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Vladimir D'Amora - Neapolitana membra



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Vladimir D’Amora - Neapolitana membra - Arcipelago itaca Edizioni


Il tema è la forma, in un certo senso. Per quanto questo non sia sempre vero, può esserlo quando in un libro si parla di Napoli, è Napoli la fonte di ispirazione, lo scenario e insieme la protagonista principale, seppure come voce fuori campo. Naturalmente Napoli in questo libro non è un "oggetto" poetico o non solo, non può esserlo in sé, appartenendo di fatto ad un mito speciale. Magari - qui - di una mitologia privata, un luogo astratto e concreto insieme ("è un luogo più reale / per la terra è un realissimo / collante"), un luogo solo e soltanto in cui certe cose della vita, proprio quella dell'autore - private - , avrebbero potuto accadere. Un luogo complesso nel quale la complessità della vita si materializza, forse più che altrove. In altre parole scenario ed elemento strutturante insieme, che c'è, esiste anche quando viene nominato appena. Sia la città/scenario sia quel che in poesia si narra, non possono naturalmente essere rappresentati che per lacerti di un corpo, per membra, compreso quel tanto di sessuale, non necessariamente esplicito in parole, che ogni tanto emerge. C'è quindi, per questa connessione sotterranea, qualcosa di sincopato che si riflette nel linguaggio e che si esprime in quel tanto di "jazzistico" e di equilibrio ricercato, una certa "propensione verso la scrittura di ricerca e lo sperimentalismo in generale, non ripudiando però, dall'altra, l'eco lirica" (dalla motivazione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”, vinto dalla raccolta). Ricerca e sperimentalismo che per la verità, a mio avviso, si esplicano per lo più in una lingua fortemente ellittica, spezzata, nel rinvenimento di elementi lessicali contrastati e "duri" (e raramente dialettali), nel ricorso talvolta ad andamenti prosastici, o ad un enjambement estremizzato (specie nel"narrativo"), ma che nel complesso non è "chiusa", anzi lascia al lettore un ampio margine di interpretazione, un ampio spettro di suoni e colori, insomma una varia e diversa leggibilità. E' in questo senso che l'equilibrio di cui parlano gli estensori della motivazione è quasi totalmente garantito, non dimenticandosi però, l'autore, che "la lingua è una torsione elementare", tanto più in poesia dove ci viene consegnata con una sua "conformità" per essere restituita diversa.
Per il libro di D'Amora valgono molte delle cose generali che ho scritto QUI, parlando de La disarmata, raccolta di autori vari che ruota anch'essa intorno alla città partenopea. Forse qui in un certo senso ce n'è meno, di Napoli, e alla fine non si può parlare nemmeno di una poesia urbana, per quel tanto o poco che questo significa, pur mirando nel contempo (parole dell'autore) a uno "stile dell'asfalto". Per quel che appare Napoli (o napoli, minuscola e confidenziale) è una città introiettata nell'animo (l'anima lasciamola all'imperio di altri), in tanto apparentata con un "deserto ordinato da milioni di dei", dei che hanno abitato la città ma che tuttavia - aggiungerei - hanno abdicato da secoli. In questa città/sostrato è quasi naturale rinvenire non tanto e non solo un passato mitico e eroico che in vari modi sedimenta in cultura (e certo anche in scrittura) ma anche inquietanti "mappe / di una futura scena, di una crisi", a sua volta non tanto e non solo intesa in senso economico o politico quanto piuttosto in quello di un privato quotidiano transeunte, nel quale l'autore sente che "tutto è posteriore a tutti", e dove è in essere un "dogmatico accadere immemore". Dicevo introiettata perché quando D'Amora parla esplicitamente della città in effetti parla di sé e per sé, allegorizza la città come un sé ugualmente complesso e problematico che con Napoli è in rapporto dinamico e circolare, esattamente come quando si trova a parlare d'amore o de "i fiori che pendono falsi / da tetti più sacri", quei fiori che forse "urlano", fanno "voci", aprono la bocca, come molte altre cose che sono ipostasi di una realtà che l'autore vive quotidianamente, e che rimane, persiste, vince la morte, ed è - ricordo - "posteriore a tutti". (g.cerrai)


*
Napoli oggi è nel suo inverno statico e pressante,
è una lettera morta che la luce sarà
domattina per chi luce ricordando il giorno,
nuovo giorno e per ogni e nuovo sole
sorgere di un lento battito, stretto ai pochi
gesti nel quotidiano lungo un anno.
Forse avremo bisogno dei ricordi
nella scrittura tutelata nella noia:
saremo come figli seduti alla distanza,
occhi e parole rosso-rabbia incerta
ai primi raggi. Avremo la ragione dei nati
a vivere tra braccia lungo viali e
primavere in questi anni tutti paralitici.
Sarà costante idea la bianca presa
e il latte speso in una città di polvere
biostorica mai tolta, già sottratta.



*
nelle celle di tufo blu
era memoria di guerre interne
costosa, codarda
sottomissione pei grigi vicoli
che alitano bruciate femmine
talianti, prima d'aprirla
'a vocca rossa, l'oro
dalla punta nera e lo slancio,
legato a fili verdi, in turbe
umane e l'onde di maestri
fanciulli i tuffi
nel mare l'invincibile
lordura civica
in questa gabbia
d'infinite perdite per l'uomo solo
questa sua arsa
speranza di una spina.



*
A sera capitano ancora eventi di una speciosa traspropriazione a dire che la relazione che il politico è, s'inabissa corta nelle frenetiche rivendicazioni di distanza.
Nel cerchio del Vomero ove circolano indifferenti i mercanti d'anime e quasi come a Seul il resto da finestre inquadrate da architetti mai ringiovaniti, sono scorti i passi dell'imminente fine: è il reggerla, la novità che ha trasformato l'immobile respiro in una esatta maniera della vita: internamente quelli coi capi vivi nelle vasche umane, chiedono il potersi aggirare pesanti nei metri consentiti, quasi i corpi loro come dei muti segnali si specializzassero nella sopravvivenza accelerando le trasmissioni di pochi punti di parola.
Le ossa che dalla bocca riescono sputate con la gagliardia feroce e quanto mancano i santi ed i filosofi non imprestati da televisioni in queste abbreviate luci lo starnutire diverso è un gioco prodigioso e tu di un'altra epoca diffranta.



*
Napoli, nel novembre dell'anno duemila e quattordici,
è un luogo più reale
per la terra è un realissimo
collante. Le sue terse
illusioni nella vece del saluto
sperano intese
lo zero e la realtà
più dura del metallo. E con l'odore
di possibile oh stringa forte
un piano o uno sciupio
feroce.



*
Riaccolti solo i segnali dell’impiego
uscimmo dall'estrema faccia della gioia.

Un calvario perfetto, senza
colore che rispondesse
ai farmaci, alle stonate ansie della fine.

Desiderai già sul balcone,
calcoli chinati e richieste di sale e sete e
ci salutammo,
confortati in un'angoscia. Il sole, Napoli
in autunno
che già chiamavo gelo
col viso
verificato dal silenzio.

E procedere su orme che si rifiutavano,
e soli e cestinati. Tendesti la mano:
mi coprì di voce chimica
questa forma del perdono, del mescolarsi
di ragioni inferte al chiodo, un unico
lenzuolo somigliante a tutta
la luce pallida e impredicabile del dilatato e solito
bagliore: era il demone che aveva
disegnato fili, spenta
la carne. E colava
essere sul petto, già scoppiato. Caddi così
nella tua sera, tu dentro al ventre mio.



*
amoremio
quanto sei bella nella forma della napoli rifatta
tu sembri
quella storia lasciata sui bordi
di una bocca ed una
sola roccia di chimica lotta
nella posata luce; io comincio
con il ritmo di meschonni
ma come nei miti le navi
che corrono al vuoto desiderio di un'altra
umana forma, così tu
amoremio
tu mi sei astante
fiore di un bacio
nell'alveo disfatto dal borghese.



*
Napoli. Il sole sopra ai tetti,
le giovani
anìmule che fetano la vita a denti lisci.

Un cane allucca al vento, costretto
dalla moda:
urla la morte, ed è vaneggiamento. La vena discoverta
l'ultimo destino, e ammore
è fantasia –
montate già nell'intimo le morse risorse di listino.

Piano piano s'inabissa il canto
'e cunti
due nari richiamano dolore assunto
a terapia nell'al-di-qua-del-porno.

Essere uno di montaggio,
donna di piacere e gusto,
pali d’insensata febbrile garanzia
come una carica e tensione introducendo all'apice
di mire che scambiano reietti sorsi.

E pulsa introversione.



*
i fiori che pendono falsi
da tetti più sacri
l'apparenza è la vittima
ferro battuto da vento
da infamia
fa caldo i
cieli di luglio
sui libri e i secchielli bambini
un torso dell'uomo
è parte d’eterni rifiuti di
napoli
splendori veloci
pompini da stalla
la scolta africana la scena
la fame e poi loro che no
che hanno detto che no
che non ti conoscono




Loredana Semantica - L'informe amniotico e inediti



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Loredana Semantica - L'informe amniotico - Limina Mentis, 2015
Loredana Semantica - L'informe amniotico - Limina Mentis, 2015

