der Flüchtlinge reißende Flucht
in die Fallsucht, den Tod!

Das ist der Sternfall aus magischer Verhaftung
der Schwelle, des Herdes, des Brots.

Das ist der schwarze Apfel der Erkenntnis,
die Angst! Erloschene Liebessonne
die raucht! Das ist die Blume der Eile,
schweißbetropft ! Das sind die Jäger
aus Nichts, nur aus Flucht.

Das sind Gejagte, die ihre tödlichen Verstecke
in die Gräber tragen.

Das ist der Sand, erschrocken
mit Girlanden des Abschieds.
Das ist der Erde Vorstoß ins Freie,
ihr stockender Atem
in der Demut der Luft.




È l'ora planetaria dei fuggiaschi.
È la fuga travolgente dei fuggiaschi
nella vertigine, la morte!

È la caduta stellare dalla magica prigione
del focolare, del pane, della soglia.

È il frutto nero della conoscenza,
angoscia! Spento sole d'amore
in fumo ! È il fiore della fretta
stillante sudore! Sono i cacciatori
fatti di nulla, solo di fuga.

Sono i cacciati, che portano nelle tombe
i loro mortali nascondigli.

È la sabbia, atterrita,
con ghirlande di commiato.
È la terra che s'affaccia all'aperto,
il suo respiro mozzato
nell'umiltà dell'aria.



Hier und da ist die Laterne der Barmherzìgkeit
zu den Fischen zu stellen,
wo der Angelhaken geschluckt
oder das Ersticken geübt wird.

Dort ist das Gestirn der Qualen
erlösungsreif geworden.

Oder dahin,
wo Liebende sich wehe tun,
Liebende,
die doch immer nahe am Sterben sind.




Si metta una lanterna di misericordia
dove sono i pesci
qua e là, dove l'amo
viene inghiottito
o dove si pratica l'asfissia.

Là è matura ormai
per la redenzione
la stella dei tormenti.

Oppure là
dove gli amanti si fanno del male,
gli amanti,
che pure sono sempre vicini alla morte.



Wenn nicht dein Brunnen, Melusine,
aller Märchen zweiten Ausgang
im Herzeweh hätte,
längst wären wir
in die versteinte Auferstehung
einer Osterinsel eingegangen -

Aber wenn dein Echoangesicht,
mit der Müdigkeiten Akelei bestreut,
Sterben übt im Sabbatgold,
trinkt unser Blut Erinnerung
in einer Landschaft,
die schon da gewesen,
und in der schlummerleichten Vorgeburt
der Seele -




Se la tua fonte, Melusina,
non avesse nella pena del cuore
l'altra uscita di tutte le fiabe,
da tempo saremmo trapassati
nella impietrata resurrezione
di un'isola di Pasqua -

Ma quando il tuo sembiante di eco,
cosparso d'aquilege di stanchezza,
si esercita alla morte nell'oro del Sabbat,
il nostro sangue beve memoria
in un paese
che è già stato
e nel sopore prenatale
dell'anima -


da Fuga e metamorfosi

So rann ich aus dem Wort:

Ein Stück der Nacht
mit Armen ausgebreitet
nur eine Waage
Fluchten abzuwiegen
diese Sternenzeit
versenkt in Staub
mit den gesetzten Spuren.

Jetzt ist es spät.
Das Leichte geht aus mir
und auch das Schwere
die Schultern f ahren schon
wie Wolken fort
Arme und Hände
ohne Traggebärde.

Tiefdunkel ist des Heimwehs Farbe immer

so nimmt die Nacht
mich wieder in Besitz.




Grondai cosi dalla parola:

un frammento di notte
a braccia spalancate
una bilancia solo
per soppesare fughe
in questo tempo stellare
calata nella polvere
impressa d'orme.

È tardi ormai.
Ciò che è lieve mi lascia
e ciò che è greve
già vanno via le spalle
come nubi
braccia e mani
libere nel gesto.

Molto scuro è sempre il colore del ricordo

Mi riprende cosi
la notte in suo possesso.


da La morte festeggia ancora la vita

Aber unter dem Blätterdach
vollkommener Vereinsamung
die nur für sich alleine stirbt
wo jeder fremde Blick verscheidet
abstreifend alle Begegnungen
auch die der Liebe

bist du
mit vier Windgesichtern in die Fremde schauend
König über die Gefilde der Unberührbarkeit
eindeutig wie das Gebiß der Toten
das übrig blieb im Staubzerfall
und nur zum Kauen war gesetzt
in seinem Reich
das unterging -



Ma sotto il fogliame
di un assoluto isolamento
che muore solo per se stesso
dove si spegne ogni sguardo estraneo
rifiutando ogni incontro
anche d'amore

tu
che scruti nell'ignoto con i quattro volti del vento
sei re sui campi dell'intangibile
univoco come la dentatura dei morti
che ha resistito al disfacimento
e serviva solo a masticare
nel suo regno
tramontato -



Aber die Sonnenblume
entziindend die Wände
hebt vom Boden
die mit der Seele reden
im Dunkeln

schon Fackeln für eine andere Welt
mit Haaren wachsend bis über den Tod -

Und draußen Finkenschlag
und die Zeit in der Glorie gehend
farbig
und die Blume wachsend
dem Menschen ans Herz

Böses reift in die Kelter
schwarze Traube — verrufene —
schon gepreßt zum Wein -




Ma il girasole
accendendo le pareti
solleva dal suolo
quelli che discorrono con l'anima
nel buio -

fiaccole ormai per un altro mondo
coi capelli che crescono oltre la morte —

E, fuori, schiocchi di fringuelli
e il tempo che passa nell'aureola
multicolore
e il fiore che sale
al cuore dell'uomo

matura il male dentro i tini
l'uva nera - maledetta -
già pigiata per il vino.


da Enigmi roventi

Ich wasche meine Wäsche
Viel Sterben im Hemd singt
da und dort Kontrapunkt Tod
Die Verfolger haben ihn mit der Hypnose
eingefädelt
und der Stoff nimmt willig auf im Schlaf -



Lavo la mia roba
Nella camicia molte agonie
cantano qua e là contrappunto di morte
I persecutori l'hanno intessuta
con l'ipnosi
e la stoffa è docile nel sonno -



Die Fortlebenden haben die Zeit angefaßt
bis ihnen Goldstaub in den Händen blieb
Sie singen Sonne — Sonne —
Mitternacht das schwarze Auge
ist mit dem Totenlaken zugedeckt -



I sopravvissuti hanno afferrato il tempo
fino a trovarsi in mano polvere d'oro
Cantano il sole - il sole -
Mezzanotte occhio buio
dal sudario è coperta -



Ihr sprecht mit mir in der Nacht
aber abgekämpft wie alle Toten
habt ihr den letzten Buchstaben
und die Musik der Kehlen
der Erde hinterlassen
die Abschied durch alle Tonleitern singt
Aber im Flugsand eingebettet
höre ich Neues in der Gnade —




Con me parlate nella notte
ma come tutti i morti avete conquistato
l'ultima lettera dell'alfabeto
la musica delle vostre gole abbandonato
alla terra che canta addio in tutti i toni
Ma avvolta nel turbine di sabbia
sento che c'è del nuovo nella Grazia -



Dein Jahrhundert
eine Trauerweide
gebeugt über Unverständliches

Steine trugst du
gepflastert hast du
und wieder aufgerissen
Wundentaufe
und wieder trugst du
das war die Weise
die Tod befohlene
Marterweise -

Einen Punkt im Universum
hast du auf die Schulter geladen
darin Menschenrede
den Tag verschläft
und seelenfein
die Sonne ihr Gold verliert
in die Hand hast du den Stein genommen
der den inneren Tanz lebt
und die Nacht zu Staub zerfallen läßt
wo die namenlose Wanderung beginnt -




Il tuo secolo
un salice piangente
chinato sull'incomprensibile


Hai trasportato pietre
hai lastricato
e spalancato di nuovo
battesimale ferita
e di nuovo hai trasportato
era questo il canto
canto di martirio
comando di morte -

Un punto nell'universo
hai caricato sulle spalle
dove la parola umana
consuma il giorno nel sonno
etereo il sole
perde il suo oro
hai raccolto la pietra
che vive l'intima danza
e lasci che la notte si disfi in polvere
là dove inizia il cammino senza nome —

(Testi tratti da "Nelly Sachs - Poesie", Einaudi 1971, introduzione e traduzione di Ida Porena)


Ivano Mugnaini - Poesie inedite

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Ivano MugnainiAvevo già scritto qualcosa sul lavoro poetico di Ivano Mugnaini qualche anno fa (v. QUI) e in quelle note mi pareva di aver individuato alcuni tratti salienti del suo modo di vedere il mondo e la poesia. Ora mi manda qualche inedito che troverà collocazione in un suo prossimo lavoro dal titolo, penso definitivo, di "La creta indocile", e in questi testi io lo ritrovo. Ivano è un poeta solido, anche nel senso di una fedeltà a sé stesso e ad una tradizione però assimilata e "riscritta" in maniera del tutto personale, molto poco crepuscolare. E' fedele ad un mondo, alle sue manifestazioni sensibili, anche minime, e al significato che esse riverberano sulla vita, e nelle quali il tempo vissuto o "salvato" agisce da attore principale, anche in queste poesie. Un mondo niente affatto ristretto, per quanto Mugnaini sia con tutta evidenza un uomo di grande riservatezza, uno che tu immagini vivere e scrivere (non solo poesia ma anche bella prosa) al suo tavolo da lavoro in un piccolo paese della provincia lucchese. Non ristretto perché certamente  cultura e immaginazione, capacità di  lettura dei "segnali" e reinterpretazione dei medesimi, permettono a Ivano di addivenire ad una stesura del testo complessa e articolata di sfumature, ma assolutamente leggibile, anzi godibile perché parla con un linguaggio poco ellittico, che tende a portare il lettore, senza alcuna sentenziosità, dritto al centro della questione, a quella domanda esistenziale che è di tutti. Non c'è ragione di dubitare che la creta di cui dispone Ivano sia indocile, presenti qualche opposizione a lasciarsi modellare, poiché si tratta dell'essenza stessa della poesia, linguaggio espressivo quanto mai "costoso" (per dirla con Barthes) o dispendioso, se preferite, proprio in termini di comunicazione. Ma si percepisce nelle poesie di Ivano come una gratitudine verso questa indocilità, nei confronti della sfida che questo materiale poetico gli propone quotidianamente. Una gratitudine che alla fin fine è per la vita stessa, per gli incroci che essa presenta al poeta di giorno in giorno, tanto che sembra di percepire in questi testi addirittura, in una certa misura, un sentimento sottilmente religioso, il sentimento di un uomo che si trova in mezzo al creato ma non lo domina, forse non lo considera un dono su cui l'uomo ha una biblica primazia, cerca solo di capirlo. Un cielo trascorso da nuvole che diventa innesco e fondale di ricordi; il ritrarsi, anche con un certo orgoglio, dal "sentire comune" proprio per abbracciare idealmente il mondo, per comprenderlo; il gettare uno sguardo anche ironico sugli altri, sui compagni di un viaggio che è anche metaforico, su una realtà che può apparire periferica, e che non è solo fisica ma costituisce anche un'enclave psicologica e un ethos. Sono alcuni dei temi di queste poesie, che nel loro insieme delineano un'area ideale in cui Ivano si riconosce e si muove come autore agevolmente, in cui il tempo, quello salvato, quello dei ricordi o quello delle parcelle di vita che Ivano si annota, sembra benevolmente rallentare, indugiare quel tanto che basta a farsi cogliere, a farsi vivere pienamente. (g.c.)


Il compito, il segreto

   Latte di nuvole, lassù, candido
come i denti di mio padre, nel cielo
dell'estate del cinquantatre.
Guardava sorridendo le gambe sode
delle ragazze sotto le gonne ampie
a fiori, freschi, accesi, come i sogni
di quell'Italia misera e felice.
   Sfidava sereno, mio padre, il potere
e la gerarchia: lo rivedo ancora, nella foto
in bianco e nero scattata durante la sua naja:
senza berretto, con uno sguardo limpido;
lui, basso di statura, sovrastava
i commilitoni con la forza
dell'allegria.
   Diverso oggi è il grado, il tono,
il colore del cobalto: la paura, gli occhi
straniti di questo tempo fugace, tanto rapido
da sfrecciare via, lontano dal suo stesso cuore.
   Ma forse è proprio questo il compito, il segreto:
ritrovare a poco a poco il coraggio di guardare
il sole, venendo a patti con l'orrore e la sete,
la pioggia e la terra riarsa.
   La salvezza è nel riso rubato alla ragione:
restare nella luce diretta senza berretto,
senza timore, lasciando che il sole
entri negli occhi e nella mente a petto nudo,
respirando a pieni polmoni, come un cigno,
un pazzo, un bambino che urla, o forse canta,
a squarciagola, prima ancora
di saper parlare.




Il corpo del mondo

   Nell'angolo più cupo della notte,
sparisco al sentire comune, al groviglio
che fa di me me stesso, al ponte sconnesso
tra ciò che immagino e ciò che sono.
Non un suono, un gesto: buio nel buio,
sonar di pipistrelli appesi alla muffa
dei secoli. Notte nella notte, carne
della sua carne.
Non mi odia, non mi respinge;
se solo potessi vederla,  scoprirei
un sorriso. Sulle labbra scure
il colore di un bacio.
   Mi lascia fiato nella gola per pensare all'aria,
ad una voglia tenace. Questa zona d'ombra
copre il mio mondo: imparo a non separare
noi esseri carichi di violenza dal cielo dove
turbinano i nostri desideri.
   Nell'istante in cui stringo tra le mani
una pietra consunta e l'orizzonte
sogno di soffocarmi di vento
stringendo forte il corpo del mondo.




Amare l'inverno

      Amare l'inverno, il gelo, la forma
nuda, la figura velata, la paura,
la gioia ineffabile.
      Uno squarcio di luce mi lacera ancora.
Non è pena il tepore, percorre dolce la pelle.
La testa si alza verso la parete, lancette
ad angolo, croce senza morte. Attendo
volti umani, mentre la pioggia sui vetri
cola nel lilla degli abiti, scarpe,
unghie vermiglie, piedi incuranti
del fango.
     Perso nel dilemma, il cuore finge
di dormire. In realtà balla, danza
sul marcio che c'è in Danimarca
e nel mondo, contento del suo essere
folle nel profondo, senza smettere
di cercare la strada sbagliata,  
il verso, la carezza di tempo sognato
preferita all'impero del vero.




Amazzonia

  Ti parlo in una lingua inventata. La parola
sfiora gabbiani. Ci separano oceani,
gocce salate come i miei troppi anni.
  Ho estratto dai tuoi alberi succo e linfa
per il mio corpo, per il mio continente
malato, qui, nell'aria stantia
il profumo del tuo fiore assetato.
   Mi sono insinuato nella tua corteccia
pur sapendo di non conoscere l'ora
del tuo mondo, il tuo tepore.
   Non ci incontreremo: non mi muoverò
verso di te.  Io che considero lontana
perfino la città dove vivo da secoli, le mura
della mia tortura familiare.
  Ho creduto di depredare il tuo verde e il tuo oro.
In realtà, la Storia lo insegna, alla fine perde solo
l'invasore. Ora riesco a sperare nella tua rivolta,
la tua rivoluzione.
   Nel silenzio che verrà, conserverò una goccia,
stilla impossibile da asciugare.
   L'unguento cura la pazzia, la genera, la nutre.
L'illusione è che forse, davvero, esiste
l'Amazzonia al di là del mare.
  Sorrido, adesso, pensandoti.
  Il battito del cuore anela una rima amara
e nuova, ferita ancora viva.




Il non amore

Forse proprio quando comprendi meno
scorgi una chiave, ed è consolazione
sapere che niente si apre, nessuno
squarcio di luce; di nuovo tace il corpo
e solo il tempo si muove assieme al sangue
intravisto in fotogrammi ingurgitati
assieme a un piatto di cibo che scordi
prima di averlo metabolizzato.
Tra foga e sgomento, fame e apatia,
diventi silenzio che strozza senza rabbia
la parola, passato che non sai scacciare.
E perdi il senso dello sguardo, la mano,
il sudore, la voce che si insinua nella gabbia
e la frantuma, bocca spalancata, schiuma
di folle che sa bene quanto sia amaro
il non amore.




Non sarò

Sono nato con piedi da morto.
C'è chi guizza fuori sorridente
e pettinato con sguardo da wind surf
o da ballerino di salsa e flamenco.
Io avrei fatto la gioia
di Mantegna, piedi tozzi e ossuti
fermi sul bordo del letto
orientati soltanto
al ricongiungimento
con un punto in cui
non sono stato
e in cui, tornando ad esserci,
non sarò.




Su questo treno in corsa

  Su questo treno in corsa
pieno di vita, tra bambini
ipervitaminizzati in costante
sbraitata lallazione e giovani
melaninici belli e giusti
con occhiali da sole e magliette
approvate da Donna Moderna
nella foto di copertina,
io
sorrido, strafatto
di serotonina e sonno arretrato,
e penso
senza riuscire a disintossicarmi
da questo inveterato vizio assurdo
che se vedessero
le mie ginocchia
sotto i pantaloni larghi e spessi
di velluto marrone scuro
riderebbero più forte,
oppure smetterebbero per un istante
come di fronte al mistero
del tempo:
chilometro dopo chilometro
lo stesso cielo
ride o grida
voragini di pioggia
a prescindere
dalle rotaie.

Ivano Mugnaini, nato a Viareggio, si è laureato a Pisa con una tesi sul teatro rinascimentale. È autore di romanzi, racconti, poesia e saggistica. Scrive per alcune riviste tra cui “Nuova Prosa”, “Gradiva”, “Il Grandevetro”, “Italian Poetry Review”, “Doppiozero”, “L’ Immaginazione”. Collabora con case editrici in qualità di redattore e curatore di recensioni ed editing. Cura il blog letterario “DEDALUS: corsi, testi e contesti di volo letterario”,www.ivanomugnainidedalus.wordpress.com e il sito www.ivanomugnaini.it .Nelle rubriche “L’ombra del vero” e "Panorami congeniali" sul sito della Bompiani RCS, www.bompiani.rcslibri.it/speakerscorner , ha proposto suoi racconti e “rivisitazioni” in forma di racconto di film e classici letterari. Suoi testi sono stati letti e commentati più volte in trasmissioni radiofoniche di Rai – Radiouno e da alcune televisioni regionali e nazionali. Ha collaborato come autore di lavori creativi, note e recensioni, con diverse associazioni culturali, tra cui l’Associazione “AstrolabioCultura” di Pisa, diretta da Valeria Serofilli. Ha presentato sue prose e liriche all’interno di manifestazioni e rassegne artistico-letterarie tra cui “Versinguerra” e “Bunker Poetico” , e brani letterari abbinati ad opere artistiche all’interno della Biennale d’Arte di Venezia. Ha pubblicato le raccolte di racconti LA CASA GIALLA e L'ALGEBRA DELLA VITA, i romanzi IL MIELE DEI SERVI e LIMBO MINORE e i libri di poesie CONTROTEMPO, INADEGUATO ALL'ETERNO e IL TEMPO SALVATO. Il suo racconto DESAPARECIDOS è stato pubblicato da Marsilio e il suo racconto lungo UN’ALBA è stato pubblicato da Marcos Y Marcos. Di recente pubblicazione i romanzi IL SANGUE DEI SOGNI e LO SPECCHIO DI LEONARDO. Tra i critici e scrittori che si sono occupati della sua attività letteraria: Vincenzo Consolo, Gina Lagorio, Roberto Pazzi, Giorgio Bàrberi Squarotti, Alberto Bevilacqua, Luigi Fontanella, Paolo Maurensig, Elio Pecora, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Saviane, Walter Mauro e altri.


Juan Larrea - poesie da Versione celeste

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Alcune poesie di Juan juan larreaLarrea (1895-1980),  tratte dal libro "Versione celeste", pubblicato in Italia da Einaudi nel 1969, conla traduzione e cura di Vittorio Bodini (1914-1970), forse il massimo interprete della letteratura spagnola, soprattutto barocca e surrealista. Serve sottolineare  innanzitutto che questa edizione costituisce la prima mondiale della pubblicazione dell'opera poetica di Larrea. Il poeta è stato uno dei nomi più nascosti (tanto che per un po'è stato creduto un eteronimo dell'amico poeta Gerardo Diego) della poesia del Novecento, non solo iberica, che Bodini aveva già preso in esame nel suo importante testo "I poeti surrealisti spagnoli", pubblicato nel 1957 sempre per Einaudi, definendolo "il padre misconosciuto del  surrealismo spagnolo".  In realtà Larrea è un surrealista sui generis, perché pur appartenendo alla cosiddettagenerazione del '27. di cui l'avanguardia è componente rilevante, se ne è tenuto appartato, ed è semmai con la sua permanenza a Parigi (dove insieme all'amico César Vallejo conosce e frequenta Eluard, Tzara, Aragon, Desnos ed altri)  che entra in contatto con il surrealismo militante. E tuttavia, come scrive lui stesso, "del movimento ho utilizzato solo quelle tendenze che mi erano affini, ma non mi compromisi mai con esso. Anelavo anch'io a trasferirmi in un'altra realtà, ma in maniera differente". In realtà, mentre altri lo annettono ai cosiddetti "creazionisti" o agli "ultraisti", è proprio Bodini a volerlo includere nella categoria del surrealismo, pur ammettendo implicitamente che quello di Larrea è un linguaggio tipico e personale, tanto che "il suo generico debito verso Tzara non è maggiore di  quello di ogni altro surrealista francese e europeo". L'acquisto principale di Larrea in Francia è invece la lingua in cui sono scritte molte delle poesie originali del libro, il francese "che è la lingua franca della rivolta, il segno linguistico della categoria del surreale che si fa linguaggio internazionale della comunità dei poeti, data la sottonazionalità dell'inconscio collettivo. Ciò che egli cerca è l'estensione dell'io sino ad includere i più remoti angoli dell'universo, l'annessione dell'altra faccia della vita, sogno e inconscio, la dislocazione di sé, la moltiplicazione del reale in ipotesi" (Bodini). Ed è lo stesso Larrea ad affermare: "Non invano avevo iniziato a svincolarmi dalla Spagna degli anni '20, fino ad arrivare a comporre i miei testi poetici in francese. Mi ero estraniato dalla poetica peninsulare, come fecero ugualmente nel loro campo i pittori". Come scrive ancora Bodini, "Larrea attinge dal subliminale materiali psichici junghiani carichi di retroscena, di vicende stregate e amabili, che ci seducono senza conoscerle, ma fra cui nondimeno s'affaccia con una qualche costanza una serie di cieli capovolti, di un cosmo ribaltato, ma senza degradazione, con pazienza, nel fondo dell'individuo, intrecciato ai suoi fili, alle sue relazioni più personali". Da questi materiali Larrea trae una scrittura che affascina e stimola, nella quale "i sostantivi nascono simultaneamente coi loro sorprendenti predicati, e questo è già il segno d'un poeta di razza. Ma i predicati sono azioni o relazioni fra le cose: la fittissima rete che vengono a istituire fra di esse fa sì che l'universo di Larrea, unitario e sensibile, si risponda da una parte all'altra, pronto a registrare fino alle più insospettate lontananze il più piccolo evento o la più piccola coincidenza che si verifichi in qualsiasi punto di esso", dice inoltre Bodini. Che aggiunge: "ribadiamo la convinzione che ciò che conta nella sua fabbrica poetica non siano gli oggetti ma le relazioni che si vengono a creare fra di essi e fra essi e il poeta, la equidistanza che egli riesce a mantenere, il suo andare e venire fra il cuore e il cosmo nella loro più rigorosa oggettivazione". Se il testo può apparire difficile (ma mai artefatto o "falso") quindi è perché, mi sento di aggiungere, il poeta osa operare "tale prodigiosa dislocazione" di sé, delle relazioni, del linguaggio. Basterebbe questo per restituirgli il posto che merita nella poesia del Novecento, non solo spagnola. (g.c)


Motivo

Sequenza di nomi eloquenti tendenti a splendore, poesia
è questo
             questo
                        e questo
E ciò che giunge a me in qualità di innocenza oggi
che esiste
               perché esisto
                                    e perché il mondo esiste
e perché tutti e tre possiamo correttamente cessar di esistere.




Nella nebbia

Nella nebbia razza della nostra razza domicilio
della mancanza di convinzione dei nostri fantasmi
dai gendarmi fino alle ipotesi più azzardate
fino ai mandorli costretti a presagire il futuro della nostra Europa
la nostra Europa e quella dei diplomatici
che subordinano i fiori alle segrete inclinazioni della nostra pelle
serbando un equilibrio esente da oziosità
occidente bell'occidente
prima che il sole trovi la maschera che cerca
fra i rami e che già si china a raccogliere

L'uomo è la più bella conquista dell'aria




Sotto le allusioni

Si prenderebbe la luce per una animosità
applicata a un altro oggetto più duro d'una colomba
l'ala vi innalza gli sguardi per timore dei nostri occhi
ogni occhio dispone la luce nel suo desiderio di piacere

A giudicare dal numero delle foglie l'albero è assai confuso
l'ombra sulla sua fragilità il verde nell'aria
quando noi ci squadriamo ci sorveglia severo
non pretendiamo da esso ciò che non si può più capire




Un debole per la luce

La notte cade in abbondanza

Riflettiamo dunque come uccelli di lentezza
pian piano come piumini sui mobili del silenzio

Com'è bella la tua maniera di seguire l'esempio dei fiumi
fra le perdite del cielo e l'egoismo delle isole

La tua palpebra non è ancora all'altezza dello snodarsi delle acque
ma non fa nulla

Supponiamo una chiesa circondata da turisti
ora che il tuo occhio si rattrista
e che un brivido inabissa l'angelo disciolto nell'acqua benedetta
per meglio dire al Signore
Signore
assoldaci come manichini delle tue lacrime
noi i tuoi piccoli funzionari
adoriamo i cioccolatini e la marmellata d'incanti
noi saremo i tuoi pennuti da cortile tutti i giorni a quest'ora
perché i tuoi angeli son morti morti morti
come soffitte senza ragni né gridi




Benché nel timore

In fondo queste donne necessarie del freddo
queste donne senza ricordi al di là delle betulle
impallidiscono senza sapere perché

Invece il cielo è malato d'ardesia
e i suoi capelli cadono come pozzi di miniera

Il cielo il cielo ingegnere amico mio
tu costruirai un veliero col soffio che mi anima
perché l'orologio fa il dragaggio delle nostre noie
e il suo cerchio diventa la nostra corona spesso di spine

Sull'orizzonte di cieco che l'ora bagnata tasta
i piccioni si comportano come riserve mentali
che impiegano fino alla fine la mano d'opera dell'autunno

Benché la sera faccia delle vittime
se tu non hai paura dell'usura dei mari
vieni con le tue palpebre gonfie di un'aria familiare
vieni a aprirti come gli autori di lettere anonime

Sole sole delle cime




Sedia Felicità

La caduta dei vostri capelli è l'angelo che mi fa eterno signora
ma ogni giorno ci serve un'ala di orizzonte possibile
sul vasellame che rompe il vostro riso
sopra il fondo instancabile del vostro carattere

Il ventaglio installato nella vostra aria di famiglia
trattiene il fiato e il vostro viso si mostra
fuori fa freddo tutte le pietre sono orfane
tutti i pugni ben chiusi tutte le ceneri in guardia
ogni goccia di sole testimonia una volontà contraria a onorare i vostri debiti

Parzialmente seduto su un filone d'anima non oso
muovermi per paura che cielo e terra facciano stridere i cardini della nostra vita privata
se vi guardo la notte deposita un salice sulla pianura dei sospiri
se m'addormento il vento apre l'armadio della mia spalla
e lascia fuggire le ali della verdura




Riva su cui cominciano le congetture

Serbo il silenzio come una carta d'Oceania
Le tue lettere di calore mi giungono senza far rumore
Ho tanto viaggiato che i miei occhi hanno la pesantezza dei frutti

L'orizzonte apre la mano e qualche bellezza s'invola
moneta moneta in sandali di palpebra frivola
che brilla e si logora un po' dappertutto

Signore di quarant'anni che cosa vede?

Io son l'esploratore
che un vento d'autunno mette in gabbia
Vi interpreto brani di vento e di nuvole
impolverati come bottiglie di carattere sognatore

Io vezzeggio la pioggia che attacca tante ali al tuo passaggio
e il giorno che ti segue più fedele d'un tatuaggio

Nell'interno degli esseri ci sono molti viali
che conducono alla stessa stella di mare fluttuante
dove l'esperienza svende i suoi tesori a prezzo d'acquisto

Le vele dell'amarezza si gonfiano ma ci resta ancora una sferza di vento
per farne una scultura ben orientata

La luna or ora amata
in silenzio
in silenzio di garofani

Bel marmo oppresso d'un tempo

La terra immerge gli occhi sino all'origine degli alberi
ma io ti scordo nella direzione del vento




In abito da foglie morte

Sognami sognami in fretta stella di terra
coltivata dalle mie palpebre afferrami per le mie anse d'ombra
stregami d'ali di marmo in fiamme stella stella nelle mie ceneri

Potere poter trovare infine nella mia vertigine la statua
di un eroe di sole i piedi a fior d'acqua
gli occhi a fiore d'inverno

Addio mondo tra i miei sogni d'addio
uomini
addio uomini e piccoli villaggi delle loro mani

Vi son dunque spade che mi tagliano
a pezzi
oh
cateratte di spade

Cateratte di spade è l'ordine in marcia
sono io che cammino su delle caverne
scricchiolanti come crani

Nessuno s'era ancora annegato

Nessuno era un tempo nell'ombra

Oggi sono io ma io non m'ap-
partengo più di quanto gli uc-
celli che dormono nei
miei occhi non appartengano loro




Ciò che manca a una chitarra per imputridire a suo agio

L'aria di saper chiudere gli occhi
senza sciupare ciò che ci si attende dall'aria
come la tua voce
come la mia voce

Le tigri della nostra pelle son striate d'acqua di vetro
esse saltano senza disfare le curve dei nostri fianchi
esse aggrediscono i lampi della nostra anatomia

I lingotti concernenti l'illusione son là
trovano lunghi i ruscelli dove l'oro dell'alba è piuttosto raro

Son le otto di sera
fa freddo di ferite chiuse in fretta
fa nero
il cuore non è ammesso
a assaggiare le lampade bollite nell'acqua della nostra vita

Son le otto di sera i castagni s'addormentano su una gamba sola
come i tulipani nelle bandiere della semicroma
il cielo non sa altra musica che quella che si scrive in lacrime
si ricamano delle rondini sulle nostre pupille
l'ombra ha preso il posto delle nostre dita
poiché non chiede altro che d'esser sincera
confida i suoi segreti alla calma delle nostre voci

Ma la chitarra infelice se ne sta sempre là
rigida nel suo astuccio
tutta muta




Un colore lo chiamava JuanAlla memoria di Juan Gris

Benediciamo il confort delle formiche regolari
e la notte più triste della carta assorbente
dopo la morte delle parole
ora che il silenzio si fa dolcemente festino d'uccello
nel grano capriccio d'un carcere in fiore

Noi ruscelli interiori siam tutti accorsi
a placare questo mulino d'individuo
unico convitato che ci resti
di colui che è partito verso l'inverno senza una scusa
Su un dolore di prateria antica
le formiche trascinano le nostre lacrime da est a ovest

Se ne andò per trasparenza come le vaghe promesse
di un fiume un po' banale
Faceva un caldo da eroe e il tempo era pallido

Con un minimo di delicatezza e l'insonnia delle piogge
che fa di seta il riflesso delle cattedrali
buchiamo la spugna delle nostre preghiere
per cancellare il giuramento di luna intessuto di larve
dove i suoi occhi ammobiliarono la speranza di correnti d'aria

Perché egli ci lasciò la sua tristezza
seduta sull'orlo del cielo come un angelo obeso




Natura morta

Il prezzo del tuo silenzio
e l'aureola dei lastrici
il giorno ridotto alla tua mano
la mano ridotta al suo incalzante inverno

l'uscita lascia morire i suoi merli
essi lasciano cadere una carne bluastra
come gli occhi che seguono lentamente
fuori del dominio dell'oro le tue gambe che risplendono

tutto l'imprevisto nel lampo d'un coltello
tutto l'orizzonte nell'attesa d'un soprassalto
tutti i segreti tutti i rimpianti in una stella




Bocconi

I giganti della neve i pesanti lingotti saturi d'abissi
i torsi delle campane sotto il peso di un antico messaggio
colui che semina la discordia
colei che aguzza gli occhi sulla scorza della mia vita
a turno strisciano
strisciano prendendo a prestito la mimica dell'amore

Tuttavia una preghiera a mani giunte come il diritto
e il rovescio di un adorabile insetto
si offre alle labbra di questa luce che confessa lo spazio
di questa luce così frugale che rispetta le proprietà delle pietre
e passa sui baci di ogni fragile recinto

Cosí i giusti voltano le spalle alle rive dell'amore
lasciando alla loro natura ciò che lascia la sera ai suoi addii
un sangue pronto a zampillare incontro alle montagne
perché non concepiscono che dei versanti all'origine delle ali
perché dalle loro palpebre rivangano la loro povera solitudine

Veglia in cui tutto è permesso eccetto una mancanza di pudore
la linea dell'orizzonte intorno ai reni




Verità capitale

Per ala una concessione all'ombra
un gusto contrassegnato coi rischi al sole
una vita corta
una riserva prudente

Alla scuola dei vinti la fuliggine imbandiera le sue finestre
il rosaio che ti ignora ha qui poco posto
le contingenze si accalcano alla porta come mendicanti
l'errore si regola sul loro volume

L'uragano s'indebolisce nell'attesa
                                                        La mia




Schegge di ghiaccio

Il tesoro d'essere due la memoria intrinseca
dei costumi d'un tempo oscillanti sulla tua superficie
eccettuato il diamante è solo ai tuoi occhi che si ritrova
l'epoca in cui il cielo non era affatto la più piccola delle mie prove

Angelica splendente le tempie sotto sigillo
le forme dell'avvenire vi coronano i loro tranelli
oh gli idoli disfatti dal prisma tanto amato
oh le nuvole sospese del tale o del tal altro scambio di bocca

Sera d'autunno che convoglia tetti riflessi d'ospite
e mani di calore giustamente senza domani
quando io voglio amarti non riesco che a sognare
che sono morto roso da lacrime splendide




Al bel relitto

Sotto un bosco di lauri tutto un mare di orecchi
ringuaina l'illecito ardore dei giuramenti estivi
le lacrime s'arrampicano impazzite ai cordami
e tutta una notte d'uomo si accalca e ci osserva
senza che ai nostri piedi d'amore l'erba spunti illeggibile

Finestre disseccate lasciando parlare la ruggine
al di là di gioielli di una spenta compiacenza
si conta su una caduta di lucchetti come se un coltello anonimo
tagliasse in due la ragione di vivere al di fuori della nebbia

Profondità del disordine la luce incatrama
il cuore che vettovaglia i suoi rischi più urgenti
illeggibile come la tua gloria dietro una smorfia d'ebano
la mia gloria perde nei loro occhi la parte più chiara del suo tempo




Punto di riferimento

No alla sabbia e alla sua cedevolezza
no ai piedi troppo pronti a inseguire
no a un tetto più caldo di un altro
no alla notte forata dietro l'orecchio
no ai sassi eroici agli strati di polvere
no ai richiami dell'oro snaturato dei dubbi
no agli addii alle menzogne ai perdoni
a tutto ciò che non serve per garantirmi
che tu ed io non siamo mai esistiti




Pluralità di madri

Esco dai tuoi occhi levigato come un soldato fantasma
in rondini appoggiate contro muri riottosi
sta ora a te gridare
spetta alle tue ossa di eclissarsi
alla tua voce di chiedere
sono io che cammino o è l'abitudine che rientra
nel mio modo di veder spegnersi le stelle

La tua pioggia che avrebbe cambiato il tuo angelo guardiano in un buon reggiseno
si attacca alla tua radice - spunta un garofano -
l'alba disarciona i tuoi occhi - il garofano che spunta
s'inerpica e s'installa nel cuore di un combattimento -
la sera trova le tue meraviglie dove l'uomo le ha messe
si dice ecco ecco
dove l'hanno portata le sue lacrime

Figlia-faro perduta nell 'ondeggiare delle razze
d'ignoranza e di morte gli stessi che ha salvato la tua disfatta
ti tastano dormendo tutti i cantieri ne son pieni
pluralità di madri mia figlia di sempre mia figlia




Fecondazione immortale

Noi andremmo con tutte le articolazioni illuminate
come i vetri d'una città con dei dolcissimi piedi di ostia
noi andremmo senza esser chiamati a generare il disordine
coi tuoi vuoti coi tuoi fuochi con le tue serrature d'ombra
con le schiarite tosate a chiuderci tutte le porte
i tuoi atouts puri piedi
noi andremmo fermandoci a ogni gradino dei tuoi occhi

le mani nelle tasche segrete della cenere
razzi nel cielo decaduto le vostre rovine sempre infilate alle dita
finché almeno una pietra non abbia ritrovato i suoi limiti
e l'assenza rigonfi la scintilla del tuo corpo

Nuda le pianure ti svestono ancora
nuda tu mostri il cammino senza vendetta


***


Razón

Sucesión de sonidos elocuentes movidos a resplandor, poema
es esto
           y esto
                     y esto
Y esto que llega a mí en calidad de inocencia hoy,
que existe
                porque existo
                                      y porque el mundo existe
y porque los tres podemos dejar correctamente de existir.