L'informe amniotico [appunti numerati e qualche poesia]è un'opera prima, già finalista sia a Opera Prima 2012 (di Poesia 2.0, e già in quell'occasione lo avevo letto, facendo parte del gruppo selezionatore), sia al Lorenzo Montano dello stesso anno. E sinceramente mi fa sorridere il fatto che lo sia, che sia un'opera prima, qualcosa che si accosta mentalmente all'acerbo, al primaticcio, al sorgivo e comunque a qualcosa intrisa di "divenire". Sorrido sapendo bene che in Loredana c'è invece una collaudata coscienza poetica, una esperienza sul campo di anni, una presenza competente molto defilata, per molto tempo celata dietro pseudonimi (e chissà che anche Semantica non lo sia), come quella Alivento con cui aveva animato blog letterari come "Via Delle Belle Donne" o "Tellusfolio", per lo più però con rubriche e note piuttosto che con testi poetici suoi, di cui in fondo è abbastanza parca (diverse tracce e notizie si trovano ancora QUI e QUI), preferendo comunque una pubblicazione "virtuale", che è possibile reperire su ISSUU. Dimostrazione è qundi forse proprio questa sua "opera prima", dimostrazione cioè anche di una riservatezza che non diminuisce la poesia rinchiudendola ma semmai la incastona in una visione personale, intima e raffinata, dove è necessario andarla a cercare,  attraversando l'etere.
Di questo libriccino parlo con ritardo e anche buon ultimo, dato che se ne sono già occupati a suo tempo Stefano Guglielmin (QUI) e Deborah Mega (QUI), ma tant'è. Potrebbe essere quindi una buona scusa per parlare d'altro, per così dire, in maniera ellittica (qua stiamo, infatti).  Loredana è già stata in questo luogo, circa dieci anni fa (v. QUI), con qualche poesia su cui scrissi una nota, seguita - cosa poi divenuta rara in un blog - da un piccolo dibattito ancora utile da leggere. In quella occasione avevo posto l'accento su alcune caratteristiche della sua poesia, di una poesia esistenziale dispiegata su uno scenario "freddo", arricchita da una scrittura "significante", densa di elementi pittorici, fonici, timbrici, ritmici, entro i quali la parola a volte si dissolveva o si guardava allo specchio, con qualche innamoramento. Una scrittura interessante e personale, appunto, in cui l'elemento drammatico, una inquieta e disillusa visione del mondo e della vita, fluttuava in maniera aerea, trovava per così dire un suo ambiente naturale, diveniva permeabile al lettore.
In questo libro l'approccio a tematiche che sostanzialmente non sono cambiate è più strutturato. Se l'idea di fondo è ancora quella di un  magma di difficile solidificazione, di un caos a cui è quasi impossibile e insieme imperativo tentare di dare una forma e un senso, tuttavia ora c'è il tentativo di includerlo in qualcosa di organico, che ci circonda e in qualche modo ci nutre. Se l'indeterminato, il caso, l'accidente, l'incontrollabile fanno parte della nostra vita, possiamo dire allora che sono la nostra vita, o almeno sono il contenitore che ci genera, in cui la vita nasce e si svolge. La ricerca di senso, come una ricerca che si rispetti, avviene à rebours, partendo dalla decostruzione del risultato finale, come una operazione di reverse engineering, fino ad una "foce", quando "si ritorna all'uno, al grembo della madre". Questo "uno" non è solo (o forse non è) un unum  trascendentale a cui tutto si riduce, ma è anche il punto terminale di un conto alla rovescia, di una danza delle ore che parte da una sessantanovesima ("alla sessantanovesima ora deglutì il passato") e va all'indietro (o forse in avanti, chi può dirlo?). Per la verità c'è anche uno "zero", che sembra segnare un "oltre", una rottura dell'amnio verso una realtà destinale, un annullamento in seno alla natura - una maiuscola "Madre nostra" - al pari di tutti gli esseri viventi. Deglutire il passato è azione primaria di questa ricerca, riportarlo ai suoi "nutrienti" essenziali, che sono non necessariamente momenti memorabili, forse più insospettabili, anche minimali, punti su cui si incentra una diversa prospettiva della stessa realtà già vissuta, dispersa in momenti che tuttavia hanno avuto il loro significato, in un "futuro già accaduto", con una "preveggenza esperita a posteriori", come scrive Rosa Pierno in una delle note introduttive. Forse il percorso a ritroso non è un procedimento nuovissimo (penso a illustri poeti francesi come Jacques Dupin, penso dalle nostre parti al "Diario inverso" di Lucianna Argentino - v. QUI), ma qui è sostenuto dal fatto di non essere esaustivo, di non essere "narrante", di lasciare dei cavedi nei quali il senso (del lettore) rimbalza o rimane sospeso, grazie anche ad un sentimento di indeterminazione corroborato dal ricorso ad un vocabolario essenzialmente astratto, che aumenta quella permeabilità di cui parlavo prima, o riferito a una concretezza di oggetti che però sono segnacoli di un quotidiano ripetibile, di una non eccezionalità. Sembra che Loredana registri la sua verità "come se stesse prendendo appunti" (Guglielmin), ed in effetti è così, per ammissione stessa del titolo. Ma a me pare però che la inchiodi sulla pagina (anche con quei punti ricorrenti nel testo, come chiodi cristici, nota Guglielmin, e infatti la croce è spesso nominata), come nell'urgenza di salvare ogni frazione salvabile, con la coscienza - come scrive - che ".non è facile ancorare lo spirito alla terra. la carta al suo pensiero". La tollerabilità del vivere la si misura in questo ancoraggio delle cose (usiamo questo termine generico) alla parola poetica, e viceversa. Inevitabilmente, anche in questo libro dall'andamento prosimetrico, il frammento si ripropone come un canone accreditato, ormai presenza costante della poesia attuale, come simbolo di una realtà ontologicamente inafferrabile se non per schegge di uno specchio infranto, e c'è certo una differenza rispetto alle poesie di dieci anni fa. Se un problema c'è è forse, parlando in generale, quello di un certo "horror pleni", il timore di farlo crescere, quel frammento, fino a farlo diventare (banalmente) magari un testo  poetico per così dire "insostenibile" di fronte alla stessa complessa realtà che dovrebbe descrivere. Viceversa,  gli inediti qui presenti sembrano indicare, anche nelle parti in prosa, una specie di recupero di un discorso più esposto, meno franto, di modalità più distese, più liriche anche, pur nella persistenza dei temi esistenziali, che nemmeno il ricorso al punto fermo, quando c'è, riesce a ridurre a frammento, a scheggia inquieta e baluginante. Non saprei dire se questo sarà il nuovo corso della poesia di Loredana, se il suo conflitto con il tempo navighi verso acque meno agitate. Mi piacerebbe trovare le risposte in qualcosa di più organico, forse la  sua vera opera prima - tutti quei testi dispersi nella rete, alcuni dei quali eccellenti, i vecchi, i nuovi - che è ancora lì da qualche parte, dietro i velabri della sua proverbiale riservatezza. (g. cerrai)


da L'informe amniotico


61
Questa è un'ora senza ora. anche perché non ricordo più. se ce n'è una e quale sia. sessantunesima mi pare. quella in cui renderò grazie. a tutti gli astri della giostra. stelle brillanti. stelle stelline. stellarelle. stelle spente. infinite grazie celesti. per il diletto grazie. il carosello. il vostro lontanissimo luccicare.



58
L'ho sognato alla cinquantottesima ora. tutto preso dalla carte. guardarmi con un'aria strana. lontana ed è la prima volta dopo anni. che mi torna in mente. emerso insieme. al verbo a te più caro. ancora mi domando. perché te ne sei andato. senza insegnarmi al presente. a coniugarlo.



57
Era commosso il petto fino al cuore. per la bellezza del creato. che si spandeva al sole d'agosto. calda e viva di colore. era per la separazione. tra l'ora dell'anima profonda. cinquantasettesima di gelo. e lo splendore circostante. per il peccato dell'indifferenza. quasi come inginocchiarsi. immobile a pregare. che giungesse la grazia. della riconoscenza. come rosa nel buio. l’illuminazione.



54          
Se io scrivo. e poi ti taggo. e poi ti chiedo. e poi gradisco. se commento. e mi spiego e mi piego. nella mia saturata gloria evanescente. e fluttuante mi sazio. di queste vene. di questa carne. di polsi senza sangue. l'incantesimo s'avvera. della cinquantaquattresima replica filmata. la bella addormentata.



51
Ora come ora ho sonno. cinquantunesima di grazia. gli occhi mi si chiudono. penso un giorno sarà. l'ultima volta. ma del momento. non desidero consapevolezza. piuttosto l'assenza di dolore. piuttosto l'ignoranza. la prima per paura. l’altra. perché l'estremo sia della vita. perfetta immagine e somiglianza.



50
E c'è un'ora ancora di silenzio
ed è davanti a te
quando accogli la mia anima imperfetta
è nell'offerta muta dei miei occhi
quando mi consegno
per come sai
senza difese
insieme ai miei cinquanta sbagli
tra le mani vuote
le mie trecento spade.



45
E’ così che si macchiano i pupazzi. sberciando orli di fatica. piatti. arnesi. libri. allora le maglie si scolorano nella lavatrice. assale un puzzo di disordine. e il tempo che rimane. pare perso all'occasione. quarantacinque passi nella vita. quando le strade sono vuote. e lavorare stanca. come Cesare attorno alla domanda. dove sia la donna. che dal vuoto faccia casa.



28
Accade di reggere la croce
come ventotto cardini la porta
di varcare la soglia fino al bosco
dove cresce la parola
ed ogni varietà di fiori
erbe alberi cespugli
il legno inchiodato sulla spalla
a sgravare parti prematuri
come una pena
che la sostieni e soffri
se l'abbandoni pure.

Accade che sia merda
rifiuto scarto spazzatura
che sia un assurdo e una vergogna
che taluno legga ascolti pensi
che a qualcuno possa mai
appena un poco interessare
quella cosa penosa
ridicola noiosa
la summa d'inutilità fatta parola
di uno scritto in versi.



11
E’ così che siamo fatti grandi. di pietra. su cui poggiare i nostri credo. le statue d’intaglio. il bronzo colato. il gesso dei nostri piedistalli. di marmo la forma. i sensi smarriti. la progressiva perdita del sacro. è così che tracciamo undici rotte all'infinito. e navighiamo distanti senza toccarci. guardando in lontananza. la consapevolezza dei nostri disincanti.



4
Un fiocco in testa. l’altro. in disordine sul petto. quattro dita penzolanti e corte. un fiocco modesto. discinto e senza corpo. che a nulla valeva inamidarlo. appuntarvi le medaglie i premi vinti ottimi voti. ugualmente non reggeva il confronto. con quello degli altri. sempre perfetto per forma e per colore.



2
Nacque e fu un errore. di sesso femminile. avrebbe dovuto avere un genere diverso. l’altro dei due possibilmente. sempre che poi. non ne esista un terzo. né carne né pesce. degli idonei ad essere. personaggi per sempre. alla ricerca di se stessi.



Inediti


Oggi mi chiedevo

Oggi mi chiedevo perché fosti pane
e fosti poi vino e poi corpo e anche sangue
perché nell’uva e nel grano
ostia bianca e farina
nel torchio e palmento
nell’albero e terra e frumento
nel calice fiasco o nei tini
come una proporzione
equivalenza rimando ed assioma
tra spirito e carne
tra uomo e divino
nel crisma che mutua
la forma trascende
in divina natura.




Viene come viene

Viene come viene il vento
mordendo l’alba
e nella bocca la faccia
che s’incastra che s’accavalla
l’aria è tutto un turbinio di carne
sfatta
rosso fuoco e polpa
cento poesie fantastiche
e una sconfitta
la prima e l’ultima
da ricordare
darsi alla luce e poi crepare.
Volevamo essere eterni
e siamo invece solo noi
solo mortali.




È solo un fatto d'occhi

È solo un fatto d'occhi
 guardare le cose
 sopra ogni cosa
 volando ai monti
 disperando d'ali l'orizzonte.

 Ci sono vette altissime
 che solo può l'inesistenza
 è per questo il dissenso
 il dialogo coi cari
 il completamento automatico
 dei termini usuali
 l'ustione tautologica deviata
 dai sentimenti.

 Sparire in obliquo è solo
 guardare le cose
 da un altro lato.




davvero qualcuno pensa d'essere così necessario. c'è tutta un'anfora di veleno. una bocca che larga stride. non basterebbero duecento lune. liquidi mogli pastiglie. calmanti a iosa della carne. un osso grosso da mordere è la sua pena. veglio la compassione della virgola. restiamo poveri stamani. distanti quasi spellati. di tutto resta un po' di cenere. un mucchio di nulla. il pugno in piena faccia della brina.




lui veramente credeva d'essere un finto poeta. lo fingeva così perfettamente da vivere nell'invisibile. godeva di un piacere inesistente. sazio e completo nel fremito del nulla. produceva filigrana filando bava come seta. quando lo prese l'illusione tremarono le foglie. qualcuna si staccò dal ramo cadde lo raccolse. abbracciandolo con la nervatura. s'intravedeva nella trasparenza un braccio una gamba. un ciuffo di capelli che sfuggiva dal rotolo. come un cespuglio di asparagina.




Io scrivo di bocca

Io scrivo di bocca
 un'arpa eolica
 i filamenti della luna
 scrivo l'intenso verde d'oltremare
 dove c'è il fondo scoglio
 la risacca schiuma che ribolle
 lo sbattito dell'onda
 un altro scoglio a oriente
 l'alba rilucente.

 La costa appare sporgendosi
 appena oltre le ciglia
 un arco a incavare la Sicilia
 un suo frammento d'ossa dove
 in quest'estate di lapislazzuli
 col solstizio e l'inizio
 si snoda ciclabile e bianca
 la pista sterrata nella roccia
 l'ora puntuale che ritaglia
 i nostri passi dispari.




Sicuramente era estate

 Sicuramente era estate
 quando scrissi
 che i cieli si chiudevano
 erano come porte
 sprangate nel clangore
 una dopo l'altra nel buio serrate
 di ferro lucchetto e chiavistello
 infinite scorrevoli catene
 come d'argano di ponte levatoio
 ma non era una fiaba
 e nei dintorni tra le dune
 nel deserto e per chilometri
 e chilometri non un arciere
 non un'anima
 nemmeno l'ombra di un cavaliere.

 Ora schizzavo inchiostro
 ora scrivevo mano seppia vecchi
 e nel frinire di cicale
 il refrain di un 'arsura
 la terra che si spacca arida
 metafora e metafisica
 del finire.


Francesco Marotta - Lettera da Praga (letta da G. Cerrai)



In un post pubblicato il 17 ottobre 2008 su "Oboe sommImage may be NSFW.
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Francesco Marotta
erso", il blog di Roberto Ceccarini, leggevo su suo invito"Lettera da Praga" diFrancesco Marotta (http://oboe.altervista.org/blog/?p=124) apparso per la prima volta in Hairesis, (E-book, Milano, Cepollaro E-dizioni, 2007). Il file audio sembra non più accessibile su "Oboe sommerso", così ho pensato di ricrearlo sulla base della registrazione che feci, mixandola con un diverso sottofondo musicale (*), non avendo più a disposizione quello originale, che - credo - fu inserito da Tonino "Vaan" Vasselli. Il juke box poetico (progetto di lettura) voluto da Roberto Ceccarini era davvero una buona idea che meriterebbe di essere ripresa, magari ampliando l'offerta mediatica con i mezzi che ci sono adesso (è ancora fruibile quasi completamente su oboe.altervista.org/blog, numerosi gli autori presenti).
Mi fa piacere ripubblicare, per quello che vale, questo piccolo contributo/omaggio anche in relazione al fatto che si riaccende l'attenzione, peraltro mai sopita in chi lo conosce, lo stima e gli vuole bene, per l'opera di Francesco Marotta, attenzione che in questi giorni ha trovato un fortissimo impulso nel libro di Marco Ercolani -"Il poema ininterrotto di Francesco Marotta" - Disegni di Francesco Balsamo - Carteggi Letterari Le edizioni, una antologia di testi e di critica di sicuro interesse.
Ricordo che nella stessa data pubblicai su Imperfetta Ellisse una nota a margine, che ritengo ancora contenga qualche spunto di riflessione (v. QUI).


Il file audio (necessita il plugin shockwave-flash abilitato)




                                           fango dislagato in pozze di cielo
l’urlo che annaspa stretto alle sue radici   musica sghemba
s’irida
in
prospettive e note di volo   disordine necessario
che ripete l’occhio a curare lampi malati –

e allora ripensi il chiarore   il suo profumo offeso
soglia che immette in terre senza luogo
dove
calchi di vento
segnano il confine tra attesa e oblio   e il futuro è un volto
che riemerge
da franate memorie sottovetro   una catena di passi
marcati col sangue uno a uno
dalla foce del Sele alle porte del Hrad   un ponte di croci
gettato sull’abisso…

mio padre coltivava sogni
dietro il filo spinato di terragne lune   tra cumuli di vite
lasciate a marcire
e una viola
spuntata per caso in pieno gelo
li allevava nel piscio nel vomito
di bocche smembrate   proprio i sogni
che resistono alla deriva degli anni
quelli che lasciano una traccia indelebile ad ogni risveglio

un papavero che vigila le messi un
fiammifero
che
urla alla marea un’ala
trafitta di chiodi
un frammento di buio strappato a un delirio di luci

forse
già da bambino abitava il fuoco
che il giorno porta iscritto dentro il palmo
gabbiano insonne
che misura il naufragio della storia
come si guarda il tempo di una vela
in balìa delle onde
del crepuscolo –

ora dal reliquiario delle sue sacre ombre
qualcuno libera serpi
a impastare il pane delle stelle

…

solo la sua mano
ancora
s’illumina
all’oracolo sapiente della spiga
recita parole d’esilio
esorcismi contro l’artiglio
uncinato della grandine
una preghiera a un dio senza altari
un breviario di immagini
dove il fumo che spunta dai camini
non è alito di ceri e d’incenso ma un respiro
che ieri
aveva occhi
e voce

era
dita smagrite d’infanzia
che disegnavano rotte di astri splendenti
sulle pareti dell’inferno
nei corridoi di Terezin
o tra le case sventrate del ghetto –
era
bambini che ritagliavano ali di luce
scavando coi denti nell’ombra
incidendo brandelli di pelle
sul corpo inesplorato degli anni
dove non sarebbero stati –

rischiaravano la pianura boema
annerita da nuvole d’acciaio
solcata da transiti di uomini cavie
stipati nel ventre
di carri bestiame…

…                                                     se ti fermi e accarezzi la terra
che conserva il calore
la linfa di giorni infiniti
mai nati
ogni stelo che spunta ai tuoi piedi
ha la forma di un calice –
simbolo perenne di un unico rito
il ritorno
ai deserti di un grido

…

(i vivi – diceva
è
appena un
rigagnolo di vino   memoriale della terra e
delle stagioni
che dall’orlo colmo cade
e accende sui prati
alfabeti fraterni
di assenza –
lumi apparecchiati
per la cena interminabile
dei morti )

ogni sera accosto alle labbra
la sua pupilla di sopravvissuto – estranea a un mondo
che rimargina ferite con l’oblio   l’orrore
con il balsamo e i drappi putrefatti
dell’eterno

–                incessante dismisura del sentire   mappa vegliata
da silenziosi inverni
dalla neve che cova salici e mulini
giorni d’alveare   nel cratere
dei numeri abrasi   sfrangiati dall’unghia della tenebra
sul braccio –
muta sorgente
di polvere

rifiorita d’albe nel passaggio



Si può inoltre leggere qualche altro testo di Francesco Marotta QUI

(*) "Aleatory2" - generative music elaborata al computer.



Giovanni Di Livio - Noncuranza



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Giovanni Di Livio è uno pseudonimo. Come forse si sa non amo gli pseudonimi, ma dietro a questo c'è una persona  che è già stata qui, su questo blog, e che apprezzo. Leggendo queste poesie si capisce perchè vuole celarsi. Sono estremamente private e affrontano un tema penoso con parole crude, dicendo cose che forse si pensano, ammettiamolo, ma che non si dicono. E' il prolungarsi di una agonia, di un tempo "allungato a dismisura", di quella particolare malattia che è la vecchiaia, che prevede un unico esito possibile. Roba difficile anche da farne poesia, da trattare in un certo senso esteticamente, preoccupandosi della prosodia o dell'"abbellimento", perché materia an-estetica, caso mai etica, di un'etica drammaticamente affine alla elaborazione anticipata del rimorso.  Non sempre la contemplazione della morte accende l'animo a egregie cose,   come direbbe Foscolo, o "belle". Forse è il tempo affrettato di oggi contrapposto a quello "allungato" ad imporre altre considerazioni, un'altra gestione della morte, una diversa "cura", o forse proprio una "noncuranza", quando la vecchiaia appare come un accanimento. Non lo so. Da un certo punto di vista non sono nemmeno sicuro che sia giusto pubblicarle, ma sono qui, esposte alla lettura di tutti.



Noncuranza

Meglio morire, vecchietta mia stanca,

meglio la morte alla noncuranza, dentro

la stanza vuota da mattina a sera (poi la

badante per la notte a luna piena), meglio

morire che spegnersi come una candela

che brucia della sua stessa cera.


*


La vicina giovane e stupida, troiona

repressa, ti ha tolto il saluto. Certo,

a che le servi più se gli spiccioli non

ti bastano a farle regalie, le sue mutande

sanno di fuoco, le tue, calzano pannoloni

per altra incontinenza.


*


Tua nuora ti vuole bene, credimi, ma

non sopporta (a ragione, forse) il nostro

cordone ombelicale. Altri tempi, capiscilo,

quelli di affetti e comprensioni.

Tua colpa mia colpa sua colpa, come

se la colpa soffiasse sul dolore. Ci vuole

il fuoco ampio delle stoppie, la morte

che lava di lava gli eccessi di natura.


*


Io che grido, sgrido, ti vengo a trovare

con la fretta di chi non vuole destare

sospetti. Mica sei un’amante (le amanti

si trattano bene), sei il tempo che s’è

allungato a dismisura. E la misura

è tutto, di questi tempi nostri

al metro quadro.


*


Meglio morire, andarsene, lì dove

le stragalassie fanno a gara con dio

mentre un budda destina un palmo

di rena bianca a nuovo vagito.

Meglio morire, riprovarci, magari

sarai più fortunata: fratelli, sorelle,

tre quattro figli, nipoti da poter intrattenere

a chi ha prenotato un giropizza sulla spiaggia.


*


Ti porterei a visitare quella città

mai vista. La carrozzina è già arrivata e può

essere spinta con facilità. Ti rimboccherei

le coperte come ad una sorellina

di tua nipote …

Cose che non faccio perché di palle lente

o perché ho timore dell’inferno. Mi tengo

i miei rimorsi (dovrò dar conto), ti lascio

nella tua dimora d’ombra.

Invoco il fuoco.


*


Meglio morire, credimi. Non è più

vita questa che conduci. Meglio

per entrambi, vecchietta mia, meglio

darci altro appuntamento.

Starò più attento: sposarmi presto

(e tu, partoriscimi prima), pregare finché

tuo marito campi a lungo, rendermi

indipendente al tempo

che si deve.

Meglio morire, amore puro, abnorme

amore di sciagurato figlio.


Viola Amarelli - da Fantasmata, inediti



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MU


φαντασματα (fantasmata): immagini sensibili (e in movimento) che Aristotele pone in una zona intermedia tra la percezione e il pensiero, ma libere da entrambi come pure dalla fredda intelligenza argomentante. Evocate da ricordi, da esperienze, da visioni o da timori, non sono altro che l'immaginazione, la libera creazione, libera anche di farsi da sé. Non c'è pensiero senza immaginazione o, meglio ancora, poesia senza di essa. E nemmeno immaginazione senza percezione. I fantasmata stanno lì in mezzo, a fare da ponte. In questa piccola silloge di Viola Amarelli i fantasmi (o i demoni) sono per lo più larve o barlumi di una realtà, non tanto percepita quanto vissuta e vivente come sintomo o fenomeno accessorio di altro, forse di un passaggio, forse di qualcosa che travalica una ragione dormiente, come in Goya. Sono, ancor di più, fantasmi di fantasmi, nel senso di una ulteriore riduzione dell'immagine evocativa ad una frazione di luce o d'ombra che il lettore può solo collocare nel bianco funereo della pagina, può contemplare, può forse usare come modello, anche linguistico, per gettare uno sguardo sui suoi propri fantasmi.
Fondamentalmente quella di Viola mi sembra una poesia critica, ma critica di un io che è insieme antropocentrato e incapace di porsi davvero come parte di un tutto consapevole, anche della propria morte ("un ego di muschiato marcescente"). La morte è presenza costante, qui, ma in forma di contemplazione, di accostamento all'idea e al destino che contiene, elemento di una natura sovrastante e perpetua ("chissà quante altre volte siamo morti"). È una poesia che vive (e lo fa coerentemente, per quanto possa essere paradossale) quella contraddizione di cui abbiamo appena parlato. Uno dei nuclei "fantasmatici", forse il principale, a me pare proprio il contrasto tra un io per così dire sociale e un io intimo (quello lirico ha abdicato da un po') luogo di proiezione di ombre e demoni ("oscuri e privatissimi") sul quale chi scrive vuole appuntare lo sguardo, o tra un dentro e un fuori illusori ("da fuori molto, / tutto, normale"). È la direzione in cui va Viola? Non lo so esattamente, so che in effetti qui non c'è più molto di oggettuale, hanno perso importanza, da un punto di vista di oggetto ispirativo, anche le "nudecrude cose" di cui avevo parlatoQUI , se non per il "caos che si riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di prospettive annichilenti" di cui avevo parlato a suo tempo. Ho l'impressione che comunque qualcosa sia cambiato, si sia in qualche modo evoluto. Altrove Viola aveva detto "la scrittura è dall'origine un fissare, un dar conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo", aggiungendo "Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce da un flusso e si risolve in un flusso, quasi una sorta di processo a "doppio cieco" ". Ma qui a me pare che questa ansia sia messa in discussione, sia "criticata". A che pro averla, se l'esistenza presenta "il conto, infinitesimale, del / macellaio" (narratrice, III)? D'altronde, dice ora, "le cose non vanno come dovrebbero...le cose non vanno, si fermano, splendono e / piangono".
E il testo corrisponde in modo del tutto coerente a uno "sfilare ordure", a un "disordinare l'ordine", una tela di Penelope soggetta solo ad essere disfatta, ridotta nel frattempo al minimo essenziale, una scrittura volutamente ossificata che potremmo definire un ulteriore avvicinamento (che dura da anni) di Viola al "mu", a un versificare "privo di" a cui la "narratrice" riduce le "narrazioni" (entrambi sezioni di questa piccola silloge). Cosa che avviene anche quando il testo si fa viceversa affollato, come in Cerchi (altra sezione) perchè fatto di costruzioni sintattiche che asseriscono qualcosa che si compie in sé, non vuole diventare veramente narrativo, perché anche gli arazzi alla fine mostrano l'ordito. Le narrazioni d'altronde, premette in esergo Viola, "- di cosa parlano? / - al dunque niente. // sorda sirena". Perciò un altro vuoto, o una stasi, o un gioco che "perso, splendidamente langue / nell'arrocco". Giacché, scrive altrove Viola, "niente è peggiorato", e insieme "nulla qui è migliorato". Anche quando, come dicevo, il testo si amplifica e si dispiega, rimane la sensazione di una volontaria frattura degli elementi costitutivi del discorso, l'eliminazione dei connettivi, delle "giunture", nell'intendimento finale che "le parole sono pietre. / tu scheggiale / fino a che non diventano sabbia, polvere. / fine" (cerchi, VIII). È come se Viola dunque macinasse indifferentemente pietre grandi e pietre piccole o piccolissime (testi di uno, due versi). Sì, forse qualcosa è cambiato. (g. cerrai)


da narrazioni

II.

una piccola nausea, vomita parole, non sta meglio .una piccola ferita, invisibile a tutti, emorragia costante, avvelena, marcisce, investe i giorni. cancella il cuore. nasconderla, tacerla. vomitare sorridendo, nessuno veda. nessuno sia. il sangue. una giostra stranota. una nausea, costante. non c'è fine. forse l'inizio, ad andare indietro, cauterizzando cauta, sé. il mondo sviene.