En la niebla

En la niebla raza de nuestra raza domicilio
de las faltas de convicción de nuestros fantasmas
desde los gendarmes hasta las hipótesis más atrevidas
hasta los almendros obligados a presagiar el porvenir de nuestra Europa
la nuestra la de los diplomáticos
que subordinan las flores a las secretas inclinaciones de nuestra piel
guardando un equilibrio exento de ociosidad
occidente bello occidente
antes que el sol encuentre la máscara que busca
entre las ramas y que ya se inclina a recoger

El hombre es la más bella conquista del aire




Sous les allusions

On prendrait la lumière pour une animosité
appliquée à un autre objet plus dur qu'une colombe
l'aile y élève les regards dans la crainte de nos yeux
chaque oeil range la lumière dans son désir de plaire

Si l'on juge par le nombre des feuilles l'arbre est fort confus
l'ombre sur sa faiblesse le vert dans l'air
quand nous nous dévisageons sévère il nous surveille
n'exigeons pas de lui ce qu'on ne peut plus comprendre




Un faible pour la lumière

La nuit tombe en abondance

Réflechissons donc en oiseaux de lenteur
doucement comme des plumeaux sur les meubles du silence

Tu as la plus belle façon de suivre l'exemple des fleuves
entre les pertes du ciel et l'égoïsme des îles

Ta paupière n'est pas encore à la hauteur du dénouement des eaux
mais ça ne fait rien

Suposons une église entourée de touristes
maintenant que ton oeil s'attriste
et qu'un frison abîme l'ange dissous dans l'eau bénie
pour mieux dire au Seigneur
Seigneur
embauche nous comme mannequins de tes larmes
nous tes petits fonctionnaires
nous aimons les bonbons et la compote de charmes
nous serons ta volaille tous les jours a cette heure
puisque tes anges sont morts morts morts
comme des mansardes sans araignées et sans cris




Quoique dans la crainte

Au fond ces femmes nécessaires du froid
ces femmes sans souvenirs au delà des bouleaux
pâlissent sans savoir pourquoi

Le ciel par contre est malade d'ardoises
et ses cheveux tombent comme des puits de mine

Le ciel le ciel ingénieur mon ami
tu construiras un voilier du souffle qui m'anime
puisque l'horloge fait le dragage de nos ennuis
et que son cercle devient notre couronne souvent d'épines

Sur l'horizon d'aveugle que l'heure mouillée tâtonne
les pigeons se conduisent comme des arrière-pensées
employant jusqu'au bout la main d'oeuvre de l'automne

Bien que le soir fasse des victimes
si tu ne crains l'usure des mers
viens tes paupières gonflées d'un air familier
viens t'épanouir comme les auteurs de lettres anonymes

Soleil soleil des cimes




Chaise Bonheur

La chute de vos cheveux est l'ange qui m'éternise madame
mais chaque jour nous sert une aile d'horizon possible
dans la vaisselle que casse votre rire
sur l'inlassable fond de votre caractère

L'éventail installé dans votre air de famille
retient son souffle et votre figure s'étale
dehors il fait froid toutes les pierres sont orphelines
tous les poings très fermés toutes les cendres aux écoutes
chaque goutte de soleil témoigne d'une volonté contraire à honorer vos dettes

Partiellement assis sur un filon d'âme je n'ose
bouger de peur que ciel et terre ne grincent les gonds de notre vie privée
si je vous regarde la nuit dépose un saule dans la plaine des soupirs
si je m'endors le vent ouvre le placard de mon dos
et laisse fuir les ailes de la verdure




Rivage où commencent les conjectures

J'entretiens le silence comme une carte d'Océanie
Tes lettres de chaleur m'arrivent sans faire de bruit
J'ai tant voyagé que mes yeux ont la pesanteur des fruits

L'horizon ouvre sa main et quelque beauté s'envole
monnaie monnaie en sandales de paupière frivole
qui luit et s'use un peu partout

Monsieur de quarante ans que voyez vous ?

Je suis l'explorateur
qu'un vent d'automne met en cage
j'y interprète des morceaux de ciel et de nuages
poussiéreux comme des bouteilles d'un caractère rêveur

Je dorlote la pluie qui attache tant d'aile à ton passage
et le jour qui te suit plus fidèle qu'un tatouage

A l'intérieur des êtres il y a nombre d'avenues
aboutissant à la même étoile de mer battue
par où l'expérience écoule ses trésors prix coûtant

Les voiles de l'amertume se gonflent mais il nous reste encore un fouet de vent
pour en faire une sculpture bien orientée

La lune vient d'être aimée
en silence
en silence d'oeuillets

Beau marbre opprimé d'antan

La terre plonge ses yeux dans l'origine des arbres
et je t'oublie suivant la direction du vent




En costume de feuilles mortes

Rêve-moi rêve-moi en hâte étoile de terre
cultivée par mes paupières prends-moi par mes anses d'ombre
affole-moi d'ailes de marbre en feu étoile étoile parmi mes cendres

Pouvoir pouvoir enfin trouver dans mon vertige la statue
d'un héros de soleil les pieds à fleur d'eau
les yeux à fleur d'hiver

Adieu le monde entre mes rêves d'adieu
les hommes
adieu les hommes et les petits villages de leurs mains

Il y a partout des épées qui me coupent
en morceaux
oh
cataractes d'épées

Cataractes d'épées c'est l'ordre en marche
c'est moi qui marche sur des cavernes
craquantes comme des crânes

Personne ne s'était encore noyé

Personne n'était jadis dans l'ombre

Aujourd'hui c'est moi mais moi ne m'ap-
partiens pas plus que les oi-
seaux qui dorment dans mes
yeux ne leur appartiennent




Ce qui manque à une guitare pour pourrir à l'aise

L'air de savoir fermer les yeux
sans abîmer ce qu'on attend de l'air
comme ta voix
comme ma voix

Les tigres de nos peaux sont rayés d'eau de vitre
ils bondissent sans défaire les courbes de nos hanches
ils s'attachent aux éclairs de notre anatomie

Les lingots inhérents à l'illusion sont là
trouvant longs les ruisseaux où l'or de l'aube est plutôt rare

Huit heures du soir
il fait froid de blessures fermées en hâte
il fait noir
le coeur n'est pas admis
à déguster les lampes bouillies dans l'eau de notre vie

Huit heures du soir les marroniers s'endorment sur une seule jambe
comme les tulipes dans les drapeaux des double croches
le ciel ne sait d'autre musique que celle qui se note en larmes
on brode des hirondelles sur nos paupières
l'ombre a pris la place de nos doigts
comme elle ne demande qu'à être sincère
elle confie ses secrets à l'assurance de nos voix

Mais la guitare malheureuse se tient toujours là
raide dans sa boite
toute coite




Une couleur l'appelait Juan  À la mémoire de Juan Gris

Bénissons le confort des fourmis regulières
et la nuit encore plus triste que le papier buvard
après la mort des mots
maintenant que le silence devient doucement festin d'oiseau
entre les blés caprice d'une prison fleurie

Les ruisseaux intérieurs tous nous sommes accourus
soulager ce moulin à individu
seul convive qui nous reste
de celui qui est parti vers l'hiver sans prétexte
Sur une douleur d'ancienne prairie
les fourmis traînent nos larmes de l'est à l'ouest

Il s'en alla par transparence comme les vagues promesses
d'une rivière plutôt banale
Il faisait chaud de héros mais le temps était pâle

Avec un brin de délicatesse et l'insomnie des pluies
qui tourne à soie le reflet des cathédrales
trouons l'éponge de nos prières
pour effacer le serment de lune tissé de vers
où ses yeux meublèrent l'espoir de courants d'air

Puisqu'il nous laissa sa tristesse
assise au bord du ciel comme un ange obèse




Nature morte

Le prix de ton silence
et l'auréole des dalles
le jour réduit à ta main
la main réduite à son préssant hiver

l'issue laisse mourir ses merles
ils lâchent une chair bleuâtre
comme les yeux qui suivent lentement
hors le domaine de l'or tes jambes qui rayonnent

tout l'imprévu dans l'éclair d'un couteau
tout l'horizon dans l'attente d'un sursaut
tous les secrets tous les regrets dans une étoile




À plat ventre

Les géants de la neige les lourds lingots repus d'abîmes
les torses des cloches sous le fardeau d'un vieux message
celui qui sème la discorde
celle qui aiguise ses yeux dans l'écorce de ma vie
rampent à tour de rôle
empruntant la mimique de l'amour ils rampent

Cependant une prière avec ses mains jointes comme l'avers
et le revers d'un adorable insecte
s'offre aux lèvres de cette lumière qui avoue l'espace
de cette lumière si frugale qui respecte les propriétés des pierres
et passe sur les baisers de chaque fragile enceinte

Ainsi les justes tournent le dos au rivages de l'amour
livrant à leur nature ce que le soir à ses adieux
un sang prêt à sortir à la rencontre des montagnes
car ils ne conçoivent que des versants à l'origine des ailes
car de leurs paupières ils piochent leur pauvre solitude

Veille où tout est permis sauf un manque de pudeur
la ligne de l'horizon autour des reins




Vérité capitale

Pour aile une concession à l'ombre
un goût marqué por les risques au soleil
une vie courte
une réserve prudente

A l'école des vaincus la suie pavoise ses fenêtres
le rosier qui t'ignore tient ici peu de place
les contingeances se pressent à la porte comme des mendiants
l'erreur se guide par leur volume

L'orage faiblit dans l'attente
                                             La mienne




Éclats de glace

Le trésor d'être deux la mémoire intrinsèque
des costumes d'autrefois flottant à ta surface
en dehors du diamant ce n'est qu'à tes yeux qu'on trouve
l'époque où le ciel n'était pas la moindre de mes preuves

Angélique éclatante les tempes sous scellés
les formes de l'avenir y couronnent ses embûches
ô les idoles défaits par le prisme tant aimé
ô les nuages pendus de tel et tel échange de bouche

Soirs d'automne charriant des toits des reflets d'hôte
et des mains de chaleur sans lendemain à juste titre
lorsque je veux t'aimer je n'arrive qu'à rêver
que je suis mort rongé par des larmes splendides




À la belle épave

Sous un bois de lauriers toute une mer d'oreilles
rengaine l'illicite ardeur de nos serments d'été
les larmes grimpent affolées aux cordages
et toute une nuit d'homme se presse et nous regarde
sans qu'à nos pieds d'amour l'herbe pousse illisible

Fenêtres desséchées en laissant parler la rouille
aux delà des bijoux d'une complaisance éteinte
on s'attend à une chute de velours comme si une lame anonyme
coupait en deux la raison de vivre au dehors des brumes

Profondeur du désordre la lumière goudronne
le coeur qui ravitaille ses dangers plus urgents
illisible comme ta gloire derrière une grimace d'ébène
ma gloire perd dans leurs yeux le plus clair de son temps




Point de repère

Non au sable et à sa souplesse
non aux pieds tout prêts pour la poursuite
non à un toit plus chaud qu'un autre
non à la nuit trouée derrière l'oreille
non aux cailloux héroiques aux couches de poussière
non aux appels de l'or dénaturé des doutes
non aux adieux aux mensonges aux pardons
à tout ce que ne soit pas m'assurer
que toi ni moi n'avons jamais existé




Pluralité de mères

Je sors de tes yeux poli comme un soldat fantôme
en hirondelles appuyées contre des murs rétifs
c'est ton tour de crier
c'est à tes os de s'effacer
c'est à ta voix de demander
est-ce bien moi qui marche ou c'est l'habitude qui rentre
dans ma façon de voir s'éteindre les étoiles

Ta pluie qui aurait changé ton ange gardien pour un bon soutient-gorge
s'attaque à ta racine - un oeillet pousse -
l'aube désarçonne tes yeux — l'oeillet qui pousse
grimpe et s'installe dans le coeur d'un combat —
le soir trouve tes merveilles où l'homme les a placées
on dit voilà voilà
où ses larmes l'on conduite

Fille-phare éperdue au moutonnement des races
d'ignorance et de mort ceux-là mêmes qu'à sauvés ta défaite
te tâtonnent en dormant tous tes chantiers en sont pleins
pluralité de mères ma fille de toujours ma fille




Fécondation immortelle

Nous irions toutes articulations allumées
comme les vitres d'une ville avec des pieds tout doux d'hostie
nous irions sans appel engendrer le désordre
avec tes voeux avec tes feux avec tes serrures d'ombre
avec les éclaircies tondues en nous fermant toutes les portes
tes atouts pur pieds
nous irions nous arrêtant dans chaque marche de tes yeux

les mains dans les poches secrètes de la cendre
fusées à ciel déchu vos ruines toujours aux doigts
jusqu'à ce qu'une pierre au moins aie retrouvé ses bornes
et que l'absence gonfle l'étincelle de ton corps

Nue les plaines te déshabillent encore
nue tu montres le chemin sans vengeance


Marco Onofrio - Diario di un padre innamorato, nota di Raffaello Utzeri

Emilio Capaccio - Poesie inedite

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Dieci inediti di Emilio Capaccio, già presente su questo blog con un
a nota di RiEmilio Capacciota Pacilio dedicata al suo "Voce delpaesaggio" e con sue traduzioni di poeti francesi e inglesi (v. QUI).

Poesie diverse da quelle che si possono leggere in quel libro; forse, nella loro scarna presenza sulla pagina, nella sintesi che realizzano, anche migliori, più risolte. Una poesia essenziale, in cui agisce una lirica senza egotismi, ridotta a brevi lacerti pittorici, nella quale i protagonisti (io/tu) si stagliano su un corto scenario simbolico, privo di una reale concretezza, di oggetti che con la loro presenza possano rischiare di "abbassare" il testo, l'effetto quasi epigrammatico che vuole ottenere. Se ci sono oggetti, essi rimandano subito a una natura, come dicevo, simbolica, traslata: una pietra bianca "che rotola e cade nell'acqua", l'alzarsi finale del vento, la bocca che è strumento di una "parola finale", stelle e luna che sono testimoni di un metaforico firmamento che crolla (un dis-astro, appunto), un'ala del tutto simbolica che cade e si rialza dall'ortica, parole (casa, pietra, amore) che pur nella loro finita concretezza (o forse grazie a quella) danno nome a delle eternità. E poi porte chiuse che hanno una loro impenetrabile qualità "nera", la notte che è un imbuto, è "stretta", e quindi non è spazio, luogo, tempo sufficienti, "non ha salvezza", il bacio, che sarebbe comunione amorosa, è "fallito" o addirittura è "di medusa", il corpo che è luogo metaforico "dei nostri intenti" ma dove tuttavia agisce "l'inutile". Tutto sembra scivolare, con molta leggerezza, verso una malinconica e consapevole dissipazione di certezze, affettive, sentimentali, esistenziali, un processo in cui il tempo, passato o attuale, è la macina maestra che prima frange (anche strutturalmente nell'ambito cioè del testo) e poi raffina (nei finali) la materia poetica. Non il tempo crudele e vampiresco di un orologio baudelairiano, semmai quello sfumato e venato di qualche rimpianto di Léo Ferré, il tempo con il quale "tout s'évanouit". Ricordando tuttavia, avverte Emilio, che "anche l’assenza è una presenza / condannata ad esistere", qualcosa cioè con  cui bisogna fare i conti. (g.c.)



*

È un imbuto la notte
e la luna
un polline di luce.
Qui non ci sono gli amanti
che abitarono altre poesie.
Non potettero entrare.
E noi dobbiamo fuggire
perché è stretta la notte.
Non ha salvezza.