IV.

Nell’ambito//nel novero
dei morti
la graduatoria orizzontale
a pira a fossi
m’accosto, la tocco

tra breve la terra già grassa
di sotto il sordo del magma
che preme, che cerca
l’osmosi continua, intrauterina.


l'odore, delle erbe. non dei fiori.


da dèmoni

I.

vi vedo dietro il vetro,
non vi tocco, un lucido delirio
l’urlo muto, pesci:
chi è il morto.

morto morto morto
fare il morto sull'acqua
vivo
passa il sale

sale le scale avvolge il suono
emette e squaglia
gioia
per poco

siate siate gioiosi
l’intento tenace

non s’ulcera più
lo sbrego, diruto

l’io spiritato,
arso, scomparso

il truciolo sbriciola
novo, un tarlo suicida per fame
la vittima in progress

(il prezzo, alto/basso)

Spett.li Come già
Nel rimarcare
Non si ha modo
Riscontro
Saluti saluti saluti
Molto vi piango

per gli affollati démoni che siamo
amplifica: miriadi di voci


II.

alla marina le carte son segnate

basoli divelti, buche,
baracche triste,
si va, vorrebbe, in corsa
entrare, uscire, cocchi

mozzoni di palazzi
set di bombardamenti
un brulichio sconvolto
grigio giallastro sporco

al sole, all’aria, al mare
mura a moli invisibili
odore chiazze di nafta
belle mbriane sfatte

si va, vorrebbe, in corsa
l’aditus, collo senz’utero,
lontano si sfilaccia Pusilleco addorosa
un’altra, stessa, cosa
l’incuria della furia, slabbrata cicatrice
fantasmi di carrozze in fila al Miglio d’oro
le senti, che frusciano, le
anime perse – divelte

era di fiori il seme che non colsi
allora e adesso un seme che non gioco


da cerchi

I.

potresti scrivere una poesia semplice?

certo, una parola sola
affetto

e un dono: mangiare insieme pane e pomodoro

salto, lieve, di festa come la tua vita
nel balenio di coda, corsa che

danza


III.

il risultato è perfettamente sovrapponibile
camminano assorti una coppia, uomini di mezza età

sembrerebbe, in ritardo il sospetto, il marciapiede si avvalla
timido per la vergogna al peso di trolley, autobus, scarpe spaiate
alle vetrine chiagnenti di comprami comprami
polverose, l’afa si prepara agli agguati elastomerici
elastosonografici, cisti di acqua nel cielo, nelle cavità
intraspeciose

le vetrine si appannano la coppia avvizzisce a un bar, questa era la città dove da piccoli
giocavano, piccioni e sessi dimenticati, acchiappavano ingenui le insegne, chiuso per
lutto affittasi, contiamo i soldi, si squagliano i chip, dateci tessere riverniciate

dovrebbero essere allegri, niente è peggiorato, tutto uguale, a crederci, illudiamoci
non scambiano una parola, tristezza estiva il clima è

le pompe dei condizionatori sibilano, l’acqua troppo calcarea, l’osteopenia
dei dinosauri, gomma, ma di caucciù, bastoni di lacca, puntali argentei, i nonni

l’eleganza dei morituri, rifulgi immoto cielo opaco travagliato

inizieranno le doglia a momenti, si apriranno le acque, fa’ che non siano verdi

i due invecchiano di minuto in minuto, accelerati, è troppo caldo per stringersi,
figurarsi boccheggiare

lastre di ghiaccioli senza glutine, senza semi, vagonate carnivore abbandonate
a una stazione in disuso, carri frigoriferi, gas di nostro signore del calore,

fu sulla soglia di casa che l’uno disse all’altro: non credere mai di cavartela a buon
mercato

nulla mai nulla qui è migliorato, amen disse il ragazzo, che andava a mare, l’illusione in
ciabatte di tela di plastica fulgente, allegro, di pochi, pochissimi minuti primi
sovrapponibili

ripeti, ripeti.l’esame.


IV.

in simultanea la metropolitana, la fila la coda il coperchio già urna

le microscopiche viscere, la polvere, del nato morto

nell’attimo del castigo perenne, non chiederà mai perdono decide
mentre si forma, sformato, sbagliano tutti sulla rotatoria, le canaline adagiate
sotto la sabbia, impronta d’acqua, nomadi di fili di rame, cavi,

ancora nell’istante di organico exultet
battito in volo , collasso di insetto, brivido freccia
il secondo protratto di orgasmo la carne, le membrane
certo opalescenti, la bocca sicuramente a murena a lemure a
voltaggio, trifasico, pagine e pagine e pagine
blateranti al vento, pregate quel, chi, volete,

si è rinserrato dentro un amnio qualunque, spiccona concetti, ribosomi
chi è la più bella del reame, fuori livori
lucean le cupole di zaffiro nei laghi centroasiatici

in simultanea nasce già livido morto,
aveva dato un’occhiata intrauterina,
sequenzialmente
s’era impiccato, evitiamo la lunga inesorabile
attesa del falco, del giorno, dello shopper di plastica.


Salah Stétié - Poesie



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Salah Stétié
Un assaggio di un eccellente poeta francofono di origine libanese, Salah Stétié, di cui spero di tornare a pubblicare qualcosa più avanti. I testi sono tratti dall’antologia “Nel cerchio del cerchio – Trent’anni di poesia: 1973- 2003”, Bulzoni Editore, 2004,  introduzione, traduzione e cura di Franca Bruera, con postfazione di Sergio Zoppi.

Salah Stétié nasce a Beirut il 28 settembre 1929. Si forma dapprima al Collegio protestante, poi al Collegio San Giuseppe dei Padri Gesuiti e continua i suoi studi presso l'École Supérieure des Lettres di Beirut dove frequenta i corsi di Gabriel Bounoure. Tra il 1950 e il 1954 prosegue gli studi letterari a Parigi presso l'École des Hautes Études et il Collège de France; in questi anni stringe legami d'amicizia con Pierre-Jean Jouve, André Pieyre de Mandiargues, Giuseppe Ungaretti, Yves Bonnefoy, André du Bouchet e instaura rapporti di collaborazione con altre rilevanti voci della cultura contemporanea. Rientrato a Beirut, dirige il settimanale culturale "L'Orient Littéraire" e collabora al contempo alle principali riviste letterarie francesi, tra le quali "Les Lettres Nouvelles", "Le Mercure de France", "La Nouvelle Revue Française", "Europe", ecc. Diplomatico dal 1961, Salah Stétié è stato consigliere culturale del Libano presso le Ambasciate libanesi in Europa occidentale con sede a Parigi. Dal 1963 è stato nominato delegato permanente del Libano presso l'UNESCO. Ambasciatore nei Paesi Bassi, in Marocco, segretario generale del Ministero degli Affari Esteri a Beirut, Stétié affianca alla professione diplomatica un'intensa attività di poeta, saggista e critico d'arte. Nel 1995 ottiene dall'Académie française il Grand Prix de la Francophonie. È membro della Commission de Terminologie et de Néologie de la langue française.



Da FRAMMENTI : POEMA (1978)

*

Cielo dolce e costruito sull'essere. Colombi

Da dove venite

Per quale consolazione tardiva?

Abbiamo plasmato il corpo e l'altro corpo

Folle di sostanza, e abbiamo

Guardato rilucere l'altro corpo nella negazione

Dei vetri

Uccelli di qui sulle colonne

Donateci questa sera. Donate

A noi questa sera

Prima di affamare la camera vuota



*

Il corpo non è più il corpo. È

Fatto di povero cielo in fondo alle vie

Che il pettine del mattino attraversa. E

Amico della donna notturna con le sue gambe

Oh dolore delle sue gambe! su di me

Viene a respirare a fatica il cane visibile

Quell'unione di me e di lei e noi

Bramosi d'essere respirati stupiti

Quale dei nostri corpi avrà fame e sete assai tardi

Quando sarà la domanda terribile

China su di noi col volto raggiante

Al rovescio della notte e del giorno, tremante?



*

L'astratta l'impenetrabile l'inimmaginata

La contro-morta la più morta l'immortale

Con il fuoco del vulcano di natura

Nella profondità delle sue terre

L'unica amata della terra

La stella della sua terra ha segnato

Il suo cammino dalla parte dei vecchi giunchi

Ma quale stella ha colto la sua terra?

Lei grida verso la parola

E la parola è terra nutrita di terra

Lei grida e il suo corpo è impenetrabile

Unico e lungo nel respiro



*

Parola, e l'albero contenuto. Parola

Con l'albero delle parole nel corpo d'albero

E il corpo femminile delle parole

Nell'inspiegata verticalità dell'albero

Ogni liquido specchio sibilo di vento

Trattenuto poi dalle radici ansiose

Nel nome della terra che è

Corpo di terra figurato nell'albero

Corpo femminile di terra con le braccia

Che formano l'albero, e di donna

Oh specchio oh sofferenza

Per la distesa di terra disfatta e i suoi legami



*

Albero capovolto nella nuvola

O scomparso notturno

La forma alfine infranta l’olio trasvolato

Oh lampada           di una           lampada

Nodosa radicata

In una terra angusta e sterile con

L'incendio delle apparenze

(Dove solo brillò il seno di una giovane madre)

Oh notte di notte formata oh nebulosa

— Nell'inversione                               :

«Veglieremo in compagnia della parola»

Senza grida, a portata d'arco            :



D'après FRAGMENTS : POÈME (1978)

*

Ce ciel doux et construit sur l'être. Pigeons

D'où venez-vous

Pour quelle consolation tardive?

Nous avons façonné le corps et l'autre corps

Fou de substance, et nous avons

Regardé luire l'autre corps dans la négation

Des vitres

Oiseaux d'ici sur des colonnes

Donnez-nous ce soir. Donnez-

Nous ce soir

Avant d'affamer la chambre vide



*

Le corps n'est plus le corps. Il est

Formé de pauvre ciel au bout des rues

Que traverse le peigne du matin. Il est

L'ami de la femme nocturne avec ses jambes

Ô douleur de ses jambes! ô sur moi

Que vient mal respirer le chien visible

Ce mélange de moi et d'elle et nous

Désireux d'être respires émerveillants

Qui de nos corps aura faim et soif très tard

Quand sera la question terrible

Sur nous penchée avec son visage irradiant

À l'envers de la nuit et du jour, tremblante?



*

L'abstraite la fermée l'inimagée

La contre-morte la plus morte l'immortelle

Avec le feu du volcan de nature

Dans la profondeur de ses terres

L'unique aimée de terre

L'étoile de sa terre ayant meurtri

Sa marche du côté des vieux joncs

Et quelle étoile ayant saisi sa terre?