*

Quando dovrò andare
non sarò prolisso nell’addio
non come quei tramonti africani
sugli alberi di baobab.
Tutto ciò che dovrei ancora dirti
sarà una secchezza di labbra
un nero di porte chiuse
la voce del non avuto.

*

L’amore è una via antica
nel bosco degli incanti.
Gli amanti per quella via
incrociano i destini.
Noi siamo all’imbocco della via
uno di fronte all’altra
irraggiungibilmente.
Come l’aquila e il delfino
che vollero innamorarsi.

*

Dove siamo seduti
la notte è scesa sulla pietra.
La notte nera
che porta queste bocche
a mordersi cieche.
La pietra bianca
che rotola e cade nell’acqua.

*

Abbiamo dato i nomi
a tutte le eternità.
Al vederle per strada
le abbiamo chiamate subito:
Casa. Pietra. Amore.
Ora la Casa è venduta
la Pietra è rotolata
l’Amore muore in una fossa.
Nessuna eternità è rimasta.
Manovre inutili per schivare
l’alzata del vento.

*

Mi invitavi a una notte stellata.
Ancora impronunciata
disponevi la bocca
a una parola finale.
Io che conoscevo il dolore
dei giardinieri
venivo a mani piene:
con grandi forbici per tagliare le stelle
un secchiello per spegnere la luna.

*

L’amore
si rivela con gli occhi
come quando lo dicono i miei
senza imbarcare parola.
Dirtelo la prima volta
con voce tenera di emozione
sarà dirti
un sentimento già vecchio.

*

Mi fa più triste la tua dolcezza
andare a rivedere l’ala
tra le ortiche dov’è caduta.
Ma mi sorridi con quel modo
che finisco per credere
alla menzogna che mi prende
quando ti dico che l’ala
tra le ortiche si sta rialzando.

*

È l’inutile che sgranchisce
le ossa dei nostri discorsi
mentre la polpa intorno non è cresciuta.
Delle promesse credute sane
nel corpo dei nostri intenti
è l’inutile che ne parla
con la voce arresa di un rimpianto
che non sa raffigurarsi.
È l’inutile la breve stagione
di un bacio fallito
che viene alla bocca già morto.

*

Ciò che non può fare l’assenza è assentarsi.
Anche l’assenza è una presenza
condannata ad esistere.
Come quelle volte in cui non sei
che una briciola di te
una delle tante respirazioni del mondo.
Quelle volte in cui vieni a portarmi
l’intangibile nervo di un abbraccio
aprendomi la bocca con un bacio di medusa.


***************

EmilioCapaccio è nato il 16 maggio del 1976. Ha vissuto a Campagna (SA). Si è lureato in Economia e Commercio all’Università degli Studi del Sannio di Benevento. Vive a Milano dove lavora nel settore della sanità pubblica. Alcune sue poesie sono state inserite in varie antologie dalle case editrici: Pagine e Aletti Editore. Finalista ai concorsi: “I Poeti dell’Adda 2012”, “Il Federiciano 2013” e “Viaggio di Versi, III edizione”, a cura della rivista “Poeti e Poesie”. Si è classificato al 2° posto nel concorso letterario nazionale: “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie 2015”. Ha pubblicato in formato e-book: Malinconico Oscuro, traduzioni di poeti sudamericani inediti, con prefazione di Giorgio Mancinelli. Collabora la rivista internazionale di poesia: “Iris News”, diretta da Chiara De Luca. Sue traduzioni e poesie sono presenti su vari siti e blog. Ha pubblicato la raccolta poetica: Voce del Paesaggio edita da Kolibris Edizioni 2016, con prefazione di Massimo Sannelli.


Enzo Campi - ex tra sistole

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Enzo Campi - ex tra sistoleEnzo Campi - ex tra sistole (dieci sequenze per un poema irrisolvibile) - Marco Saya Editore 2017

Dieci sequenze per un poema irrisolvibile, dice il sottotitolo di questo libro. E', fin da qui, la denuncia di un'aspirazione (e di una ispirazione) tesa alla realizzazione di una completezza organica, di una struttura (che la forma poema esemplifica); e la consapevolezza della difficoltà di attingere a qualcosa di concluso, sia in termini formali sia nel senso dell'esplorazione della materia poetata.  Non è un limite, è - direi - una coscienza. In effetti niente impedisce a questo libro di superare sé stesso, la propria carta, il limes convenzionale di una pagina finale. Perfino chi legge lo sa, giungendo alla pagina sessantanove, che tra l'altro termina con un unico punto interrogativo, acuminato e ultimativo. E ora?, si domanda il lettore. E tuttavia il viaggio è stato agevole più di quanto avvenga in quasi tutte le opere in cui si pratica una scrittura genericamente definita di ricerca. Voglio dire, non si attraversa, almeno non più di tanto, una selva oscura, aggrottata, superciliosa. C'è anzi in questo libro dell'ironia, a volte del sarcasmo, e un' infinità di incastri sinaptici, di agganci mnemonici, di sottili riferimenti culturali, di trasferimenti verbali per assonanza e consonanza, di metafore cognitive stimolanti e così via. Ed una accennata architettura teatrale (prologo, parodo, stasimo, coro, ecc.) che sembra preludere, o meglio suggerire, invitare, a una fonazione, interiore o palese, a una messa in scena di tutto questo materiale verbale, nella quale il lettore si potrebbe con qualche soddisfazione cimentare (e in effetti il suono in questo libro ha una rilevanza notevole). Certo ha ragione Giorgio Bonacini (nella postfazione) ad avvertire il lettore che quella  di questo libro non è una lettura comunemente intesa (che cioè, dico io, si può permettere qualche rilassatezza o disattenzione, tanto poi...), perché necessita di "pratiche interpretative significanti", anzi "occorre leggere come se fossimo noi a scrivere". Insomma, dice Bonacini, "se (...) non si fa questo sforzo benefico di aderire a ogni articolazione, scrutando e auscultando anche i minimi tratti del testo, l’opera di Enzo Campi la si può certamente leggere, ma al minimo delle sue potenzialità semantiche". Mi rendo conto che c'è un'apparente contraddizione con quanto ho scritto prima, dando forse l'impressione di una facilità di lettura. Be', questa non c'è, perché bisogna, secondo me, non tanto mettersi nella testa di Campi ("leggere come se ecc."), quanto cercare di capire il più possibile il suo sistema metaforico e di pensiero (compresa la loro reinvenzione), là dove "rimanda perpetuamente ad altro, ovvero a qualcosa che non appartiene al sistema di riferimento e di significanza preso di volta in volta in considerazione" (Sonia Caporossi, nella prefazione).
L'obbiettivo di Campi, proprio nel senso di un centro da attingere anche con qualcosa di perforante, è certamente il linguaggio. Ma non il linguaggio come territorio di scorribande, come materiale torcibile a piacere (per quanto Campi al bisogno non si tiri indietro in questa pratica), quanto il linguaggio o la lingua come arnese usurato, centripeto, ricorsivo, discutibile, egolalico, che si autorigenera in luogo comune, che si autocertifica come dominante e come langue omologa. Che tende ad un uso "economico", non dispendioso, produttivo e (quindi) politicamente conservatore. Che perciò, secondo Campi, è intimamente antipoetico e antiartistico, ontologicamente manierista, incapace di articolare cioè una definizione del reale che abbia a che fare con la bellezza. L'obbiettivo è anche il materiale con cui si cerca di raggiungerlo, unitariamente, la freccia è insieme il bersaglio e chi scocca (inevitabilmente Campi mette in discussione anche la sua "resistenza" alla lingua, i suoi propri punti di rottura, soprattutto nella perlustrazione dei limiti, che mai vuole saggiamente superare, tra dicibile e indicibile, comunicabile e incomunicabile). E' un abile gioco di equilibrio, un procedere su una corda tesa di parole, molte delle quali deviate e metamorfizzate in altre per contiguità, per assonanza, per una eterodossa parentela di sensi e suoni, per spoliazione di significati, per de-nominazione, ovvero per rottura dei legami tra parola e oggetto ecc.; e questo avviene non solo sul singolo vocabolo ma anche, spesso, sulla catena sintattica, sulla spezzatura (per la verità a volte un po' capziosa) della frase. C'è poco di "comodo" e di confortevole in questa modalità espressiva. Il sistema metaforico di Campi a cui alludevo è in realtà una supermetafora del linguaggio, da una parte come corpaccio che deve essere purgato con la necessaria "crudeltà" (e qui si rimanda a uno dei dedicatari del libro, Antonin Artaud. L'altro è, ça va sans dire, Emilio Villa), dall'altra come ouroboros,  elemento primigenio che si consuma ma per la cui rigenerazione è lecito sperare e lottare. In questo senso il lavoro di Campi sul linguaggio (qui verbale, ma va da sé applicabile - e in effetti applicato - a qualsiasi altro linguaggio artistico) non è meramente clastico, frammentante, ma è plastico, riformante, dato che qui "da ogni disgregazione si forma uno scarto di senso" (Bonacini, rilevando in realtà uno dei caratteri "forti" della poesia in genere). Un processo di cui Campi dimostra di avere una piena coscienza, anche quando sembra svelare (come ricorda Caporossi) delle meccaniche, "una dichiarazione di poetica e di metodologia compositiva"  come in questo passo "dato un incipit ricordarne l’ / essenza e usarlo come / collante come / legante ogni volta che la / scorta di senso diviene / scarto a delinquere”, domandandosi subito dopo, ironicamente “ah! / è questa la / regola / ?”. Certo che no, almeno per quanto lo riguarda (mentre per altri forse sì, e andrebbero verificati i risultati, alla fine). Molto più probabilmente Campi crede in altro: "la / regola parla chiaro / bisogna / copulare avec la / barbaque / raspando con / ruvide lime i / residui di / senso di / messe mai / celebrate e / pure sublimate in / pomposi baccanali". In altre parole bisogna affondare le mani e il corpo intero nella carne viva, nella materia bruta, raschiandola all'osso, rinnovando una non superficiale comunione poetica con essa. E' evidente la distanza tra la prima e la seconda "dichiarazione": lì il linguaggio genera le cose e sé stesso (non necessariamente rigenerandosi), qui la materia genera il linguaggio (quel linguaggio) con cui è possibile descriverla. Una delle più impegnative dichiarazioni di intenti che abbia avuto occasione di leggere da un po' di tempo a questa parte. (g. cerrai)


Estratto da "Enzo Campi - ex tra sistole"







Letture di primavera: Derek Walcott, da Egrette bianche

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da The acacia treesderek walcott

III

You see those breakers coming around Pigeon Island
bowing like nuns in a procession? One thing I know,
when you're gone like my other friends, not to Thailand
or Russia, but wherever it is loved friends go
with their different beliefs, who were like a flock
of seagulls leaving the mirror of the sand,
or a bittern passing lonely Barrel of Beef,
or the sails that an egret hoists leaving its rock;
I go down to the same sea by another road
with manchineel shadows and stunted sea grapes
dwarfed by the wind. I carry something to read:
the wind is bright and shadows race like grief,
I open their books and see their distant shapes
approaching and always arriving, their voices heard
in the page of a cloud, like the soft surf in my head.


III

Li vedi quei frangenti che attorno a Pigeon Island
si prostrano come suore in processione? Una cosa la so,
quando sarai andato come gli altri miei amici, non in Thailandia
o in Russia, ma ovunque vanno con i loro credi diversi
gli amici più cari, che erano come uno stormo
di gabbiani che lascia lo specchio della spiaggia,
o un tarabuso che sorvola il solitario Barrel of Beef,
o la vela issata da un'egretta quando lascia il suo scoglio;
scendo al solito mare da una strada diversa
con le ombre delle mancinelle e le uve di mare rachitiche
a cui il vento blocca la crescita. Mi porto qualcosa da leggere:
il vento è limpido e le ombre sfrecciano come il dolore,
apro i loro libri e vedo le loro sagome distanti
che s'avvicinano, sempre in arrivo, le loro voci udite
nella pagina di una nube, come la lieve risacca nella mia testa.




da Sicilian suite

II

I am haunted by hedges of pink oleander
along the Sicilian roads, their consonants of gravel
under the tires, by stone piles, by walls whose wonder
is that there was no need to travel
this far, to recognize things I already knew,
except, and now it grows, the odd broken castle
through whose doors peered a Caribbean blue,
and the name Ortigia that rings like crystal
in its fragile balance. In the pine's rustle
and the silver alder's and the olive's, a difference began,
sounds that needed translation. The sea was the same
except for its history. The island was our patron saint's
birthplace. They shared the same name:
Lucia. The heat had the identical innocence
of an island afternoon, but with a difference,
the way the oleanders looked and the olive's green flame.


II

Sono perseguitato da siepi d'oleandro rosa
lungo le strade siciliane, le loro consonanti di ghiaia
sotto le ruote, da pile di pietre, da muri la cui sorpresa
è che non c'era bisogno di andare così distante
per riconoscere ciò di cui mi ero già accorto,
tranne, e ora ritorna, quello strano castello
in rovina con un blu caraibico affacciato alle porte
e il nome Ortigia che tintinna come cristallo
nel suo fragile equilibrio. Nel fruscio del pino,
dell'ontano argenteo e dell'olivo qualcosa iniziava a cambiare,
suoni che andavano tradotti. Il mare era uguale
tranne per la sua storia. La nostra santa patrona
era nata qui. Condividevano un unico nome:
Lucia. La calura aveva l'identica innocenza
di un pomeriggio isolano, ma con una differenza,
l'aspetto degli oleandri e la verde fiamma dell'olivo.


VII

There was no « affair », it was all one-sided.
Bats fretted the treetops then pitched like darts
from the pines. At lunch an invisible presence presided
over the wines and salads as, in fits and starts,
a sinuous organ sobbed to the Bay of the Saracens
flecked with gulls' feathers or the sails of yachts,
yet balance and perfection made no sense.
By the open-air table where I sat alone
a flock of chattering girls passed, premature sirens
fleeing like pipers from the sudden thought of a stone.
Emerald ducks paddled and stabbed their bills
in the cool dark well sacred to Arethusa.
I wondered in the inching sun how it was known
to the ferry's horn, the pines, the Bay's azure hills
and the jeering screaming girls that I would lose her
or an accordion's meandering sob and moan
through the coiled, serpentine alleys of Siracusa.


VII

Non c'è stata nessuna « storia », ho fatto tutto da solo.
I pipistrelli ornavano le cime degli alberi poi si lanciavano
come dardi dai pini. A pranzo una presenza invisibile presiedeva
su vini e insalate mentre, in convulsioni e sussulti,
un organo sinuoso singhiozzava sulla Baia dei Saraceni
punteggiata di piume di gabbiani o di vele,
eppure equilibrio e perfezione non avevano senso.
Uno stormo di ragazze cinguettanti passò davanti al tavolo
dov'ero seduto da solo, sirene premature che fuggivano
come piovanelli dal pensiero improvviso di una pietra.
Anatre smeraldo sguazzavano e infilzavano i becchi
nella fonte fresca e buia sacra ad Aretusa.
Nel sole che avanzava lentamente mi chiedevo come la sirena
del traghetto, i pini, le colline azzurre della baia
e quelle chiassose ragazze insolenti sapessero che l'avrei perduta
o i singhiozzi e i lamenti sinuosi di una fisarmonica
nei vicoli attorti e serpeggianti di Siracusa.





da In Italy

VI

The blue windows, the lemon-coloured counterpane,
the knowing that the sea is behind the avenue
with balconies and bicycles, that the gelid traffic
mixes its fumes with coffee-transient interiors,
transient bedsheets, and the transient view
of sea-salted hotels with spiky palms,
in spite of which summer is serious,
since there is inevitably a farewell to arms:
to the storm-haired beauty who will disappear.
The shifted absence of your axis, love
wobbles on your body's pivot, to the carriage's
shudder as it glides past the roofs and beaches
of the Ligurian coast. Things lose their balance
and totter from the small blows of memory.
You wait for revelations, for leaping dolphins,
for nightingales to loosen their knotted throats,
for the bell in the tower to absolve your sins
like the furled sails of the homecoming boats.


VI

Le finestre azzurre, il copriletto color limone,
la consapevolezza che il mare è dietro il corso
con i balconi e le bici, che il traffico gelido
mischia i suoi scarichi all'effimero caffè degli interni,
a lenzuola effimere e alla vista effimera
di alberghi salmastri dalle palme appuntite,
nonostante i quali l'estate è seria,
perché c'è inevitabilmente un addio alle armi:
alla bellezza dai cappelli tempestosi che sparirà.
L'assenza traslata del tuo asse, l'amore
oscilla sul perno del tuo corpo a ogni tremito
del vagone che sfila lungo i tetti e le spiagge
della costa ligure. Le cose perdono il loro equilibrio
e vacillano sotto i colpetti della memoria.
Aspetti una rivelazione, le evoluzioni dei delfini,
aspetti che gli usignoli sciolgano i nodi in gola,
che le campane assolvano i tuoi peccati
come le vele ammainate delle barche al rientro.




da In the village

I

I came up out of the subway and there were
people standing on the steps as if they knew
something I didn't. This was in the Cold War,
and nuclear fallout. I looked and the whole avenue
was empty, I mean utterly, and I thought,
The birds have abandoned our cities and the plague
of silence multiplies through their arteries, they fought
the war and they lost and there's nothing subtle or vague
in this horrifying vacuum that is New York. I caught
the blare of a loudspeaker repeatedly warning
the last few people, maybe strolling lovers in their walk,
that the world was about to end that morning
on Sixth or Seventh Avenue with no people going to work
in that uncontradicted, horrifying perspective.
It was no way to die, but it's also no way to live.
Well, if we burnt, it was at least New York.