Elle crie vers la parole

Et la parole est terre accrue de terre

Elle crie le corps fermé

Unique et long dans la respiration



*

Parole, et l'arbre contenu. Parole

Avec l'arbre des mots dans le corps d'arbre

Et le corps féminin des mots

Dans la droiture inexpliquée de l'arbre

Tous liquides miroirs criants de vent

Puis retenus dans l'anxiété des racines

Sous le nom de la terre qui est

Corps de terre imagée dans l'arbre

Corps féminin de terre avec les bras

Formait l'arbre, et de femme

Ô miroir ô souffrant

Pour l'étendue de terre défaite et ses liaisons



*

Arbre inversé dans le nuage

Ou disparu nocturne

La forme enfin brisée l'huile envolée

Ô lampe           d'une           lampe

Noueuse enracinée

Dans une terre étroite et nulle avec

L'incendie des aspects

(Où seul, de jeune mère, brilla le sein)

Ô nuit de nuit formée ô nuageuse

- Dans l'inversion                         :

Nous veillerons en compagnie de la parole»

Sans cris, à portée d'arc              :



Francesco Filia - La zona rossa



Francesco Filia - La zona rossa - Il laboratorio/le edizioni, 2015Image may be NSFW.
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Francesco Filia - La zona rossa


Cos'è la zona rossa? Ne abbiamo più o meno un'idea: anni di "eventi", a partire dalla fine degli anni '90 (Seattle, 1999), ci hanno abituati a questa area fisica e giuridica "esclusiva" in cui i detentori di un potere si rinchiudono per parlare dei fatti loro (e nostri), difesi da un apparato militare e repressivo vero e proprio, proprio quella zona in cui per una ragione si sospende un diritto di esserci, di starci ecc., una libertà di movimento, una "circolazione", non solo delle persone ma anche e soprattutto della manifestazione delle idee. Ma anche - storia di questi giorni - quella in cui si segna il perimetro di una instabilità, del rischio del crollo, della maceria inabitabile - in questo caso il relitto di una lotta, di una speranza ideale o semplicemente, come ha notato qualcuno, di un rito di passaggio. E' questo il nocciolo della questione, nel libro di Francesco Filia, che partendo da una memoria per così dire "storica" e collettiva - cioè le manifestazioni e gli scontri avvenuti a Napoli il 17 marzo 2001 in occasione del Global Forum, un triste prodromo di quanto più grave sarebbe accaduto a Genova di lì a qualche mese - delinea un percorso esistenziale, sociale e inevitabilmente politico, una parabola discendente. Libro autobiografico, poema epico/lirico strutturato su piani temporali diversi (ora/allora, ma il tempo narrativo è tutto in un giorno, da alba a tramonto), registri diversi (narrativo, lirico/elegiaco) e voci intersecate, incentrato sulle presenze di tre ragazzi e una ragazza di allora, qui non esclusivamente come persone in carne ed ossa o "personaggi" ma anche e forse in maniera precipua come emblemi generazionali, almeno di quella generazione che all'inizio del terzo millennio non aveva ancora voglia di smobilitare l'impegno politico, ma forse, come dice Viola Amarelli, "epigona del fallimento dei padri". Pur senza colpa, perché, come avverte Masullo nella prefazione, "l'ideale infatti è intrinsecamente necessario ma altrettanto intrinsecamente impossibile". E' questa necessità a statuire il rito di iniziazione narrato in questo libro, con la relativa parabola conseguente. Passaggio verso dove? Se questo è, nella sua compattezza, un bildungsroman, come ha osservato qualcuno, lo è alla rovescia, nel senso che forma ad un sentimento irrelato di sconfitta, forse di inadeguatezza ai tempi che verranno (sono venuti). In questo è degnamente contemporaneo, essendo impossibile un riscatto, un'ascesa o una catarsi. Le magnifiche sorti e progressive sulle quali, anch'egli all'ombra dello sterminator Vesevo, già Leopardi ironizzava, sono finite. E tuttavia - poiché la poesia serve anche a questo - ripercorrere quelle vicende da un punto di vista plurisoggettivo (per dirla in termini cinematografici) non è una archiviazione. Se in esergo tra le altre cose Filia sente di dover porre le parole del PM Marco Del Gaudio al processo del 2009 contro gli abusi dei poliziotti ("Succederà di nuovo, prima o poi. Se non si mette bene a fuoco cosa è accaduto quel diciassette marzo, il rischio è che tutto ciò accada un’altra volta") è perché credo che abbia sentito questa necessità, cercando di darne poeticamente un senso attraverso una registrazione per così dire sinestesica di quegli sguardi diversamente soggettivi di cui si diceva prima. Del Gaudio preconizzava, facile sibilla, qualcosa che nel 2009 in realtà era già tragicamente avvenuto, lo sappiamo. Il libro invece parla di una lezione irripetibile, perché si cresce, si cambia, si tradisce (ideali e, come racconta il libro, compagni), si diventa forse pompieri, si supera forse quella pulsione di morte un po' romantica che serpeggia nel racconto ("Trent’anni sono la soglia oltre la quale / non andrò, spesso mi son detto / brucerò quello che rimane in fretta"), si dimentica la stretta relazione tra pubblico e (è) privato (ricordate?). Lezione irripetibile perché soggettiva, identitaria, sentimentale, nel senso buono, pieno ed "educativo" della parola, il non avere più dopo quel "niente di meglio" flaubertiano che Filia cita in un altro esergo. E lezione insieme rinnovabile perché la si narra a chiunque voglia leggerla, se ne fa poesia (scegliendo insomma la forma di comunicazione più "costosa", come direbbe Barthes) a tratti anche in maniera impietosa, poco giustificazionista, a tratti con una vena lirica che parla direttamente alla nostra parte illogica, emozionale. Ma poi quel che rimane, la nota persistente di fondo, è la faccia politico/poetica della meglio gioventù, del come eravamo. Ecco, se a me come semplice lettore è venuto in mente qualcosa, non è tanto Sciascia come ad  alcuni, quanto piuttosto Gianni, Antonio, Nicola e Luciana, insomma l'Ettore Scola di "Ci eravamo tanto amati", che già nel 1974 descriveva magnificamente e forse anche con maggior pessimismo l'epos di una resa generazionale, peraltro uscita da una catastrofe ben più imponente.
Non mi inoltro più di tanto nei dettagli perché di questo libro hanno parlato acutamente in diversi, a cominciare dal prefatore Aldo Masullo (ricordo tra gli altri Montieri, Amarelli, Curci) e anche per i testi, oltre a quelli qui sotto, rimando a quelli apparsi su Nazione Indiana, Poetarum Silva, Carteggi Letterari, ma anche QUI, ne La disarmata. Aggiungerei soltanto che uno dei meriti principali di questo libro è proprio di essere un poema a tutti gli effetti, come hanno notato in tanti. Una forma-argine, un mezzo di contrasto della poetica rapsodica e frammentaria con cui si manifesta il "compianto", l'angoscia esistenziale, il disagio di identità e collocazione che un po'"snerva" tanta poesia attuale. E' già importante, al di là che la si possa catalogare come opera politica o civile, cosa che non interessa, o del fatto che inevitabilmente anch'essa sia mercè della "brutale corrente " della resa, se posso permettermi di semplificare. Ma qui la storia (minuscola o maiuscola che sia) non pretendeva altro che di essere guardata per un momento in faccia. (g. cerrai)




da Alba

Marco / 2

Trent’anni sono la soglia oltre la quale
non andrò, spesso mi son detto
brucerò quello che rimane in fretta.
E allora questo costruire un futuro di libri
e ordinaria amministrazione il ripetersi
di un domani che non mi appartiene? Ecco
forse la soglia di questa ringhiera è
la decisione mai presa. Ma ora è tardi
e una pantomima di vita la protesta
di questi vestiti non alla moda gli slogan
da ripetere tra una risata e una finta
indignazione mi aspettano
oltre la porta, nell’aria già calda
di questo marzo mai cosi normale
mai così disperatamente sano e normale.
La vita ci accadde a velocità inaudita.
Ecco amici sto arrivando
a questo rito stanco al congedo
da quel che fu il nostro incanto.



(Vico Gerolomini - Andrea, 1995)

C’è qualcosa di radicato e arido
persistente ostinato come
la pelle di chi abita
queste strade da secoli, sterpaglia
nelle crepe di un acciottolato
dietro questa - sotto nel profondo -
apparenza di moto perpetuo
di pigia pigia senza fine.
Vuoto logico di un terrazzo aperto
su di un balzo di palazzi e voci rabbiose.
Le labbra si schiudono ancora nella gioia
di nominare le cose i volti arcigni lo spazio
che serra la gola
arcaica
come un rantolo di voce spezzato. Un grido
primordiale nelle pietre
nere di questo vicolo
perduto come quel viso mai più rivisto cercato
in questa città che continua
a crollarmi addosso da millenni.



da Giorno

Il contesto /2

Ardi divina tenaglia sul mondo!
Denaro merce più denaro. In quale
fase di questo ciclo ci colloca
il sistema che fa muovere
ogni singolo passo? Fine e mezzo
interscambiabili, la mano invisibile
che comanda un acquisto e un amore
indifferentemente. E se anche questo
fosse un rimedio? Alcuni ci vogliono al gelo
alla crudeltà della lotta per la vita
e credono così di aver colto
il nocciolo dell’esistenza, denaro
più denaro. Un vento travolge ogni
cosa per voler solo se stesso.
C’è una macina che trita i suoi grani
secondo dopo secondo, eone dopo eone
e noi torniamo sempre di nuovo
su quest’identici passi a correre
a urlare a cercare di aprire
il cerchio imperfetto di queste vite.



Elena e Andrea

La fine dei nostri gesti, se tu riuscissi
ad accettare… Tutto anche un caffè ai bordi
di questo corteo sarebbe più semplice.
Ma tu vedi di me solo ciò che vuoi vedere.
E non vuoi sapere quel che sono quel
che sono diventata.
So solo che una seconda volta avrebbe senso
mentre ti guardo in questo bar riflessa
nello specchio che ci porta già oltre
il vociare di un mattino sbagliato di questo
starci troppo lontano e cerco di sfiorarti
di essere di nuovo due, io e te.
Mi guardo riflessa, i capelli raccolti intorno
a una penna il pallore teso del viso quel
freddo irrimediabile di una notte insonne
eppure sono viva. E tu? Chi sei ora cos’è rimasto
vivo di te quale gioia ti possiede? O sei
morto anche tu il giorno in cui ne uscimmo
soli? Ma io rido. Rido. So
solo di essere viva di esistere
ed è già tanto. E tu? E tu?



Chiacchiere

“In fondo chiedevamo un ordine”.
Un dettaglio che ci salvasse da questo
cumulo di eventi impazziti, l’accelerazione
della nostra mente contro il muro di strade
e scarti di vicoli ciechi. “Cos’è quel montare
improvviso che sentiamo dal profondo
delle viscere? Quella rabbia atroce
che divora se stessa?” La maledizione
di chi almeno una volta ha voluto capire
lo stridio che lo fa stare al mondo
la stessa forza che tiene insieme i nostri
discorsi le nostre parole spezzate le urla
inconsulte di gioia. “Rinchiusi nel carcere
di camere dove un pomeriggio d’inverno
siamo stati segnati una volta per sempre
da un enigma non risolto,
da un gioco andato storto.
Senza guardarci intorno, incontro
a questo nulla di transenne e strade”.



da Tramonto

Caserma Raniero: Marco

La vita animale da necessità mossa
formiche lungo i battiscopa in fila
sopra l’impronta di un piede impresso
nella calce di questa parete, traccia
di un’attesa di un appoggio distratto
in un luogo che non è di nessuno dove
si è nessuno, mosca in una goccia
d’ambra ed essere qui adesso
per sempre, quando il terrore ti attraversa
dalla nuca allo sfintere anale. Nessun
controllo. Perdere è qualcosa di più
di più atroce di quel che credevi.
Ritornare in un istinto ad aggrapparsi
alla legge che ti precede da sempre
a un impulso che digrigna i denti
gli occhi vortica, l’attesa
impaziente ti domina ti abita
ospite mai tuo e gli insetti sono lì
sono specie, necessità e tu no.