I

Stavo salendo dalla metro e c'erano delle persone
ferme sui gradini come se sapessero qualcosa
che io non sapevo. Erano gli anni della Guerra Fredda
e della pioggia radioattiva. Ho guardato e l'intera avenue
era vuota, letteralmente intendo, e ho pensato:
Gli uccelli hanno lasciato le città e la piaga
del silenzio si moltiplica nelle loro arterie, c'è stata
la guerra e l'hanno persa e non c'è niente di sottile o di vago
in questo vuoto terrificante che è New York. Ho còlto
il rumore di un altoparlante che avvisava ripetutamente
le ultime persone, forse amanti a passeggio,
che il mondo stava per finire quella mattina
sulla Sesta o la Settima senza gente che andava al lavoro
in quella prospettiva terrificante e non contraddetta.
Non era il modo di morire, ma neanche di vivere.
Be', se fossimo bruciati, almeno eravamo a New York.




A sea-change

With a change of government the permanent cobalt,
the promises we take with a pinch of salt,
with a change of government the permanent aquamarine,
with a reorganized cabinet the permanent violet,
the permanent lilac over the reef, the permanent flux
of ochre shallows, the torn bunting of the currents
and the receding banners of the breakers.
With a change in government no change in the cricket's chirrup,
the low, comical bellow of the bull, or
the astonishing symmetry of tossing horses.
With a change in government the haze of wide rain
which you begin to hear as the ruler hears the crowd
gathering under the balcony, the leader who has promised
the permanent cobalt of a change of government
with the lilac and violet of his cabinet's change.


Un mutamento marino

Con un cambio al governo il costante cobalto,
le promesse da prendere con un grano di sale,
con un cambio al governo l'acquamarina costante,
con un nuovo Consiglio il costante violetto,
il lilla costante sul banco di scogli, la secca ocra
col suo riflusso costante, il pavese strappato
e i vessilli calanti di correnti e frangenti.
Con un cambio al governo nulla cambia nel verso del grillo,
nel comico e basso muggito del toro, o
nella simmetria sorprendente di criniere agitate.
Con un cambio al governo la foschia di piogge estese
che inizi a sentire come l'uomo al comando sente la folla
riunita sotto il balcone, il capo che ha promesso
il costante cobalto di un cambio al governo
con il lilla e il violetto del suo nuovo Consiglio




A dun day brightening, clouds like grey flannel,
but, more than the usual, occasional sail,
a grey-hulled tanker anchored in mid-channel,
hazed by the distance and a sunlit drizzle.
They never pause going farther north, or else they seem
to wait until I silently send up a flare
to signal my lifelong distress, wave flailing arms
against such paradisal luck at being stuck here,
among scuttling crabs and the ribbed hulks of palms
looking like frozen detonations, each
ghostly anchored tanker is a young man's dream
of flight, adrift in all the ports of the world
where he has left his name scrawled on a beach,
hiding in ramshackle harbours with a white beard
like a sea urchin, a skin cracked like leather:
that when masts crack and lightning bolts are hurled
he would have seen the world in its worst weather,
quiet as the tanker grazing in midstream.


Un giorno cupo che si rischiara, nubi come flanella grigia,
ma, più che la solita vela occasionale, lo scafo
grigio di una petroliera ancorata a metà dello stretto,
offuscata dalla distanza e da una pioviggine assolata.
Non si fermano mai quando salgono verso nord, o a volte sembra
che aspettino finché non mando un bengala silenzioso
che segnali le angosce di una vita, dimeno le braccia
contro la fortuna paradisiaca di essere bloccato qui,
tra granchi che se la svignano e i nervati relitti delle palme
che sembrano detonazioni congelate, lo spettro
di ogni petroliera all'ancora è il sogno di fuga
di un ragazzo, alla deriva in tutti gli approdi del mondo
dove ha lasciato il suo nome scribacchiato sulla sabbia,
riparandosi in porti fatiscenti con una barba bianca
come un riccio di mare, la pelle crepata come cuoio:
così che quando gli alberi maestri si spezzano e cadono le saette
avrà visto il mondo nel suo clima peggiore,
calmo come la petroliera che bruca nel filo della corrente.




Here's what that bastard calls « the emptiness » -
that blue-green ridge with plunging slopes, the blossoms,
like drooping chalices, of the African tulip, the noise
of a smoking torrent - it's his name for when rain comes
down the heights or gusts in sheets across the meadows
of the sea - « the emptiness », the phrase applies
to our pathetic, pompous cities, their fretwork balconies,
their retail stores blasting reggae, either India in the eyes
of uniformed schoolchildren or the emptiness. The image
is from Conrad, of a warship pointlessly firing
into the huge empty jungle; all the endeavours
of our lives are damned to nothing by the tiring
catalogue of a vicious talent that severs
itself from every attachment, a bitterness whose
poison is praised for its virulence. This verse
is part of the emptiness, as is the valley of Santa Cruz,
a genuine benediction as his is a genuine curse.


Ecco cosa quel bastardo chiama « il vuoto » -
quel crinale verde-azzurro con i versanti a precipizio, le fioriture,
come calici riversi, del tulipano africano, il fragore
di un torrente fumante - è il nome che gli dà quando la pioggia
scende dagli altipiani o scroscia in cortine sulle praterie
del mare - « il vuoto », l'espressione vale
per le nostre città patetiche e pompose, i balconi intagliati,
i negozi con il reggae a palla, o l'India negli occhi
di scolari in uniforme o il vuoto. L'immagine
è di Conrad: una nave da guerra che spara
a caso nell'enorme giungla vuota; tutti gli sforzi
delle nostre vite sono condannati al nulla dal catalogo
stancante di un talento perverso che separa
se stesso da ogni affetto, un rancore che è lodato
per la virulenza del suo veleno. Questi versi
fanno parte del vuoto, così come la valle di Santa Cruz,
una benedizione genuina quanto la sua è una genuina maledizione.


e una dichiarazione tecnico poetica:

...
my craft and my craft's thought make parallels
from every object, the word and the shadow of the word
makes a thing both itself and something else
till we are metaphors and not ourselves
in an empirical language that keeps growing
...


...
la mia arte e il pensiero della mia arte creano paralleli
da ogni oggetto, la parola e l'ombra della parola
fanno sì che ogni cosa sia se stessa e qualcos'altro
finché non siamo noi stessi ma metafore
in una lingua empirica che continua a crescere
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I testi sono tratti da Derek Walcott - Egrette bianche - trad. di Matteo Campagnoli, Adelphi 2015



Giusi Montali, Luca Rizzatello - Faria

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Giusi Montali, Luca Rizzatello - Faria - Dot.com Press, 2016Giusi Montali, Luca Rizzatello - Faria - Dot.com Press, 2016


Come dice la nota di apertura, in questo libro a quattro mani - quelle di Giusi Montali e di Luca Rizzatello - ci sono 14 "testi fonte" dell'uno e 14 "riscritture" dell'altro, divisi in due sezioni,  L'agiografia umana (Rizzatello → Montali) e Il signor klek (Montali→ Rizzatello); e un paio di regole: che c'è più di un autore ma meno di due, e che si tratta di letteratura di evasione ma in senso escapologico, ovvero - come si precisa oltre - come evasione da ogni preconcetto poetico e da ogni conformismo.
Come si vede le ambizioni ci sono, o forse vanno intese come dichiarazioni di poetica, che però il lettore, mi pare, non è tenuto più di tanto a verificare. E basterebbero queste, ma in realtà avvertenze e raccomandazioni ce ne sono parecchie altre, tanto che complessivamente finiscono per costituire un tramaglio per chi legge, o un voluto depistaggio (termine che usa Sergio Rotino nella nota di lettura finale, ma va considerato - a margine e poi magari ci si torna - che il depistaggio può essere assunto come artificio retorico/poietico, con qualche vaga parentela con il détournement di debordiana memoria). Compreso il titolo sulla cui reale definizione, ci dicono in quarta di copertina, è meglio non speculare troppo, perché forse il Faria è quello che subito viene alla mente o forse no. Va aggiunta a questo, sempre in premessa, la chiave di lettura che viene anch'essa offerta al lettore, riguardo alle due sezioni del libro: l'agiografia umana"è un ciclo di immagini...su alcuni fatti storici, condizioni sociali e aspetti universali...un affresco contemporaneo", tra realtà e immaginazione; il signor klek invece "è la narrazione di un tentativo di analisi della realtà da parte di un soggetto e al contempo uno studio che un altro soggetto fa sul primo", in chiave - anche - psicologica. Quindi, mi pare di capire, l'uomo nella storia e la storia nell'uomo, alla luce, come abbiamo visto, di una fonte (cioè un punto di vista "sorgente", in qualche modo originale) e di uno scolio (meglio dire una rilettura, forse un rovesciamento).
Come vedete, è un libro molto "spiegato", fin dall'inizio. Si tratta di accettare o meno queste carte, il gioco poetico che viene proposto. Andare a vedere, ad esempio, in che modo si realizza la riscrittura, o in che modo si confrontano e affrontano due scritture non necessariamente paritarie, che anzi tentano di "dimostrare" sé stesse appoggiandosi sull'altra, in un contrasto che è certo interessante ma non sempre, come dire, efficace. Il dialogo è ravvicinato, ma è anche - talvolta - dialogo tra sordi, stante che anche qui si realizza una certa incomunicabilità che è nell'ordine dell'umano. Tanto che spesso si procede per agganci semantici, per echi di parole, per associazioni e cooptazioni, dato che è il mezzo più agevole per stabilire un contatto, come del resto in ogni rapporto interlinguistico o, per estensione, in ogni traduzione. Agganci da cui poi il pensiero svaria, détourne, costruendo - poieticamente - un altro castello di significanze, non necessariamente organico al primo. Producendo, scrivono gli autori, "le ipotetiche conseguenze". Come avverte Rotino, e sono nella sostanza d'accordo: "Tradire, tradurre, traslare per interpretare mai conoscendo - e già conoscendo - il pensiero fatto parole dell'altro, rincorrendolo (...). Un inseguimento circolare, dove ogni rivisitazione del testo, ogni reinterpretazione del testo, ha bisogno dell'errore quanto della precisione".

Un concept book, dunque? Sì e no. Sì nel senso di una architettura, di una idea sul come fare che sta a monte, che è preesistente e in qualche modo autonoma. No, perché poi la scrittura, almeno nella sua componente profonda e sorgiva, prende il sopravvento (anche qui in maniera non paritaria, poiché logicamente diverso è il controllo dei due autori sulla scrittura stessa, sulla lingua, sullo stile, e le differenze si vedono), scarta, e segue le sue strade, accantonando il più delle volte la tentazione del calco o della mera traduzione nel testo a fronte. Forse sta in questa caratteristica (e nell'altro elemento di "scarto" che dicevo prima) il motivo principale di interesse di questa prova. La lingua qui (e forse lo si voleva dimostrare) ha un effetto eco che si riverbera su (o innesca) la produzione del pensiero poetante, ma - ripeto - non sempre convergente da (e su) un punto di vista, per così dire, tematico. Come se lì al centro, dove il libro si spalanca davanti al lettore, nella dialettica fonte/riscrittura si fronteggiassero due differenti approcci gnoseologici alla realtà. Dare per esatta questa impressione, l'impressione di questa vista binoculare - ammettiamolo per un momento - non implica un giudizio di valore, ma semmai da parte del lettore l'accettazione di voci plurime, del fatto che la visione del mondo non può essere univoca né corale, può essere relativa e contemporaneamente essere una ed essere vera. Perché in fondo questo è, nel suo complesso e con le sue ovvie discontinuità, un poema sull'uomo come elemento decentrato e impotente della Storia e insieme come centro e simbolo della sua propria e altrui umanità. Lo è nella componente etico-politica della scelta dei temi, e nel loro rovesciamento (o travaso, o messa in mora), come accennavo prima, da sociale a privato, da collettivo a individuale, da esteriore a intimo, e viceversa. Una componente non sempre agevole da trattare, una delle sfide di questo lavoro, che è possibile superare solo trascendendo il "tema" (in fondo qualsiasi esso sia e in senso lato) in espressione, e qui allora la lingua non è solo funzione e strumento fàtico, ma anche protagonista elemento iconico, immagine, recupero di frammenti culturali (vedo un Sanguineti, ad es.), rappresentazione; un testo/teatro, anche, in cui i due "attori" rilanciano sé stessi per "farsi doppi e intercambiabili - ancora Rotino - pur restando distinti e unici". O - immaginiamo - al limite fino  sovrapporsi. (g. cerrai)



da L'agiografia umana           (Rizzatello - Montali)

Alba fractalia

Le radici dei limoni biancheggiano per
il cloro invece le noci vengono tirate
a lucido con la candeggina a bagno nella
foschìa c'è la sagoma del gelso che pensata

da lontano pare un polipo cauterizzato
la foschia nasconde gli ingranaggi delle gru
le salme fumanti dei fagiani i ciuffi neri
di capelli che galleggiano nell'aria elettrica

distante i fantasmi anoressici sulle stampe
delle case da tè di osaka anch'essi galleggiano
mentre fuori l'odore di loto ondeggia e poi

sparisce e poi spariscono le case da tè
gli spettri gli scalpi corvini la selvaggina
i congegni di manovra i gelsi e la foschia.


Alba fractalia

l'omotetia che distrugge le grandezze racchiude ramo, radice
e albero nella stessa geometria, mentre il cloro stinge le dita
all'alba e il frutteto candeggia, si cauterizzano le escrescenze
si diffonde la foschia, i funghi sterminano il campo: arriva il

benomyl, il fertilizzante, la morfolina che lucida le mele, ora
i coleotteri precipitano, così le ninfee nello stagno, l'acqua si
colora di giallo, poi tutto è inghiottito dai palazzi e di fianco
all'autostrada c'è l'elettronarcosi, la giugulare recisa, le setole

tolte con lo strato corneo, l'immersione, l'asportazione, poi il
flambaggio e la docciatura, e dopo cosa rimane? le viscere
ancora per poco, il corpo tagliato da parte a parte che giunge

tra gli scaffali nella città che è un'unica insegna, la gente che
scorre ancorata ai carrelli, ma poi la terra ingoia tutto: i negozi
le luci, gli spettri, e si richiude in baratro




Bet this

La scia lattescente che traccia la baleniera
su quel quadrante sconosciuto pensata da
vicino pare un frappé di pescecane che
in stato di quiete perde consistenza a poco

a poco il plancton affiora e fuoriesce dalle
crepe del pack nell'alba fantomatica il sangue
si coagula sulla gola dell'orso bianco
sulle spranghe per le fochette sulle carene

della rompighiaccio distante la bava viscida
delle lumache dagli addobbi di cartoncino
infradicia le tovaglie e i segnaposti messi

la sera prima della festa di compleanno
e nei boccali di birra interrati nel prato
le lumache ubriache sono colate a picco.


Bet this

la scia dell'aurora boreale traccia una concoide, poi una limaccia
che si riflette sullo strato di ghiaccio e avanza e muta costantemente
fino all'alba tra le crepe provocate dalla rompighiaccio emerge il
plancton multiforme che segue la corrente sotterranea, ecco il krill

le alghe, i protozoi, le meduse dalla simmetria radiale, più a sud
il plancton è luminoso e le meduse risalgono lo stadio sessuale
ringiovanendo eternamente, invece sul collo dell'orso bianco in
esilio si riflette ogni dieci anni il rosso sangue dell'aurora, poi si

accascia vinto dall'inedia tra il suono degli elettroni intrappolati
nelle fasce di radiazione, ora l'aurora sembra un nautilus dalla
spirale logaritmica, ora invece la direzione è antioraria come la

chiocciola con la sua bava che colma l'imperfezione di ermafrodita
e feconda ed è fecondata, ma poi muore schiacciata dai piedi di una
folla in processione tra le lamentanze polivocali di enna




A bat jour

Il pipistrello che serba in grembo il virus dell'idrofobia
è in prima lìnea nella lotta alla
zanzara tigre invece in tanzania i genitali
degli albini non scompaiono nel nulla non

si sciolgono sotto la pioggia non si riparano
bruciando al sole le vescicole sono oasi
coi cammelli scheletrici col bestiame sbronzo
colle palme fluorescenti dell'autosalone

sulla statale azzurrata dai posti di blocco
il display dell'etilometro è a basso consumo
mentre da dietro il cespuglio la rabbia ha un decorso

variabile e il lupo mannaro lo sa la rabbia
non i proiettili d'argento non i paletti
di biancospino la luna che fa capolino.


A bat jour

il pipistrello che ruota nella stanza, sfiora le pareti ed esce
alla notte carico di rabbia, continua la battaglia alla zanzara
ma se il topo calvo protende la sua mano e morde, il morso
si trasforma in morituro dopo quaranta giorni, il licantropo

e il vampiro infestano le notti, sale la rabbia che percuote
il sangue, l'acqua terrorizza, ecco le convulsioni: il dato reale
si trasforma in leggenda, così in tanzania perseguitano l'albino
mutilandogli i genitali, il gene regressivo risana l'impotenza

invece l'albina risana i malati di aids, più del sole che la pelle
piaga, lo stupro e l'amputazione conducono alla tribù dei fantasmi
poscia più che la pietà, potè l'ignoranza, così il fenotipo rosso è

il marchio di caino e il rutilismo rotola di generazione, il sole
infiamma la pelle dei naviganti, per qualcuno la discendenza
è dai gatti, per altri dal diavolo


da Il signor Klek           (Montali - Rizzatello)

il discorso del signor kleck

se premi il diencefalo, ne scaturisce una ridda
di immagini e dervisci rotanti che si muovono
veloci al ritmo delle sinapsi, da qui la differenza
della specie: assorbire i desideri o crearli, la mantide
forte si estende nel suo giaciglio mentre la rete
neuronale si crea per livelli casuali, il grafo delle
connessioni è multiplo, il sistema è stocastico
ma probabile, considera il singolo e l'ambiente


il discorso del signor kleck

ma se premi l'interruttore il prato
scompare il seme dell'erba e il cervello
dell'ape hanno le stesse dimensioni
vedi la festa danzante e il sistema
nervoso vedi dillinger col trench
vedilo a tucson intento a bruciarsi
i polpastrelli mentre la parata
prende fuoco oltre la portafinestra




terza tavola

il prato, o il cielo, è una porta verde che si apre
ai nostri colli rossi che cercano gemme e semi
e strìngono solo fibromi asciutti e punitivi:
un loto caldo cresce, si espande sotto la scapola
ricade in fiorami che attraversano gli alveoli
- senti dilatarsi il nero, sciogli le articolazioni
dilania i muscoli, dissolvi lo scolo, l'eritema
l'aritmia - non voltarti, la porta è chiusa


terza tavola

il vento incurva l'erba e le corolle
piomba nel sonno e dissecca le vene
vedi dorothy dipingersi a uccello
per gentilezza e a bestia nel deserto
vedila bere il sangue dei cavalli
per ritornare poi nel paradiso
assorta nel digiuno e rovesciata
nella botola aperta sul ciclone




decima tavola

lo sguardo scandaglia, le mani si tendono, l'acqua
scivola dai bacini e diventa lama che divide il cielo
la terra percorsa da tensione vibratile, si dispongono
le traiettorie: i campi risplendono di luce rossa, forse
i sogni sorgeranno a grappoli dalle nostre teste e saranno
lama che ricade in spirali per illuminare il buco di stupore
dei nostri sguardi: intanto la distensione dei corpi illumina
i cieli, mentre si risale a nuova vita, si dilatano le costole


decima tavola

vedi la giustizia distributiva
produrre la casa il cielo le nuvole
i cactus con cui battersi la schiena
un palo marcito un sasso una fossa
una serra quattro metri di mussola
un meteorite impallidito al sole
dodici indigeni a bordo piscina
vedi l'orrore l'orrore l'orrore


Jonas Burgert - La linea di piombo, una nota di Elisa Castagnoli

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“LA LINEA DI PIOMBO”, JONAS BURGERT (al Mambo di Bologna)JONAS BURGERT

Sono scenari teatrali, rappresentazioni di quello che Burgert considera la drammaturgia dell’esistenza umana nell’inesausta necessità di porre la questione sul “ senso”, poi nel dare forma e corpo al proprio universo poetico e personale. Tele di sorprendenti dimensioni e d’una complessa tessitura visiva appaiono sulle pareti dalla hall centrale dello spazio espositivo bolognese affollate di figure fantastiche , umane o meno, d’un mondo insieme onirico e inquietante, straripante di presenze nello “scandagliodipendenza”, Lotsucht, dell’artista berlinese attualmente in mostra al Mambo di Bologna.

“Scandagliodipendenza”, come titola l'originale “the plumb line”, sarebbe quella “linea di piombo” insondabile e sottile di realtà o limite ultimo di percezione sotto la quale l’artista è chiamato a discendere nel tentativo di esplorare, mettere in luce, dare una forma poetica e insieme una “messa in spazio” visiva, esuberante e barocca nello stile di Burgert, alla complessità, alla contraddizione, al groviglio emozionale di un’esistenza guardata alla lente magnificante di un microscopio interiore al filtro espansivo della propria immaginazione. La sua pittura lavora a tale livello simbolico, immaginativo, subcosciente e onirico insieme, ai margini o ai lati oscuri della realtà manifesta dando forma e spazio, in primo luogo, a ciò che si nasconde dietro la rappresentazione o superficie apparente della medesima. Paesaggi allegorici, scenari apocalittici da fine del mondo, figure fantastiche di diversa natura o provenienza come creature quasi umane, sciamani, arlecchini, demoni o amazzoni popolano le sue tele. In altri casi sono i ritratti dei volti visti a distanza ravvicinata oppure le figure femminili simili a incantatrici, muse o baccanti nelle varie rappresentazioni che rimandano all'archetipo femminile della “grande madre” nel duplice aspetto di generazione e degenerazione, procreazione e distruzione. Allo stesso modo le pareti si squarciano lasciando intravvedere cumuli di corpi ammonticchiati tra le macerie di un mondo alla deriva, varchi o buchi improvvisi si aprono al suolo ai quali si affacciano in sordina i personaggi per scrutare quello che si nasconde nel sottosuolo, oppure demoni, prendono corpo ma anche figure dell’immaginazione o del sogno, infine volti femminili simili a divinità d’una straordinaria bellezza. E, ancora, paure ancestrali prendono forma attraverso scenari distopici da fine del mondo, oppure composizioni teatrali sapientemente costruite emergono nella brillantezza dei colori manieristi e dell’esubero barocco delle forme, là dove si affaccia incombente a tratti un’oscurità minacciante. Nei ritratti in primo piano di Burgert il gioco si esplica tra il gesto del nascondere e quello del rivelare, tra il celare o letteralmente sommergere parti del volto o della figura sotto cumuli di altri corpi, oggetti o macerie e, dall'altra parte, paradossalmente di mettere a nudo il centro di gravità d’uno sguardo, d’un emozione o uno stato d’ essere catturato attraverso un complesso scenario .



Stück Hirn (un pezzo di cervello)

Il dipinto si apre come una visione, un sogno di colori ad olio; grottesche, figure surreali prendono forma attraverso la colorazione dominante di un rosso oleoso e colante a macchia come un fulcro figurativo dal centro della tela. Un universo onirico, grottesco e omnicomprensivo di elementi si dipana come tutta la pittura di Burgert da tale nucleo generativo, macchia carminio da cui si aprono a raggiera il giallo, l’ocra e l’arancio in sprazzi di colore oleoso gettato per guazzi ovunque contro la parete; là, piccoli riquadri di volti o maschere appaiono come tante scatole cinesi del sogno o dell’incubo: immagini o simboli di un mondo parallelo dall'inconscio riaffiorano alla mente come sulla superficie della tela rimandandoci a tutto un filone dell’arte fiamminga popolata da creature fantastiche e mostruose da Bosch a Brueghel. La figura grottesca di un giovane al centro della scena domina _giallo, ocra e grigio la sua veste puntigliata di colore_ nelle mani legato, impedito ad ogni altro gesto se non a prolungarsi in tali arpioni uncinati in ferro divenuti grandi mani espanse a spatole di pittura, braccia artificialmente aggiunte agli arti impediti. Esse solo paiono potersi ricongiungere ed afferrare i ritratti nelle singole scene o gli altri simboli dispersi sulla tela, quasi Burgert volesse ricomprendere tutti gli elementi d’una drammaturgia perfetta quanto solo accennata dentro uno scenario teatrale fittizio al cui centro resta l’individuo. Lui, specchio deformante di sé stesso nel tentativo costante di definirsi rispetto al proprio centro di gravità.



Ihr shon (suo belmondo)

Un’accumulazione o attanagliamento di figure dentro uno scenario onirico da fine del mondo appare, quasi l’immagine d’una nave naufragata e di una massa di corpi, detriti, tessuti, colori, oggetti, pensieri, demoni e entità alla deriva andando a fluttuare, riempire e saturare la mente come lo spazio artificialmente ricostruito sulla tela. Un accumulo di figure alla deriva affolla nella duplicazione, nel riempimento, nella ripetizione caotica, nell’esasperazione di presenza come si sprofondasse nella densità d’una mente saturata, occlusa da mille presenze fluttuanti di energia ed emozione. Riempire e dare colore, fare comparire simultaneamente sulla tela attraverso un principio di accumulazione ossessivo che Burgert pare estendere nello spazio e, allo stesso tempo, fare a pezzi la medesima o renderla quasi irriconoscibili nella densità oppressiva di colori brillanti e vivi, di olii splendenti o luminosi in verdi fosforescenti, aranci, giallo o indaco. Quel mondo esploso e deflagrato letteralmente nell’immaginazione appare rivoltato dall’interno all’esterno, scavato nei più piccoli risvolti, nelle pieghe, sui margini della psiche o dell’animo umano, nelle emozioni come nei sogni o negli incubi che d’esse si nutrono. Al centro una sola figura si staglia netta oltre la “linea di piombo” nello scandaglio visivo messo in atto dall’artista: lei nitida e perfettamente delineata rispetto alle altre. L’abito zebrato e lungo, il volto fisso e chiaro di fronte all'obbiettivo, l’intensità dello sguardo è puntato di fronte a noi contro la massa dei corpi rivoltati o mutilati, le presenze ingombranti e confuse che si dissimulano sullo sfondo. Tanto la follia, la distruzione, il disordine caotico di quel fondale sul quale una massa di nero immane a tratti come una minaccia, quanto la visione netta, chiara, nitida e in rilievo della donna del sogno al centro della scena: animale singolare e zebrato portato in primo piano e messo a fuoco rispetto al resto della savana.



Luft nach schlag

E’ un bambinetto qualunque, piccolo e insignificante rivestito della seriosità d’ un tailleur grigio fumo su cui si staglia unico punto di colore, il rosso d’una cravatta brillante in contrappunto. Il corpo è ristretto, ridotto quasi nelle dimensioni come fosse quello d’un individuo rimpicciolito, la bocca è barrata al parlare da rigature cineree volute. Se ne sta immobile in alto sul muricciolo di un edificio ad osservare un mondo in rovina disfacendosi ai suoi piedi. Su un piedistallo guarda le forme e gli oggetti in disfacimento sotto di lui, i muri colanti di olii e vernici, le macchie e i graffiti lacerati sulle pareti, le scalinate che conducono in basso aprendo quasi un varco nel sottosuolo, infine i blocchi di cemento cubici, trasudanti di nero, anonimi quasi in lontananza. Come testimone silenzioso è posizionato al centro di tale visione distopica e decadente della realtà, in tale immobilismo senza tempo o incubo che non lascia adito a salvezza. Sprofondiamo insieme a lui in un inferno di visione dalle dimensioni immense che si estense in orizzontale su tutta la lunghezza della parete della sala. Una serie oggetti simbolici ne scandiscono lo spazio: un tiro al bersaglio, un pagliaccio, un crocefisso, una maschera, una catena, campane e fantocci appessi. Poi ancora manichini, maschere, arti amputati e anfore colanti di linee nere e liquidi rigurgitanti al suolo, ingabbiature, cemento, travi di ferro tese come diagonali da una parte all’altra dello spazio. Tutto contribuisce a dare questa visione di un sottomondo degli inferi moderni dominato dalla solitudine essenziale dell’individuo quanto da una raggelante percezione o presa di consapevolezza della realtà muta, oscurante e senza risposte che lo circonda.



Vertrauter

Sono recipienti straripanti fino all’orlo di colore, paste semiliquide fosforescenti e oleose come si rovesciasse da un’anfora una colata di tenue vernice o di latte bianchissimo appena munto. In una stanza nuda, nell’angolo chiuso al fondo da due pareti un indigeno con un copricapo ricoperto di piume, uno sciamano e insieme l’alter ego dell’artista se ne sta immerso in questo universo di colore: uno spazio serrato, un angolo ritagliato sul muro di un antro grigio, spoglio e denudato d’ogni altra presenza. Aranci, rossi polposi o bianchi candidi, blu cobalto al suolo, gialli oleosi a metà rovesciati o dispersi in macchie irregolari, o ancora liquidi straripanti dalle anfore stracolme. Sono colori sentiti come recipienti vivi, paste oleose fatte di materia e sensazione, il gusto e il piacere quasi del maneggiarli come se l’artista e lo sciamano insieme fosse lì sul punto di officiare i loro rituali segreti o attendere il momento insperato dell’alchimia: la trasmutazione della materia grezza nell’ oro della creazione. Tale la metamorfosi insperata della pittura. Come afferma Burgert: “sulla tela tento di esasperare i colori trascinandoli all’estremo” fino a quando divengono intossicanti, esacerbati nel contrasto, velenosi quasi allo sguardo. Alcuni appaiono talmente estremi da diventare fastidiosi a vedersi. Ma è voluto: “i colori per me sono importanti in modo vitale, quasi fantastici.”



“Gifter” e “Ohne Title” (Padre e figlio)

“Mi sembra che noi esseri umani riconosciamo noi stessi senza veramente riuscire a comprenderci, la qual cosa porta a un esito grottesco: la battaglia dell’uomo con la sua propria immagine a specchio, o meglio la lotta per definire sé stesso. (..) Così nella nostra mente creiamo narrative individuali di noi stessi, esistiamo ora come divinità, eroi o pagliacci, con sfumature ciniche, grevi e disincantate, ora lucide e appassionanti in ambientazioni artificiali e strane.”



Se ne sta dritto in piedi, sobrio, rustico, solido e semplice. Dalla parvenza popolare, indossa una veste da artigiano usurata, pantaloni e scarpe da lavoro, un corpetto liso sotto il camice lungo fino ai piedi d’un verde fluorescente già in qualche tratto sbiadito. Si staglia netto nel contrasto con il monocromo del fondo, alle spalle una parete blu oltremare. Rustico, sobrio, auto-soddisfacendosi della propria esistenza nella giovialità d’essere, nella pienezza del momento appare accaparrarsi il proprio presente senza ripensamenti. Gioviale, sazio, si mostra con il volto florido, appesantito dagli anni, la punta del naso ridipinta con fare clownesco in nero, lo sguardo sfugge a quello degli spettatori, gli occhi socchiusi e il volto sono ripresi a distanza mentre la figura intera è posta su un piedistallo distanziante non senza ironia.


E' seduto e nascosto al di sotto del busto da un tavolo-parapetto in primo piano che funge da barriera al suo corpo; ne emergono le mani e il volto assente, malinconico in primo piano a distanza ravvicinata, poi le tenui, pallide striature ampie in un verde grigio cianurico e opprimente sulla pelle. Lui, lieve e argenteo è tanto in assenza quanto l’altro in presenza, tanto sbarrato o precluso al nostro sguardo quanto l’altro in piedi, esposto e messo a nudo su un piedistallo. L’uno condensa tacita intensità sull’enigma del volto in primo piano, giovane seppur prosciugato di ogni linfa vitale; l’altro espanso si riempie di saturante presenza nella quasi ritrazione dalla propria incombente vecchiaia. Come due opposti complementari i due ritratti si delineano l’uno accanto all’altro sulla parete, l'uno nostalgico quanto l’altro gioviale nel paradosso assurdo delle loro età rovesciate. Come due linee parallele avanzano ognuna sul proprio cammino senza mai ricongiungersi se non nel tentativo per assurdo dell'artista di creare un dialogo, là discendendo nel groviglio emozionale delle loro vite.

Falle, (la trappola)

Rivestito dei panni del destino, piccolo combattente al centro della scena, gioca a scacchi con la vita su di lui impressa come l’abito a scacchiera aderente alla sua prima pelle. Le braccia alate si prolungano in rami come armi di difesa incorporate, ali di scintillanti arbusti a fascio lo accompagnano prolungandosi a diagonale nelle opposte direzioni. Intensamente presente in primo piano, vivido, guardingo si muove al centro della scena. L’involucro di un abito svuotato, una testa svaporata a lato nella stessa tonalità fosforescente , all’opposto una scena si apre come una finestra dando su un vano retrostante. Un bimbetto laggiù si imbratta di vernici verdi smeraldo, forse in un antro dell’infanzia riaperto o dentro un’immagine onirica, subcosciente affacciandosi alla sua mente.

Figure spaventose, selvagge o semi-mostruose si ripresentano in primo piano: una scimmia, un manichino, il becco immenso di una creatura fantastica mentre lo spazio prende vita teatralmente e un tamburello si stacca da un chiodo, un braccio irrompe da una parete, la testa e gli arti di un manichino pendono su uno sfondo di vernice eclettica e fosforescente.



RITRATTI FEMMINILI

E’ maschera bianca madreperlacea, un volto di grande delicatezza e splendore attraverso un velo di bianca pittura a olio. Un cappello con un animale alato sulla sommità, il nero becco sulla forma verde smeraldo a metà visibile del copricapo di piume ne incornicia il volto pallido.

Bianchezza della mente, dello spirito e della forma in essa riflessa, candore dell’inaspettato suo apparire, lo sguardo si rivela sotto una coltre tenue e velata, ingannevole nebbia di rose e petali fioriti. Occhi scintillanti ci fissano attraverso quella cortina simulata di splendore.


“Spring essence”: tempo di primavera, l'idea di rinascita, un tripudio di colori estivi “esplosi" in petali, foglie, o coriandoli colorati che dal corpo discendono lungo le spalle e poi attraverso le braccia, lungo il busto fino a dissimulare la figura, confonderla e insieme magnificarla della sua aurea riflettente e acquorea.


La limpidezza d’uno sguardo messianico, nuovo e immanente di presenza in primo piano in “Halfte Schlafe”. Argenteo e cristallino, il giovane volto fissa lo spettatore dritto di fronte a sé, profetico e voyant nella sua ricerca di illuminazione, spingendosi molto più lontano oltre la “linea di piombo del presente”, oltre il grigiore denso di quella realtà che come il lungo mantello gli avvolge la figura precludendo a noi ogni altra vista. Strisce rosso rubino a incorniciargli il volto.



Il sé è cancellato in “Scheucht” da macchie di colore e dense pennellate che disfano il volto in coaguli di pasta e vernici distese per masse e colpi di spatola . Aranci, rossi carmini , verdi e ocra manifesti si trasformano in una pioggia di colori, una tavolozza di tonalità accese lasciate come tanta chiazze vivide al posto del volto scomparso.

GRANDI RITRATTI FEMMINILI

Leugne (negazione) e Laubt sich ( "il permesso di")

Sullo sfondo nero un abito bianco si disegna lungo e semplice in tela avvolgente. Una figura snella e allungata appare, esile e fine, le mani ridipinte in verde luminoso fluorescente come portasse guanti di seta. Il volto spento, ogni altro indice di luminosità e presenza estinti e, lei, fantomatica, lieve, si staglia, pallida proiezione di un sé stesso svaporato come un'ombra dimezzata d’ogni essenza vitale.