Caserma Raniero: l’ispettore

Voi due cosa pensate di aver fatto cosa
credete di aver cambiato se non
inguaiato la vostra vita e la mia giornata?
Ma ora saprete, saprete ciò che di voi
non volete conoscere la vera stoffa
che tiene insieme i brandelli della vostra
esistenza al di là delle chiacchiere,
in cui certo siete bravi. Basterà un gesto
uno sguardo un panico fuori controllo
e ciò che un giorno avete promesso
non riuscirete a mantenerlo, si strapperà,
non sarete più sfrontata rabbia giovane che
pur svanisce. Chi di voi mi dirà
di questa molotov si salverà.
Ecco cosa siete diventati
bambini che vorrebbero fuggire
dal mammone che si è rivelato. Ma non
potete. Solo chi di voi cederà al terrore
che lo tiene in vita chi implorerà, potrà.



Caserma Raniero: Marco

Il sole scompare dietro i tetti l’incendio
del tramonto irraggia il cielo
il lento mutarsi della luce nel cortile
l’ombra che avanza divorando
le pareti centimetro dopo
centimetro. La pena
più atroce è cercare di sostenere
il peso di ogni istante trascorso.
La via di fuga tra il tavolo e lo squarcio
della finestra tra le mura la stanza
così vuota che anche i pensieri
rimbombano, non sapere altro
che l’attimo prima è morto
con una parte di te. Qualcosa
è accaduto d’irrimediabile. Tra poco
sarò nella solitudine di una strada
affollata nell’interminabile sera
di una quasi primavera sarò in qualcosa
da cui non potrò fuggire in una linea
d’orizzonte tremenda, immensa.



(Via Simone Martini - Elena, 1991)

Un silenzio o il latrato continuo dei cani
poco altro in città, il resto si è arreso
a un vuoto pomeridiano di serrande
di strade consegnate a se stesse
all’eco di ombre impresse sul selciato.
Sentire il caldo dell’aria mossa
dalla tua spalla come unico
segno di vita, il sole che grava
come una colpa indelebile
sul cemento crepato di questa strada.
Il destino, in fondo, è un tacco spezzato
o un granello finito nell’occhio,
un tacere che non conosce se stesso
che attende un rumore un grido
lo stridore delle gomme sull’asfalto
che ci liberi, disperati, da noi stessi.



L’attesa di Elena

Il non sapere di questo buio, la calamita
del divano il mio giacere qui, limatura
di ferro di un giorno senza fine. Non so
cosa accade, tra il riflesso di un bicchiere
e l’intermittenza delle luci dei fanali
che scruta la parete del soggiorno, cupa
sentinella di ronda ai miei pensieri
a un’attesa di notizie che non potranno arrivare
senza che il tempo proceda oltre quest’eterno
istante di un morso a un pezzo di pane
o il soffitto che scende a perpendicolo
nel fondo di un pensiero ancora da pensare.
L’ombra sprofonda in un terrore di volti persi
in un altrove che crolla in se stesso, muto
ostile come ogni cosa, identica solo a sé
a questo cellulare che promette nient’altro
che i cristalli della sua luce e un vuoto
di parole che non potrò dire
che saranno il sigillo di questo sporgermi
in un amore che mi ricaccia indietro
che mi chiude come sigillo in me stessa.
E non saprò nient’altro se non l’inutilità
irrimediabile di una banale notizia.



Il patto tradito

I

Resta uno dei due impigliato
nella rete del giorno nel tramonto
appostato dietro un davanzale
alla bretella dello zaino strappato via
sequestrato. Chi dei due tradirà
o sarà tradito entrambi
abbiamo giocato la nostra carta,
l’amicizia che non guarda
oltre il bene di ritrovarsi ogni volta.
Ed ecco però il gesto, il terrore, l’attimo
che ci fa crollare in noi stessi, la frase
l’indice che accusa se stesso
in uno specchio“è stato lui…”
un fossile di parole dissepolte
lentamente. Marco crolla
nello sgomento del viso di Andrea.
Poi solo il pavimento, la via di fuga
tra una mattonella e l’altra. Il giorno
si sbriciola in un brusio d’intonaco
e bianco.



II

Adesso sai che la tua è la colpa
incancellabile di chi è innocente.
La valanga dei secondi travolge
questo zero assoluto inchiodato
al presente di un rito mancato
figura della necessità il patto tradito
il colpo assestato, non c’è altro
che il ticchettio implacabile su questa
parete delle lancette, solo questa
insondabilità di un dettaglio
impazzito di me che scruto nel fondo
di questo zaino per comprendere
quale distrazione ha portato
a uno svuotarsi di corridoi e viscere
a queste manette ai polsi
al sangue raggrumato sul cuoio
capelluto al patto tradito in uno sguardo
abbassato - sprofonda ora il giorno -
a quest’implacabile buio.


Francesco Iannone - Pietra lavica



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Francesco Iannone - Pietra lavica - Nino Aragno Editore, 2016
Francesco Iannone - Pietra lavica - Nino Aragno Editore, 2016

Abbiamo già incontrato Francesco Iannone su questo blog, in una nota che scrissi in occasione dell'uscita per Ladolfi del suo "Poesie della fame e della sete" (v.QUI ). Rimando volentieri a quella piccola nota perché mi pare che molte delle cose che allora sottolineai sinteticamente siano in sostanza rimaste lì, pur con qualche evoluzione soprattutto sul terreno della scrittura. Dico subito che qualsiasi cosa scriva Iannone la scrive bene (e infatti riceve consensi), ha inventiva linguistica, ha una perfetta padronanza sul come dire quello che vuole dire, in che tonalità eseguire la sua musica, su questo non c'è dubbio, con un certo coraggio e con poche riserve mentali, poche soggezioni, stilistiche, concettuali o "correntizie" che siano. E', da questo punto di vista, un autore privo di dubbi e insieme una tabula rasa, come se nessuna eco di esperienza poetiche precedenti alla sua emergesse, anche se certamente ve ne sono (a partire certo dal Pascoli "fanciullino") ma senza - apparentemente - nessuna tradizione da difendere. In tutto ciò sta un certo fascino, diciamo anche questo, una purezza che certo è anche "religiosa", assumendo il termine in senso ampio, ma è comunque fideistica, di una immensa fede nella vita, nell'uomo e nella natura, di una francescana disposizione ad ascoltare i segnali che provengono dal mondo sensibile, da una realtà visibile e invisibile, un mondo che però, come scrissi, sembra appena creato. Segnali che raramente sono problematici, fenomeni che difficilmente appaiono indecifrabili o incombenti (come in Leopardi, ad esempio) perché con ogni evidenza sono lì come dono o forse perché nella visione dell'autore, fresca e confidente, sono ancora incontaminati, e come sospesi fuori della Storia. Se gli uccelli e tutte le altre cose che lo sguardo di Iannone prende in considerazione sono correlativi oggettivi lo sono di uno stare al mondo, di un essere parte ("altissimi testimoni del mistero") di una creazione superiore della cui logica anche gli affetti, i sentimenti, le relazioni sono espressione. Ma senza particolari intendimenti metaforici o simbolici, pur essendoci in questi testi molto del simbolismo e pure una certa vena metafisica. C'è in questi versi un'umanità indefessa, "originale", ancora capace di una qualche innocenza, insomma "denudata" e "primitiva" (sia detto senza accezione negativa), naive. A volte mi appare come un Rebora un po' più laico, spogliato da tutte le angosce, ma più portato a costruire piccole parabole, spesso assertive. Quel che sorprende di più, in fondo, che disarma, è questa sensazione antica, prenovecentesca, anzi volterriana da "migliore dei mondi possibili", nel quale l'autore non sta dalla parte di Voltaire, perché non prende in considerazione il cataclisma, l'evento critico, il male che alberga il mondo. I punti in cui c'è maggiore frizione, un maggior salto di potenziale poetico, un pacato tono di angustia malinconica che infine emerge sono in effetti le poesie (generalmente belle, come l'ultima qui presente) dedicate all'amore, al sentimento che in qualsivoglia mondo possibile è meno gestibile, perché non si lascia semplicemente osservare come una zolla o un uccello.
Iannone, tra i molti che ho letto, è comunque singolare, pur essendo diciamo un lirico puro (anzi "euforico", come scrive Giovanna Rosadini nella postfazione), e insieme un esponente di quella "identità sfilacciata e solitaria , debole e poco battagliera, una potenziale 'nuova generazione in ombra'" che Matteo Fantuzzi aveva acutamente individuato nella sua antologia "La generazione entrante" ove lo stesso Iannone appariva (come rammenta Giovanna Rosadini). Singolare per stile, certo, ma soprattutto per la sua visione "fanciullesca" (parola mia e di altri) che salta a pie' pari, ignorandola bellamente, tutta la questione forse un po' abusata del chi e cosa siamo qui e ora, in questo mondo, nella complicata modernità, uno dei mondi "impossibili" da decifrare, in cui l'uomo - certo colpevolmente - è sempre meno il destinatario "centrico" del dono di Dio e sempre più un prodotto. E lo fa convinto com'è, sono parole sue, che "tutto è alla portata della mia comprensione". Aspettiamo con curiosità il terzo libro. (g. cerrai)


*
Questo stare
nel gesto paziente
della maturazione
ci riguarda.
Aspetteremo
come dentro
una silenziosa conversazione.
Aspetteremo
come il fiore nel campo
la mano desiderata
del bambino.
Non puoi dire
che la goccia che squilla
sulla padella di rame
non è un suono
un timido modo
del cantare.

Devi fare
come l'aquila
che sconfigge gli sciami
col suo colpo d'ala.
Devi fare
come il ciliegio
che si compiace
della sua chioma
rossa

devi

devi

devi

ti avevo chiesto un bacio, un qualsiasi
avvertimento
dell'amore
invece mi lasci
come il figlio fermo
col secchiello sul molo e un mare
immenso davanti.



*
a mio figlio

Per ogni uccello che decolla una foglia
cade
e si schiantano insieme
per l'opposto destino
della terra e del cielo.
Per ogni figlio che nasce un corpo
s'inabissa e non lo vedi
più
e non sai
a chi davvero appartiene
e resta fermo lì sul tappeto
come un paradiso domestico
che ti germoglia il suo tesoro
sulla mano.

Alzati e cammina ordina il vento la sera sul molo
ed effettivamente rotola il sasso
scende il gradino in solitudine
un tonfo secco
un corpo che rientra nell'archeologia
del suo silenzio
un sorso che va giù
sordo
ed è sul fondo
sulla grande pancia dell'animale
nella grande culla dello stomaco dell'animale
nella sacca splendente
del mare.

ore 7, 11 luglio 2014



*
Abbiamo alzato la testa
come i funghi
ai piedi del ceppo.

Ci soffieranno il terriccio
dal gambo
finiremo nella premura del guanto
di qualcuno.

Sai come si pulisce un corpo?
Me lo ha insegnato una volta un gigante
passare e ripassare lievemente
col fazzoletto.



*
Tu la conosci la solitudine dei rami
a quest'ora della neve?

Dio ha mandato quaggiù i suoi bambini
con le margherite in mano

gli angeli hanno starnutito così forte
da svegliare i pozzi

i cavalli hanno pestato la terra così forte
da rovesciare il grano dai fazzoletti.

Tu lo conosci il nome dell'agricoltore
che vegliava gli orti?

Te l'ho già detto - se vuoi essere felice
devi allacciare le radici agli alberi

il corpo urlerà sotto il peso dei tronchi
il corpo urlerà sotto il volume dei cancelli.

Vedi, sul gran torace della terra
è caduta la neve anche oggi
ma tu stai tranquilla, qui tutto brilla
come deve.



*
Mi sollevai sulle ginocchia del cammello
l'arsura mi avvizziva i pomodori nel cesto

ho attraversato tutta la sete che ci vuole
per riempire le cisterne

lo vedi adesso come sono sode le gobbe?

La scimmia ti slacciò la collana di perle.
La scimmia ti tolse l'orecchino luccicante.

Adesso mi dici come farà il bambino
a riconoscerti così
avvolto nel buio
del tuo telo nero?

Scrivimi sempre
perché la tua grafia
è l'assenza
che la mia poesia
non sa dire.



*
È scritto così
entrerai nel regno aggrappata alla coda dell'asino
entrerai nel regno lucente come un acino di grano duro
entrerai nel regno sventolando il palloncino nella mano.