E' avvolta in un abbraccio di indaco e rosa, di bianco e lilla, un abbraccio di rami fioriti rossicci e primaverili. Come nel titolo, "il permesso di" vestirsi di colori vivi e abbracciare questi rami espansi in bacche rosse e frutti sbocciati come si abbracciasse la vita dopo una lunga pausa d'assenza , un lungo sonno letargico nella terra invernale. Il permesso di stringersi addosso quei rami fioriti, di lasciarsene avvolgere, imbrattare e adagiarsi nel loro rifugio di rose e di spine, di bacche e macchie colorate irradianti di rosso il volto e le labbra. Il permesso di diffondere e far rispendere intorno a sé quell'antro di pioggia e di cespugli germogliati. Macchie e pennellate di colore, bacche rossicce e purpuree cadono a macchia e punteggiano l'abito bianco casuale e atono, fino alle calze gialle sul grigiore del fondo. Avvolgono e stringono il busto completamente in un letto di rovi rossi e fioriti, di rose e di spine per delicatamente lasciarsi portare nell'abbraccio.

Winden (il vento)

Sono creature del sogno quasi, amazzoni o altre divinità dei boschi e delle selve, in una prima versione avvolte da corde bianche, in un’altra, da fasci aranci che come vento srotolano via dal corpo dissolvente al suolo . Disfano la figura avvolta e rovesciata ai loro piedi come fosse vento, come un nastro che srotolando fosse portato lontano dalle correnti. Il corpo di verde vernice fosforescente a poco a poco si eleva come spirale di fumo in aria, la testa già in parte svaporata, scomparsa. Il vento se la porta, la figura a spirale aerea tende a dissolvere mentre i nastri srotolano a poco a poco fino a imprigionare e serrare le altre due creature gemellate, stingendole l'una all'altra e poi ai loro piedi nell'impossibilità di districarsi. Groviglio, “Lotsucht”rivestito di fluorescente, vivido arancio.

Feinshaft, (fini legami)

E’ ancora la dualità, lo sdoppiamento e la coppia gemellare, anche visivamente delineata da corde colorate, di fili e liane inestricabili, a riapparire. Nastri rosso rubino serrano a spirale agli abiti, inevitabilmente legano e arrestano, indissolubilmente annodano e proteggono, tengono insieme ma anche imprigionano la forma speculare delle due figure.

Madre e figlio o figlia si direbbe dall'aspetto androgino: la prima dalle proporzioni maggiori rispetto all'altra, occhi aperti nella piccola, occhi chiusi nella grande. Nascondono, dissimulano e rivelano parte del corpo, parte del volto. Sono in fusione, in continuità in legame anche visivamente delineato là dove uno stesso nastro ricongiunge una all'altra avvolgendosi a spirale attraverso le braccia e il busto per lasciarsi cadere al suolo.

Lega in “scandagliodipendenza” i corpi, e li rende entrambi prigionieri, arrestati dentro quella gabbia di rossi filamenti. Purpureo cordone esistenziale cinge e unisce un'ombra gemellare all'altra e insieme soffoca, imprigiona. (elisa castagnoli)



Beloslava Dimitrova - La natura selvaggia

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Beloslava DimitrovaBeloslava Dimitrova - La natura selvaggia - Arcipelago Itaca Ed., 2017

Un libro feroce, questo che Emilia Mirazchiyska e Danilo Mandolini hanno tradotto dal bulgaro, da quel che so la prima opera della Dimitrova pubblicata in Italia. Uso un aggettivo volutamente forte, ma con niente di giudicante dentro, pensando semmai a tutte le eco che questa parola antica contiene, alla sua natura animale e animista. La natura è selvaggia, dice l'autrice, e noi ci siamo dentro, non al di sopra, biblicamente, per un diritto datoci da Dio, o a lato, con l'illusione di una strategia di fuga o trasformazione, ma proprio dentro, senza statuti o privilegi speciali. E' questa l'idea di fondo della raccolta, uno sguardo plurimo, dall'interno e dall'esterno di sé, su una condizione che non è nemmeno più umana, ma riguarda una natura appunto "selvaggia" e incoercibile. Non naturante, perché se c'è qualcosa che porta in sè non è il farsi ma il distruggersi, né naturata, perché non sembra né perfetta né recante il segno della mano di Dio. Somiglia semmai a quella leopardiana e matrigna de La ginestra ("Non ha natura al seme / dell’uom piú stima o cura / ch’alla formica..."). Per questo parlo di ferocia, e in più assoluta (ovvero priva di regole e norme), perché attiene ad una natura agnostica, in cui la presenza divina è assente, o  che Dio ha abbandonato a sé stessa.
Chi è che popola questa natura, a sua volta parte costitutiva di un mondo? Gli uomini, certo, ma anche gli animali, alcuni dei quali identificati, altri indistinti e inquietanti. Che però non solo sono intesi come una complessiva anima ferox, ma sono visti e descritti e proiettati nel corpo poetico da uno sguardo umano defilato, da una prospettiva decentrata e a tratti de-umanizzata, extracorporea, esercitata a volte con una singolare empatia, un mettersi nei panni, tanto che talvolta l'attore che agisce nel testo poetico è una creatura simbionte, un io "alieno"  che abita corpi diversi e li attraversa prestando loro la voce, una voce che diventa "interna" e che tuttavia mantiene una connotazione doppia. Ciò ovviamente per quanto possibile, perchè in fondo si tratta di un grande artificio retorico, che per certi aspetti non può che riportare alla mente il Gregor Samsa di Kafka, che si sveglia una mattina trasformato in un gigantesco insetto, e al senso del tragico di quella grande metafora. O, se preferite, le potenti raffigurazioni zoomorfe di Max Ernst.
Se gli animali/uomini sono emblemi anche, a mio avviso, di forze oscure che negli uomini agiscono per vie non sempre comprensibili, come una natura profonda, e insieme, come un riflusso di forze "altre" che dagli uomini si rivolgono contro la natura stessa, tuttavia il registro complessivo del libro è giocato su una violenza "fredda", talvolta su  una registrazione refertale degli eventi che "naturalmente" si svolgono, comprese le relazioni amorose amare e difficili, senza però che il senso di una tragedia comune ne venga minimamente sminuito. E' uno dei punti di interesse di questa poesia, questo sentimento di ineluttabilità implicita che si riflette anche su di un linguaggio teso, su "un testo che sembra scritto precipitando, dove prevale la denotazione per tratti rapidi, sincopati, quasi che non ci fosse più tempo per approfondire il senso della caduta e nemmeno più la pazienza", come scrive Stefano Guglielmin sul suo blog (v. QUI). Non sfuggono a questa ineluttabilità le relazioni affettive, i rapporti familiari, temi per lo più raccolti negli ultimi testi del libro, come se anche in essi risiedesse una difficoltà a svolgersi senza catastrofi, svolte brusche, lacerazioni delle carni. Anzi su queste relazioni sembra abbattersi una definitiva speranza nihilista "che il miracolo dell’evoluzione non accada / che non appaia l’uomo / che tu non appaia di nuovo / che sia soltanto io ad apparire" (in Essere umano, corsivo mio). L'uomo, in questa natura selvaggia, è un accidente.
Una poesia, quindi, drammaticamente originale, con tratti metafisici e visionari, tanto diversa anche da altri poeti dell'Est come quelli presenti su questo blog (v. QUI), soprattutto i giovani e i giovanissimi (Dimitrova è nata appena tre anni prima della caduta del Muro) che sembrano orientare in altre direzioni, più lirico-oggettive e con un occhio rivolto decisamente a occidente, la loro ricerca. (g. cerrai)

Sciagura

per non dimenticare la Pastarmà di bufalo
aggredita dalle vespe che di essa si nutrono
come divorando, bucandole, le budella
sono contenta di ciò che sto osservando
poi il riavviarsi del pensiero
che non è giusto dividere
la voce di tua madre dal corridoio
il rumore delle ciabatte trascinate
non gettare il cibo
lava le orecchie le mani la bocca
sii umile sii ubbidiente
togli questo ago dalla vena
il telefono è caldo
pieno di scarafaggi tedeschi


Fetus

il corpo sussulta
simulazione crescita di muscoli
il rinvigorire delle ossa
il cuore accelera
i 165 battiti al minuto
appare un’immagine del frutto nascosto
quadridimensionale in tempo reale
dovresti poter inghiottire
e digerire dall’inizio
il senso si compie veloce
il cordone ombelicale due arterie una vena
a volte completamente tese
altre volte aggrovigliate
le acque si rompono
la vita comincia
il miracolo muore


Cuore

fino ad oggi è stato un ammasso dormiente
di cellule muscolari
da circa il ventiduesimo giorno una cellula
spontaneamente si è stretta
ha eccitato quelle vicine
provocato reazioni a catena
e tutto il contenitore ha cominciato a pulsare
sono necessari cibo e ossigeno
verso le vene sottili come capelli
ci vogliono molte più risorse
per battere tre miliardi di volte


Rettile

il vivo penetra
io detto le condizioni
lentamente mi oltrepassa
quasi non mi sente
mi avvicino più che posso
tra poco deciderò
inietterò in te
una miscela di neurotossine e anticoagulanti
per paralizzarti e soffocarti
per provocarti una forte
inarrestabile emorragia
tutto in quattro secondi
assimilo il tuo unico odore attraverso il veleno
stringo i denti per il riflesso anche quando
sono morta
non è bello che di tutto questo mai
tu non possa dubitare


La natura selvaggia

la dea madre gelata è potente
la penso come un'entità viva
tutte le piante sono rannicchiate
gli animali sono in attesa
guardano e non si muovono
questo rito è importante
più importante della vita
ci prepariamo all'immersione nelle acque
tutti sperano
che la ragione umana venga a galla
bagnata e pura
siamo verdi o moriamo


Uccelli

due mettono su famiglia
hanno un figlio
per lungo tempo sono innamorati
una notte giacciono
nel loro letto
lei si alza
dice che se ne va
nel dormiveglia lui non sente bene
richiude gli occhi
lei vola via dal balcone
muore
senza spiegazioni e senza essere capita


Errore    

trovo una spiegazione nella tua deformità
comprendo perché doveva accadere
perché io l’esemplare normale persino bello
e tu no
stesso cibo e stesso ambiente
io sono il sano e tu l'ammalato
avvengono delle deviazioni nel divenire
così rilevanti
da generare anomalie
la reciprocità stabilita dei geni è distrutta
questo però accade in modo così rigoroso
da far immaginare la stessa situazione
ad un determinato intervallo di tempo
ripetersi al posto nostro


Vita oltre la Terra

«Noi non siamo animali genetici»

lui mi ha fornito gli stessi insegnamenti
siamo alla pari non abbiamo occhi
non è necessario nulla
allora io decido con tutta
la mia stoltezza e abnegazione eterna
di creargli di nuovo un occhio
possiamo farlo vero lo faccio
in qualche modo continuo a pensare
che sia possibile paragonarsi ai batteri
del Mar dei Sargassi
visto che la vita è comunque cominciata
una volta quasi senza niente
ed era una vita
bene, ora non posso restituirgli
gli occhi che per gradi sono scomparsi
ma lui se li ricorda
glieli do e già lo dimentica
perché la natura ha scelto noi mia cellula
sto gridando nelle tue orbite vuote
tutti ci hanno voltato le spalle
sanno che non ha senso disobbedire
o piuttosto essere perplessi
in ogni caso è un segreto
e a noi hanno insegnato
a non bere l'acqua
a non respirare
per essere in piena sicurezza


Essere umano 

  a A.

mi trovo a 2130 metri di altezza sul livello del mare
in altre parole sono seduto sull’abisso del mondo
tutto è ricoperto di vulcani e geysers
che vomitano vapore acqueo e acqua infuocata dallo zolfo
e di nuovo mi ricordo e ti chiedo come siamo arrivati a questo
punto
rigiro la roccia ti indico
ti mostro il letto pieno di batteri
caldo e poco profondo l’ambiente è lo stesso
spero che questa volta non sopraggiungano improvvisi
cambiamenti
che non ci siano complicazioni e mutazioni
che alla fine si chiuda
che le pinne dei pesci
non mutino
in arti
che non escano dall'acqua serpenti e rettili
che ad alcuni di loro non crescano le piume
che non diventino volatili
che il miracolo dell’evoluzione non accada
che non appaia l’uomo
che tu non appaia di nuovo
che sia soltanto io ad apparire


Ultimo   

Sei arrivato da me
per rompere i volatili
l'hai fatto così
in modo teatrale, da eroe
hai spezzato il collo
a tutti i miei oggetti
con quelle tue mani
con le quali per principio solo dipingi
nemmeno tocchi
tutti ti hanno visto
ti hanno visto!
ho reso torbidi i tuoi fiumi
tre volte e più
mi sono portata morta
sulla riva del mare
ho gridato e credo di aver
alzato la mano per colpire qualcuno

Mi sono ricordata solo
che per te ho scritto
delle torture d’amore

Non posso credere
che lo sto facendo di nuovo!


Note
- La Pastarmà di bufalo  è un tipico insaccato bulgaro.
- «Sei arrivato da me / per rompere i volatili». Si tratta di volatili decorativi di legno appesi al soffitto o al muro. Si è immaginato che fossero, appunto, così: decorativi ed appesi al soffitto o al muro.


Beloslava Dimitrovaè nata il 2 aprile del 1986 a Sofia, Bulgaria. È laureata in Lettere, Filologia tedesca e Comunicazione. Per alcuni anni ha lavorato alla Radio Nazionale bulgara come conduttrice di un programma pomeridiano orientato ai giovani ascoltatori; dal dicembre del 2016 lavora come giornalista per il sito "Sofia Live".
Alcune sue poesie sono state pubblicate in vari giornali, riviste online e cartacee (tra queste: "Granta", edizione bulgara della rivista internazionale) e lit-blog (come "Cartesensibili" e "Atelier online", dove i suoi testi sono stati tradotti in italiano). Alla fine del 2012 è stato pubblicato il suo primo libro di poesie Начало и край (Inizio e fine) edito dalla Casa editrice dell’Università degli studi di Sofia. Nell'aprile del 2014 è poi uscita la raccolta di versi .Дивата природа ( La natura selvaggia, Edizioni “Deja Book”) che, nello stesso anno, è stata prima nominata e poi premiata nell'ambito del Premio nazionale di poesia per un libro edito "Ivan Nikolov".


Brine Murray - Cinque inediti

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Di Brine Murray si sa poco o niente, è perfettamente inutile cercaClonmacnoise (Irlanda) - Interno del Temple Melaghlinrlo nei repertori bibliografici o in internet. I testi qui trascritti sono una scoperta di Carla Paolini, che li ha trovati su una bancarella a Limerick e li ha tradotti dall'inglese. Sono contenuti in un quaderno rigato di circa 80 pagine, con copertina rigida scura, recante il marchio di fabbrica Jefferson Smurfit, Clonskeagh, Dublin, apparentemente risalente ai primi decenni del '900. I testi, poco più di una dozzina, scritti con inchiostro nero bluastro, occupano soltanto le prime pagine del quaderno, mentre le restanti sono bianche (alcune di esse sono state evidentemente strappate, ma non in prossimità delle pagine scritte). Non è possibile sapere se le poesie fossero il nucleo di una raccolta, a cui comunque Carla Paolini ha dato il titolo provvisorio di Logovisioni, con riferimento a quanto il poeta scrive  in un brevissimo prologo  riguardo a parola e immagine. Il nome dell'autore si desume da una etichetta  apposta sulla copertina del quaderno stesso, sulla quale esso è tracciato con bella calligrafia. Brine è la forma gaelica di Brian, ed è per questo ed altri indizi che si suppone che Murray fosse irlandese.


My aim, in these compositions,  has been to  use  words the way a photographer uses his plate to shot a photo. A series of clicks which fix stagnant moments disquieted by the risk of the unexpected… of the extinction, sensations of anxiety, of uneasiness due to the lack of temporal flux: there is neither past nor future only a present which consents no escape.

In questi testi ho tentato di usare le parole come un fotografo  usa la lastra fotografica. Una serie di scatti che fermano momenti chiusi in cui si affaccia l'insidia dell'ignoto, dell'estinzione... sensazioni di inquietudine, di disagio in assenza di flusso temporale: non c'è passato né futuro solo un presente che non dà scampo.

Illustrazione: Clonmacnoise (Irlanda) - Interno del Temple Melaghlin, noto come Temple Rí (King's Church), Foto G. Cerrai (clicca sull'immagine per ingrandirla)


ONE

Inside violet hues
endlessly increasing in number
mingle other underground violets
a will
produces and stores them up
strata to strata
along a wide expanse
of fluttering flowers
with petals of photos
portraits
they vibrates long
before falling
to make us die


TWO

Swans cromium-plated necks
slip
in the dazzling light of water
looking for gentler stream
bound for the vastness of the delta
a double ring of field-glasses
eyes into
the proliferations of the wire-lichens
assaulting their feathers
the sky tamps down its layers
the lichens
swell wide
beyond the waterline


THREE

Rocky organ pipes
labyrinths oxigenated
by design variation
untuning
sound from sound
a code of initiatory recollection
to let impotence grow
of childlike rites
apotheosis of nothingness
disproportion of forces
framed
for a next elating
seed of eliminations


SIX

A voice off screen
over densities indifferentiated
by the gloomy gush of the grey
liquid claws
scraping the obstacle
to its demolition
tongues of rasping water
touch the far rim of the clouds
close rings of catastrophe
coat the video
the off screen voice
ties the things to their conclusion
and lets them vanquish


SEVEN

The proud slash of the lighthouse
is a beaming intelligence
that water is eager to sip
a wandering ship
keeps stranded in the disparity
dominion of the rocks
on the ocean sea
obscurity upon obscurity
prevents the scissures to reset
the rescuing unit comes to haven
calmly the lighthouse keeper
comes down the steps
his duty is over

UNO

Nei viola che si moltiplicano
entrano altri viola sotterranei
c'è una volontà che li produce e li accumula
falda contro falda
su una sterminata prateria
di fiori mobili
con petali di fotografie
ritratti
che vibrano a lungo
prima di cadere
per farci finire




DUE


Cigni dai colli cromati
navigano
sul barbaglio dell'acqua
cercano correnti leggere
verso l'ampiezza del delta
un doppio cerchio di cannocchiale
spia
la proliferazione dei licheni metallici
che aggrediscono le piume
il cielo comprime giù i suoi strati
i licheni
si espandono
oltre la linea di galleggiamento


TRE

Canne d'organo rocciose
labirinti ossigenati
da varianti d'intenzione
che sfiatano
suono da suono
un codice di richiamo iniziatico
per estendere l'impotenza
di rituali adolescenti
apoteosi di nullità
sproporzione di forze
predisposte
alla prossima esaltante
semina di soppressioni


SEI

Una voce fuori campo
su densità indifferenziate
dai rigurgiti cupi del grigio
artigli liquidi
che scrostano l'ostacolo
fino all'abbattimento
lingue d'acqua rasposa
toccano l'orlo basso delle nuvole
anelli stretti di catastrofe
si spalmano sul video
la voce fuori campo
lega le cose al compimento
e fa si che esse si compiano


SETTE

La sciabolata orgogliosa del faro
è intelligenza radiante
che l'acqua beve a sorsi
una nave senza guida
si è incagliata nella disparità
dominio delle rocce
sul mare oceano
l'oscuro accumula l'oscuro
e impedisce alle scissioni di ricomporsi
l'unità di soccorso torna alla base
il guardiano del faro
scende con calma i gradini
e chiude il turno


Bernard Noël - Due poemetti

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Bernard NoëlDue poemetti di Bernard Noël, tradotti da me, tratti da La peau et les mots - Flammarion 1972, nei quali il tema principale è il corpo, dominante anche nella sua opera più nota in Italia, Extraits du corps (1958, trad. italiana di Donatelle Bisutti 2001), in relazione al linguaggio e a quel concetto, elaborato dallo stesso autore, di sensure (omofono di censure), privazione di senso della parola (comprensione, estensione, significato), uno snaturamento a causa dell'abuso della lingua, una "inflazione verbale che rovina la comunicazione all'interno di una collettività, e di conseguenza la censura", di cui il potere è il primo artefice e responsabile. La parola (e il linguaggio poetico) è qui ridotta alla significazione essenziale, anche quando deve riferirsi a situazioni e dinamiche complesse come l'amore o l'eros, o alla più cruda fisicità, finanche scatologica, del corpo.

Bernard Noël è presente su questo blog in altri post (v. QUI), a cui rimando per una maggiore comprensione dell'autore e del suo pensiero anche teorico, insieme all'interessante articolo di Viviane Ciampi su Fili d'aquilone (v. QUI). - (g.cerrai)




contro-morte

25/29 settembre 1954



io
che scavo sotto la mia pelle ogni giorno
io non ho sete
di verità né felicità né di nome
ma della sorgente di questa sete
io non porto in giro il mio piccolo demone ben educato
ne ho diecimila che mi rodono
e io sorrido loro
non come una Gioconda
non come un budda distante e soddisfatto
non come uno yogi dall'anima allenata con cura
ma come un uomo
per cui nessuna strada è quella buona
e
man mano che lo scavo là sotto si ingrandisce
strane macchine m'appaiono nel corpo
e dapprima questo occhio che è spuntato alla base del naso e
             che mi fa dubitare del valore dei miei occhi
condensazione dello sguardo
triangolo all'interno del mio cranio




triangolo senza base come un imbuto dove precipitano
le grida venute dal midollo spinale e dal ventre
(dal ventre da cui emerge un enorme fascio
di radici flessibili e dure come
aghi d'acciaio)
triangolo dove pareti incandescenti tracciano nel
cervello una ustione che prosciuga
una ustione che è la presenza stessa
la presenza delle cose che entrano in me come una
discarica
una discarica che spezza le squame
spezza la paglia e la trave
spezza il filtro e i denti




bisognerebbe dire come
dire la visione chiara di quest'occhio
che non ha tenerezza, compassione né cinismo
ma che è vuoto
e inesorabile




come una nuvola di api sopra il baratro
la presenza si avvicina
zampe di miele
tepida dolcezza
e
subito
mille punture di freccia
nessun' altra uscita che il salto
ma
IL VUOTO SOSTIENE
gli occhi guardano attraverso il solo occhio
e nella densità di mezzodì
le cose mi entrano nel corpo
lo spazio si avvolge
dentro è immenso




allora
tentazione di organizzare subito la conquista
e di goderne
sorge il sole sotto le spalle
ho un'anima
capisco
e la coscienza si crede l'essere
ecco il regno dello strumento
allora
la grazia caca nel cervello
e la convessità del corpo
tocca quella del cielo
e io dormo
come un dio tornato alla gola del padre




bisogna dire
no a no e no a no no
bisogna riattraversare la pelle e vuotare fuori tutto questo
dentro
bisogna piantare gli occhi sul fianco rosso dello scorticato
e leccare il collo delle sue vertebre
e precipitare in questo buco
e sguazzare nel suo ventre
e cagliare il suo sperma
bisogna forarsi gli occhi per bere lo sguardo
degli antenati
e la distanza tra la fine e il principio
con un gran lappare di gengive molli
bisogna suo malgrado
malgrado i libri e il dolore
malgrado la pietra nera dell'occulto e gli alfabeti
della divinazione
e la ruga della simmetria
e il senso unico del cuore




IO SONO BENCHE' IO PENSI
e che mi guardi pensare
obbligandomi a cacarmi da me nella merda
del mio pensiero
invece di irraggiare
immobile
al pari del sole




come lo spazio si spande nell'universo tutto intero
così il tempo tutto intero si distende
e dall'uno all'altro circola una gravità
analoga a quella che estrae dalla mia carne
il mio pensiero
secondo un ingranaggio mai detto
benché la sola cosa sia da dire




che silenzio
che sguardo
in questo momento del riflusso quando la vita lascia a secco l'osso
della struttura, e la scia dei nervi
in questo momento quando l'intuizione si desta malgrado la tempesta
dei gesti e del sapere
in questo momento del fondo dove la carne lascia apparire
le vecchie tracce in  fondo a cui stilla il sorriso
che fabbricò gli dei




e la coscienza
fra i denti morti degli antenati
non è più che il coltello di pietra  per fare a pezzi
l'apparenza
allora
l'occhio
avvita
lentamente
il suo sguardo
nel cervello
e il dolore al rallentatore fora
e separa
tanto e così bene che traspare il circuito
tra materia e non materia
il vecchio ingranaggio
tra il me che tiene la carne aperta
e l'io che se ne è nutrito




allora
luce
bianca
dappertutto
come se la carne fosse raschiata da sotto
come se una ad una
ogni cellula fosse portata al bianco dal fuoco che è
nel fuoco
e dalla bocca dalla bocca dalla bocca escano
le mille piccole zampe invisibili di QUELLO
di quello che perpetuamente cola nella cavità del mio
contro-corpo
per agglutinare il mio tempo e il mio io




ma la luce si spenge
ed ecco di nuovo il mio corpo con i suoi buchi i suoi occhi
e la cavità della sua cavità
e la colata di sale il tubo di saliva il grande cantiere
della defecazione
il doppio otto del sangue e il mare di dentro dove ruttano
rantoli
e la visione non è che il passo doloroso d'una vite
estirpata




io mi rammento
e qualcosa fa tristezza
per sviluppare questo momento
quando il corpo traspirava pensiero
quando il pensiero cavava dal suo stampo il corpo




il gioco del tu noi io

1968
a Marijo e Bruno Roy


allora tu hai pensato




non capisco più



e subito
la morte dentata
il vuoto




risali risali
gridava la voce




ma già tu cadevi così in fretta che l'iride
dei tuoi occhi si era fatta bianca




oh volto
bocca cucita
la tua asola di silenzio




e dentro
tu cadi




chi
chi ritornando a sé
riconosce senza un brivido l'altezza della sua caduta
e i tanti buchi sul muro del tempo
che la memoria è un dolce di miele amaro




e dentro
tu cadi




e questo ricomincia
e non ha più fine
e tu pensi io io io cado




ma cos'è che io
cos'è che io penso




naturalmente, ti vien detto, il sonno è un'
altra vita di cui bisogna tener conto




e tu dici




mi rammento




usciva da me
come un'ombra bizzarra
e ciò che evaporava                ero io
e perciò ciò diceva                   io
e ancora io




senza pensarci




c'era una fronte
c'era la notte
e tu cadevi
dentro




l'ombra è meno profonda della mia sete
protestavi tu




da qualche parte
la tua caduta s'impigliava a un volto




c'era del noi nell'aria
(nella cavità sempre più cava dell'aria)




qualcuno passava




la morte è blu
le donne se ne fuggono con la luna




chi




e ogni bocca fa nascere un io




chi




griderà bugie in un buco




qui e ora
ecco in te il ricordo di te
ed è io




strano nome lo stesso per tutti
corto come un grido in tutte le lingue
e due miliardi di bocche
con questo grido dentro
grido di qualcuno che cade in sé
grido dal fondo di un pozzo




e lui dice




voi avete visto il mio doppio
io mi allontanavo da me
ero questo fumo
come l'ombra di un'ombra




e io dico




basta poesia
guarda come tu ti guardi




ma
in questo istante




anche le mie budella urlano io io io
e lo si scortica nel mio ventre
e mi si segano gli occhi
e io grido io




chi può sapere




ci sono tante bocche in fondo a sé stessi
tante bocche per una sola lingua




allora ti siedi davanti alla tua propria morte e
aspetti




e poi
la tua carne ha fame




metti la tua poesia nella tasca
liberi una gran risata
e




non si finisce di finire
dici




e




come il tempo passa




e




mangia la tua morte




immagina
immagina
la macchina da cucire cerca l'ombrello




che importa
ecco i miei nervi le mie ossa
o anche parole di parole
tutto il mio sputo




d'altronde
tu cadi




d'altronde tutto ricomincia
e questo fa così tanti visi
che un dio si direbbe sbucci la sua faccia




ma che somiglia a sé stesso
e che non grida
il mio volto è la prigione dell'amore




tu io
tu ti io




- Chi è?
- Tu.
- Ed è chi?
- Un altro nome per l'altro nome.




raddoppia
raddoppia
dice la voce




e il dio riprende i suoi volti
che si incastrano come una matrioska




ridere
bisogna pure
quando lo scorticato incolla al vetro i suoi occhi di
porcellana
che nuotano nel sangue




immagini
immagini




ci sono foglie sul mio albero
e la mia logica gira in tondo




che
si bagna due volte nello stesso vento
che
si risveglia sette anni nello stesso corpo




l'unità non è che una malattia
come la sete nel deserto


*****



contre-mort

25/29 septembre 1954




moi
qui chaque jour creuse sous ma peau
je n'ai soif
ni de vérité ni de bonheur ni de nom
mais de la source de cette soif
je ne promène pas mon petit démon bien policé
j'en ai dix mille me rongeant
et je leur souris
non pas comme une Joconde
non pas comme un bouddha satisfait de son détachement
non pas comme un yoghi à l'âme soigneusement musclée
mais comme un homme
auquel tous les chemins ne sont pas bons
et
à mesure que le creux là-dessous va grandissant
d'étranges machines apparaissent dans mon corps
et d'abord cet oeil qui a percé à la racine du nez et
             qui me fait douter de la valeur de mes yeux
condensation du regard
triangle à l'intérieur de mon crâne




triangle sans base tel un entonnoir où s'engouffrent
            les cris venus de la moelle épinière et du ventre
            (du ventre dans lequel pousse un énorme fais-
            ceau de racines flexibles et dures comme des
            aiguilles d'acier)
triangle dont les parois incandescentes tracent dans
            le cerveau une brûlure drainante
une brûlure qui est la présence même
la présence des choses qui entrent en moi comme une
            décharge
une décharge brisant les écailles
brisant la paille et la poutre
brisant le filtre et les dents
il faudrait dire comment
dire la vision claire de cet oeil
qui n'a ni tendresse ni cynisme ni compassion
mais qui est vide
et inexorable




tel un nuage d'abeilles au-dessus du gouffre
la présence approche
pattes de miel
douceur tiède
et
soudain
les mille piqûres des dards
il n'y a pas d'autre issue que le saut
mais
LE VIDE PORTE
les yeux regardent à travers le seul oeil
et dans l'épaisseur de midi
les choses entrent dans mon corps
l'espace se retrousse
dedans est immense




alors
tentation d'organiser aussitôt la conquête
et d'en jouir
il fait soleil sous les épaules
j'ai une âme
je comprends
et la conscience se prenant pour l'être
voici le règne de l'outil
alors
la grâce fait caca dans la cervelle
et la convexité du corps
touche à celle du ciel
et je dors
comme un dieu remonté dans la gorge du père




il faut dire
non à non et non à non non
il faut retraverser la peau et vider dehors tout ce
         dedans
il faut planter les yeux du côté rouge de l'écorché
et lécher le col de ses vertèbres
et tomber dans ce trou
et patauger dans son ventre
et baratter son sperme
il faut se crever les yeux pour boire le regard des
          ancêtres
et la distance entre la fin et le commencement
avec de grands lappements de gencives molles
il le faut malgré soi
malgré les livres et la douleur
malgré la pierre noire de l'occulte et les alphabets
           de la divination
et le pli de la symétrie
et le sens unique du coeur




JE SUIS BIEN QUE JE PENSE
et que je me regarde penser
m'obligeant à me chier moi-même dans la merde
            de ma pensée
au lieu de rayonner
immobile
tel le soleil




comme l'espace est étalé tout entier dans l'univers
de même le temps est étalé tout entier
et de l'un à l'autre circule une gravitation
analogue à celle qui tire de ma chair
ma pensée
selon un engrenage jamais dit
bien qu'il soit la seule chose à dire




quel silence
quel regard
à cet instant du reflux où la vie laisse à sec l'os de
         la structure et le sillage des nerfs
à cet instant où l'intuition se lève malgré l'orage des
         gestes et du savoir
à cet instant du bas où la chair laisse apparaître les
         vieilles traces au fond desquelles suinte le sourire
         qui fabriqua les dieux




et la conscience
parmi les dents mortes des ancêtres
n'est plus que le couteau de pierre à dépecer
           l'apparence
alors
l'oeil
visse
lentement
son regard
dans le cerveau
et la douleur au ralenti perce
et sépare
tant et si bien que transparaît le circuit
entre matière et immatière
le vieil engrenage
entre le moi qui tient chair ouverte
et le je qui vient s'y nourrir




alors
lumière
blanche
partout
comme si la viande était raclée d'en dessous
comme si une à une
chaque cellule était portée au blanc par le feu qui est
            dans le feu
et de la bouche de la bouche de la bouche sortent
            les mille petites pattes invisibles de CELA
de cela qui perpétuellement coule dans le creux de mon
            contre-corps
pour agglutiner mon temps et mon je




mais la lumière s'éteint
et revoici mon corps avec ses trous ses yeux
           et le creux de son creux
et la goulée de sel le tuyau à salive le grand chantier
           de la défécation
le double huit du sang et la mer du dedans où rotent
           tant de râles
et la vision n'est plus que le pas douloureux d'une vis
           arrachée




je me souviens
et quelque chose fait le noir
pour développer ce moment
où le corps suait de la pensée
où la pensée démoulait le corps




le jeu du tu nous je

1968
à Marijo et à Bruno Roy


alors tu as pensé




je ne comprends plus




et tout de suite
la mort aux dents
le vide




remonte remonte
criait ta voix




mais déjà tu tombais si vite que l'iris
de tes yeux était devenu blanc




o visage
bouche cousue
ta boutonnière de silence




et dedans
tu tombes




qui
qui vers soi-même revenant
reconnaît sans frémir la hauteur de sa chute
et tant de trous au mur du temps
que la mémoire est un gâteau de miel amer




et dedans
tu tombes




et ça recommence
et ça n'en finit plus
et tu penses je je je tombe




mais qu'est-ce que je
        qu'est-ce que je pense




naturellement, te dit-il, le sommeil est une
autre vie dont il faut tenir compte




et tu dis




je me souviens




il sortait de moi
comme une ombre bizarre
et cela qui s'évaporait                c'était moi
et pourtant cela disait                je
et encore je




sans y penser




il y avait un front
il y avait la nuit
et tu tombais
dedans




l'ombre est moins profonde que ma soif
protestais-tu




quelque part
ta chute accrochait un visage




il y avait du nous dans l'air
(dans le creux de l'air de plus en plus creux)




quelqu'un passait




la mort est bleue
les femmes s'enfuient avec la lune




qui




si toute bouche fait surgir un je




qui




criera au trou à mensonge




ici et maintenant
voici en toi le souvenir de toi
et c'est je




drôle de nom chez tous le même
court comme un cri dans toutes les langues
et deux milliards de bouches
avec ce cri dedans
cri de quelqu'un qui tombe en soi
cri du fond d'un puits




et il dit




vous avez vu mon double
je m'en allais de moi
j'étais cette fumée
comme l'ombre d'une ombre




et je dis




assez de poésie
regarde comme tu te regardes




mais
à cet instant




ma tripe aussi hurle je je je
et l'on écorche dans mon ventre
et l'on scie mes yeux
et je crie je




qui peut savoir




il y a tant de bouches au bout de soi-même
tant de bouches pour une seule langue




alors tu t'assieds devant ta propre mort et
tu attends




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