Sì, è scritto così
reggerai lo scettro alla formica
ti aggiusterai la spilla sul cappotto
insegnerai ai nani come si brilla
in tutto il buio che c'è.



*
Tutti mi dicono
il papavero è bello
esposto così
appena fuori dall'orlo
del taschino.

Tutti mi dicono
che l'uccellino che si gingilla
sulla mia spalla
è di una specie rara
e che ha piume fluorescenti
evidenti come una fame antica.

Tutti mi dicono
qualcosa
che è sempre a lato
del mio bisogno
e nessuno che mi tiene
nel cerchio del suo anello
nel punto di sutura
sul ginocchio del fanciullo.

Pensa alla madre
che spinge a beccate
i piccoli
nella fortezza del nido.
Pensa alla marea
che rapina i granelli
per il compito
luminoso dei fondali.
Mi credi adesso
se ti dico
che persino il vento
quando muove gli steli
è perché li sceglie, li preferisce?



*
Dentro il mortaio grande
il tempo addestra la bambina
alla fatica del pestello.

La gocciolina di sudore
ti rovina
la neve
sulla faccia
scava un solco
buio come una vena
come una cattiva notizia.

Lo so già, mi strapperai
come si strappa un dente
dalla bocca
della tigre
mi strapperai
come si strappa la spina
da un piede
dolente.

Puoi solo portare l'acqua
è questo il modo
perché rientri il respiro
nelle squame dei pesci.
Puoi solo portare il pane
è questo il modo
perché ritorni la fame
nel becco degli uccelli.

Tu impara dai pesci, impara
dagli uccelli. Impara.



*
Abbiamo deposto il nostro agnello sull'altare
ma l'agnello non era felice
dice il custode che domani il sacerdote
farà cadere la spada
farà tremare la fede
dei santi nelle teche.

Appoggia la fronte sulla fibra povera
la preghiera o è umile o niente.
Lo senti il dolore alle ginocchia?
È il tamburello
bello
che fa volare
in alto
la domanda.

Dietro la tenda danza la ballerina monca.

Dentro la veste bianca si consuma il sacrificio della santa.



*
Abbiamo volti
che sono coltelli
avvolti nei fazzoletti.
Abbiamo volti
che sono mattine
dalla braccia lunghe
di agricoltore.

L'amore si solleva
è l'elefante
del dare
è il vento che trascina
l'incendio delle chiome.
L'amore ci leva
la lana dagli occhi
ci picchietta le mani
per lo scavo dei nidi.

Tu porgi
l'anfora
del corpo
il pezzo di coccio
il prezioso reperto
che s'incaglia nel dente
del rastrello.

È felice
l'arancia del tramonto
quando si stacca
dal suo ramo azzurro
e finisce
nello scrigno
del cappotto
di qualcuno.



*
Come scaglia di sapone
sul liscio di porcellana
è scivolata così
la mia rovina
di non amarti più.

Devi fare
voce piccola
se vuoi davvero
che il bambino
impari
a schioccare
la prima sillaba dalle labbra.
Devi fare tu
tutta la luce che ci vuole
la mattina con la bocca cava
e un dente in mano
come un dono strepitoso.

Il mio bene
è un portone che geme
chiuso a chiave
nel suo secolo di solitudine.

Tu mi spiani
la neve sugli occhi
mi aggiusti il candore
come si aggiusta
un corpo nella bara
prima del saluto totale.

Tu sei una cosa di qua
così appoggiata
al tempo
e che muore.

La senti
la nota che tuona
nella gola del muto?
Sono io che ti chiamo.
Okay, lo porto altrove
il mio teatro
che non t'ha voluta
la morte solita
che non sai mai
se affligge o se ti libera.

Tu solo
hai l'amore
ovvio
come è ovvio
che esiste Dio.
Tu solo sei
uguale alla tua gioia.



*
Poesia per un congedo

Carena dei fianchi contro carena dei fianchi.
Albero motore del cuore contro albero motore del cuore.
Eliche dei piedi che si inceppano ad intreccio.
Perno della mano che gira nel suo filetto.
Perno dell'altra mano che sgrana per il troppo ardimento.
Marmitta della bocca che sfiata calda sulla spalla.
Mistero del fiore che s'inabissa nell'oro della sua corolla.
Ventre che s'incunea nel cavo della roccia.
Ventre che s'assomiglia nella meraviglia che lo agita.
Filamento di saliva che unisce lingua con lingua.
Balcone degli occhi oltre il quale ti affacci, è mio
il panorama che prolunga
l'orizzonte oltre.
Con un bacio cucio la mia anima alla tua.
Con un bacio ti insegno il mio baricentro, il mio
sangue obbediente e il mio niente
che ti trema nelle orbite come l'acqua di una lacrima.
Sangue della lacerazione, della prima volta.
Corpo che combacia corpo nel pieno
della sua vigilia.
Corpo che si allaga di piacere, rubinetto
rotto "ti amo non voglio lasciarti mai".



Emilio Capaccio - Voce del paesaggio, nota di Rita Pacilio



Emilio Capaccio - Voce del paesaggio– Kolibris, 2016 Image may be NSFW.
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Emilio Capaccio - Voce del paesaggio – Kolibris, 2016


Alla mia famiglia , inizia con una dedica il bel libro di poesie di Emilio Capaccio dal titolo Voce del paesaggio, edito da Kolibris, 2016, e l’incipit … Ma la vita, la vita, la vita,la vita è possibile soloreinventata (Cecília Meireles) definisce quanta realtà è insita nei versi della raccolta. Se il poeta è il tramite tra la poesia e il misterioso reale, allora qui troviamo numerosi suggerimenti per lo spirito e per la società intera. Il discorso, sin dalle prime poesie, si fa tensione: dalla parola emerge la nostra storia e le sue ragioni. Le continue guerre, le uccisioni per nome di un Dio che non porta nome, i valori decapitati dall’opportunismo economico e dai compromessi, sono in rapporto vivo con l’animo dell’autore che non dimentica di sorprendersi e stupire senza esprimere giudizi moralistici, ma, corrispondendo a ciascuna forma di dolore intimo e sociale. Così la voce di Capaccio si intreccia con quella delle coscienze dell’umanità rivendicando il diritto di pace e di amore, opponendosi con forza alla tragicità della realtà. In verità il profondo monito è rivolto al senso di responsabilità e di colpa divenuto sempre più minimo dentro di noi; ecco perché interviene la poesia. Il poeta ha necessità di indicare a se stesso la via possibile da percorrere, attraverso il linguaggio, per comprendere l’esperienza umana e per lottare contro di essa al fine di salvarsi dall’abbandono, dal fallimento, dalle solitudini. La poesia non viene prima degli accadimenti, ma all’interno di essi, nell’attraversamento dei dubbi e dei contrasti, come possibilità di purificazione, come operazione di salvamento. Bisogna partire dalla creazione, dall’inizio, dalla nascita, per raggiungere l’innocenza, la verginità delle cose sensibili e, la prosa, la narrazione degli antefatti, servono all’autore per raggiungere lo stato di contraddizione dei luoghi della volontà, più intimi, procedendo verso i labirinti della verità. Accostarsi alla realtà della parola consente di essere in più luoghi, in più paesaggi e lì trovare le risposte semplici, le più audaci e irrinunciabili. Sono gli intrecci delle tradizioni e la prospettiva intellettuale della bellezza a illuminare l’autore che si accosta e misura il sublime e il terribile del mondo con intelligenza e saggezza, unica modalità per sentirsi vivi, consapevoli, pronti nella vita. (rita pacilio)



I nomi di Dio

Quando parlo con te in un perfetto allineamento

di giorni disperati e ti sento frusciare

dietro ogni laterizio di questo secolo

(o forse è il gesto dei tuoi continui disappunti)

«Dio» ti dico

«Il cielo è tornato del colore di quando non c’eri!»

Hai tanti nomi, così pieni di spifferi d’aria

che noi qui ci sentiamo infreddolire

spiattellando storie del Corano e della Bibbia

senza aver imparato a chiamarti

perlomeno con un nome comune.

Però ci vuole coraggio a pronunciare i tuoi nomi:

una pietra potrebbe dire di non sentirsi amare

abbastanza

se fallissi l’accento o mi tradisse l’ironia.

E quando scrivo il tuo nome con la mia Parola

non è lo stesso di quando lo scrivo in pashtō

o in hindi o in curdo.

Ti abbiamo degradato a un dio dei nomi

un dio delle razze, un dio di geopolitica.

Che strane cose l’uomo è capace di renderti

non solo tu a noi i miracoli!

Così ti domando:

«Con quali dei tuoi nomi hai chiesto a un ragazzo

laggiù

di farsi esplodere davanti a un’ambasciata?...

o qui a un prete di portare un anello al dito

e il colletto sotto i piedi?»

Non c’è niente di tuo in questa grama vistosità!

Solo la nostra intransigenza nel voler credere

che porti un nome e un verbo

per ogni popolo che ti accoglie…

O, ma se tutti...

se tutti ti chiamassero Mario!


*******


Su un verso di John Donne

«Ogni morte d’uomo mi diminuisce»...

perché io sono l’ape

io sono la formica

io sono il siriano

io sono il parigino.

Non sono il soldato

io sono la tenda

non solo la bomba

io sono l’ostaggio.

Non sono il lapidante

io sono la donna

non sono l’aereo

io sono la torre.

Non sono Medea

io sono i figli

non sono la fine

io sono la culla.


*******


La nascita

Una sera i cieli erano acerbi

colori scarlatti di lontananze.

Il luppolo delle nuvole

conferiva agli uccelli

il sentore di una Nascita

che blandamente maturava.

Lingue di metalli e ori crescevano.

Le stelle, una dopo l’altra,

si disponevano a rilento

negli spiegamenti delle costellazioni

nei decreti degli oroscopi.

I venti si creavano e si disfacevano

ancora fragili.

Io origliavo, mancante!

Ero come un incantesimo di luce

non ancora pronto per essere svelato.

Il tempo s’avvantaggiava.

Incuteva le prore e salpava

per un’azzurra primavera.


******


La barchetta di malinconie blu

a una donna sola

Laggiù, sulle acque tiepide dell’orizzonte

va la tua barchetta di malinconie blu!...

Con il suo carico di amori finiti

nella stiva dorata dei ricordi.

Con il suo carico di giovani mani

che salutano il tempo, bianche e sorridenti.

Con il suo carico di altre vite

che potevano essere e non sono state.

Con il suo carico di sogni lasciati a pendere

sotto l’albero del passato.

E si sente ancora qualche volta con l’onda

dai legni sonori di quella sagoma di vela

il chiaro vocio degli uomini che ti fecero compagnia

capitani scialbi e generosi, amandoti per un po’,

fra incagli di illusioni che non hai districato,

in albe di passioni di frangibili mari.


*******


Amo di te quelle folli, disperate, increspature

che su quei mari hai tratteggiato

le tracce di vita che hai lasciato

le accese correnti che ti hanno portata.

Amo di te quei sentieri nei capelli

fitti e attorcigliati sulla fronte

il giro d’anni che scolora sul tuo collo

il filo d’argento che hai tessuto.

Amo di quella barca il viaggio, la cronaca,

la sua storia, il blu delle dolci malinconie

solitarie, la stramba idea di altre vite

che potevano essere e non sono state.


*******


Una foglia

La pioggia ha sempre un carattere meditativo

quando cade a lacrime sottili

come se il tempo nascosto

sotto finestre appannate

stesse valutando con quali eventi mondani

abbozzare i nuovi giorni

e non trovasse soluzione!

Il traffico rallenta

fa lunghi chilometri di solitudine

e torna a casa.

I corpi non più lucidi perdono l’ombra

e le cose la loro natura

come se un albero là fuori

fosse meno albero di ieri.

Così anch’io rifletto

mentre perdo qualche cosa che non conosco

finché non la perdo del tutto!...

Era una foglia!


*******


Silentium

In questo assiduo tacitare

sono cresciuto

e ho sorriso tanto, dopotutto!...

ho sorriso di un sorriso solitario.

Sono cresciuto e ti dico:

«Non attendo il Tuo parlare!»

Non sia mai tu debba dirmi

non sei come t’immaginai.

Vado a rischio

anche in questa estrema illusione

più avventato ora

che i tempi stanno passando

perché per ardere la fiamma

sull’ultimo cero

deve necessariamente credere

che non può esistere il vento.


*******


Mancanza

A volte, a momenti, nel luogo dove cade

la mancanza

sento la voce delle cose che non sono accadute

più viva della voce delle cose reali.

E l’attesa che spendo

senza vedere che si compiono

è una vitale inesistenza

a cui tendo l’aspirazione e vivo

come fosse il mio corpo

sostanza e desiderio

di tutto quello che mi manca.

E il tangibile delle cose

che filano il succedere del caso

come spina dorsale posticcia ed elementare

mi pesa addosso

in uno spazio di strade e aria.

Sento la vita appropriarsi

d’insopportabile gravità evanescente

ogni giorno passare

con minore appariscenza

indefinendomi nella noia delle cose che ho

avuto.

E tutto quello che ho sognato

tutto quello che non ho amato

in un boato profondo m’innomina

con un biasimo incessante

d’illibata vita perduta.


Emilio Capaccio è nato a Salerno il 16 maggio del 1976. Si è laureato in Economia e Commercio all’Università degli Studi del Sannio nella città di Benevento. Vive a Milano, dove lavora nel settore della sanità pubblica. Alcune poesie sono state inse­rite in varie antologie pubblicate dalle case editrici: Pagine e Aletti Editore. Finalista ai concorsi: «I poeti dell’Adda 2012», «Il Federiciano 2013» e «Viaggio di Versi III Edizione», a cura della rivista «Poeti e Poesie». Si è classificato al 2° posto nel concorso let­terario nazionale «Il Giardino di Babuk – Proust en Italie 2015», promosso dall’associazione culturale Larecherche.it. Ha pubblicato in formato e-book: Malinconico Oscuro, traduzioni di poeti sudamerica­ni inediti, con prefazione di Giorgio Mancinelli. At­tualmente cura la rubrica “Il Poeta del Lunedì” sul sito della rivista internazionale di poesia “Iris News” diretta da Chiara De Luca.



Caterina Davinio - Alieni in safari



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Caterina Davinio - Alieni in safari - Robin edizioni 2016
Caterina Davinio - Alieni in safari - Robin edizioni 2016 (con testo inglese a fronte a cura di David W. Seaman e 42 fotografie scattate dall'autrice)

Forse in certi luoghi della Terra dovrebbero averci fatto l'abitudine, ormai. L'abitudine cioè a quegli "alieni" di cui parla Caterina Davinio nel suo ultimo libro. Fotografie e versi, scatti e impressioni poetiche dal mondo esotico frequentato da occidentali che però non sono più Pierre Loti, né Bruce Chatwin, ma nemmeno (o almeno si illudono di non essere) i turisti charter frustati dal tempo e "pacchettizzati". Alieni perché, come dice l'autrice in una nota, perché siamo "stranieri senza radici, che amiamo perderci per imparare qualcosa di noi che non sapevamo, atterrati da un'astronave in paesi ignoti", ma - aggiunge Francesco Muzzioli nella prefazione - "restando inevitabilmente 'intrusi', 'estranei' e 'illegittimi' in un contesto che non ci prevede e che la vacanza non basta ad approcciare". E allora a che serve il viaggio, magari ritornando negli stessi posti? Io mi fermerei qui, a questa interessante contraddizione tra il cercare (forse) qualcosa e l'essere intrusi, estranei e illegittimi (forse anche a sé stessi). Se si pensa a questo, forse allora il viaggio non diventa altro che un transfert dell'immaginazione, un vedere il mondo come lo si immagina che sia, anche magari dal punto di vista di una"cultura" di cui ci si è imbevuti; oppure un "divertimento" nell'etimo del termine, cioè un deviare dal percorso usuale, e allora, alla fin fine, ti viene il sospetto che equivalga a un "voyage autour de ma chambre", cioè a vedere il tuo mondo da un'altra prospettiva, cercare di vedere te stesso meno alieno di quel che ti senti.

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Io credo che nel libro di Caterina ci sia anche questa consapevolezza, a conti fatti, di una impossibilità, in un mondo globale, di delocalizzare la propria identità, di spostare i problemi, di essere diversi da quello che siamo (e del resto Caterina dice ne La mia nascita: "Fin da allora fui io" e "Dove fui sarò"). L'"altrove" è ovunque e l'"altro", rimbaudiano che sia o meno (cosa più probabile), è sempre più uguale a noi. Il pittoresco locale porta i Ray Ban, il leghista nonsiammicarazzisti e aiutarlincasaloro te lo ritrovi in Kenya. Viene meno il mondo diverso,"innocente" e parallelo della cultura alternativa, rimane un sentimento profondo, forse un po' melanconico e nostalgico, rimane il conforto prezioso della vastità della natura, dell'oceano, del mondo che puoi ancora contemplare popolandolo di pensieri, di dei benevoli e laici, di poesia. O anche un mondo visto dal di fuori, dall'alto, come farebbe appunto un alieno a bordo di un'astronave, ma non in arrivo bensì che si sta allontanando dopo una fuga precipitosa da una catastrofe, come avviene in testi come Il pianeta o L'Italia vista dallo spazio. Caterina è brava a rendere questi sentimenti basici, fondamentali. O quelli di un ritorno, forse non meno "alienato", a casa, ai luoghi natii, alle città nostrane (Roma, Lecco, Heidelberg, Novoli in Sicilia), luoghi dell'affetto e della decantazione di un percorso ellittico che poi, in finale, riporta irresistibilmente alle spiagge di Goa e Bombay, come riflessi abbaglianti di una vita precedente. Come pure è brava ad accendere autentiche visioni del cosmo come nella rutilanteUna finestra e una storia infinita o a rinnovare affettuosamente cadenze beat venate di divertenti echi futuristi e palazzeschiani come in Goa (Goa trance).


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Certo Caterina non è come scrittrice un "viaggiatore immobile" o "sedentario", come diceva X. De Maistre, tanto che sono dell'idea che dovrebbe essere letta in contesto, come un unico libro o diversi libri uno accanto all'altro, trasversalmente o parallelamente, poiché la sua scrittura tende ad essere così legata all'esperienza diretta (quindi poco simbolica, poco metaforica in senso stretto) che in realtà ha scritto e sta scrivendo un unico libro, nel quale da una parte si parla d'amore, dall'altra di malattia dell'anima e di esperienze estreme, dall'altra ancora di attraversamenti e riattraversamenti di confini alla ricerca di chissà cosa o di sé stessa (v. anche, per assonanze e consonanze, Aspettando la fine del mondo, QUI). Ma mi pare che ci sia una patente pacificazione in questa poesia, un appeasement anche generazionale, un segno della variazione dei tempi e di un clima complessivo o anche di una realizzazione se vogliamo. E' naturale che sia così, direi. La lontananza dalle lacerazioni drammatiche e coraggiose di libri come Il libro dell'oppio (v. QUI) o anche come Fenomenologie seriali (v. QUI), è evidente. Là lo sguardo e la scrittura erano rovesciati in un incolmabile vaso interiore, qui c'è uno sguardo meno affamato, spesso lirico/malinconico, a volte contemplativo e libero da inquietudini, espresso in testi anche molto belli (v. ad es. qui sotto titolo), uno sguardo rivolto ad un orizzonte lontano sull'oceano, come se gli alieni in fondo avessero visto quasi tutto quello che c'era da vedere, prendendo coscienza di sé non tanto come soggetti di una sociologia del turismo, quanto come uomini e donne che, a Goa come sul balcone di casa, devono alla fine fare i conti col tempo ("Oggi che il tempo / ha reso sagge le membra ma non la pietà"). Ma da Caterina c'è da aspettarsi di tutto. Per fortuna. (g. cerrai).


da AI VENTI DELL'EQUATORE

Goa (Goa Trance)

Festa
al centro del mondo-fiore
tuttointorno
a cerchio
universo e le stelle.

La piccola figlia
vesticolore
profilata sul lungoceano nell'onda che batte la riva
come una lingua
(slap
slaap)
ispirata da precettori dei
a ginniche destrezze d'eros
e fluttuante
in etilica trance
di chiara pelle discinta prosciolta
si snoda su per il cosmo
- in agguato il nulla dietro forme tremanti -
svincolata estesa
e di sottile caviglia
fragile e azzurra
lì dove il mare risucchia sabbia preziosa
scritta per la penna di un dio
da un dio più mansueto
che slitta rasente terra alle caviglie
negre scansioni di tempo.

Ritmi e timbri crogiuoli cimbalìi
gorgògli ribòlli elettrònici
in ellittica fusione
schizzi e spruzzi di maremoto
emateriaelettronica-a-sprazzi
tecno-sciacquìo di cimbèrli rìtmici agàin
e sciabordìo rollìo
crepitìo
e stridobàttito
stridobattìo
scalpìccio-e-muvemènt-o
lento-Tramest-st-st
-stìo
strèpito-sciacquìo
sciacquàio e sciac-conquàsso
strobotuòni
et eterni ritorni dinamici
martellocosmico-cacatapùlta onirica
oscillazione psiche-edelica
tumb-ciuf sdrang ciulf-fìu
rolllliìo trillo vibròtromo
bassocontinuo ossexionato
e via, su astronavi siderali,
fino all'a-pice, alla punta del cosmico disordine
della stellare anarchia
dell'universale eccezione
della totale celeste s-freccia scoccata
su in alto, più
de-lospaziocelèste
de la volta di psycotronìe
che sciaborda (splic-splock)
come catino pieno
rubinetto ubriaco
(plock, plo-plockk...) sintonizzzz-zzzz-zzscrscrrshhhzz
-arsi
sul canale scrzzz del rivo corrosivo d'energia
spiovìggia-vìa scorre liquida disciòlta
trasmigrando paese e corpo
la vigorosa svolta angolocàmbio-auménto
curva sterzata giro dis-viràta
dis-ancoràta
dis-ancòra-ménto
decollo
(atleti del caos)

Goa!-Festa!
al cuore del mondo-fiore
tuttointornoacerchio
l'universo e le stelle.
***Infinito***




Calcutta

e brulichio festoso
di biciclette, di stracci
ossa nude e occhi raggianti
di vecchi santi
divertiti
dalla diversità
nostra,
barocci e
sorrisi pazienti di
madonne
dal velo policromo
screziato
tra banchi di frutta
e scranni di colore,
carri cigolanti e
marci chiodi ritorti;

rotolò nelle cose
animate
e in quelle inerti
con il suo fuoco
il grande uno.

Stracciandoci tutta
l'anima bianca,
quell'animella
da niente
desiderosa di stare al mondo,
di rallegrarsi
al senso
di una lunghissima
fine,
in quella capitale
d'impero
squassata
da un madore rosa
da pensieri rosa
da un infinito sudiciume rosa
dall'infinito tutto
rosa.




Mercato dei fiori (Calcutta)

Non so dirti le onde,
marosi avviluppanti di scapole
schiene
turbanti
gomiti
zigomi
e fiori;
non so dirti gli stracci
le corde
le traiettorie
le tettoie e le scimmie,
e non so
l'odore marcescente
e il riflesso iridescente
il colore lancinante
l'arancio e il giallo
e la calca
la forza e il caldo
la fatica e l'allegrezza
delle lunghe foglie
d'immensi fagotti in
precario equilibrio
su teste vaganti
in moto perpetuo,
e dei fiori.
Quintali di fiori
corolle e ghirlande
stracci e ghirlande
sorrisi e ghirlande
ricami e ghirlande
da perdersi,
pezzetti di cielo tra baracche
e corolle
cumuli di corolle
strati e piramidi di corolle
aulenti, possenti
onnipresenti esalanti;
e non so dirti
la mia lunga fuga, la mischia
i rigagnoli e il fango,
inciampando nella verzura
multicolore
scandalosa e urlante.




L'Africa sognata dal Brasile

L'Africa
sulla costa
lontana
annuì
con il collo
delle giraffe
oltre le onde
selvagge spumose
d'Atlantico
conturbanti
agitatoci
oltre la sabbia
d'oro e vetro
e falesie a picco sulla rabbia del mare
in successione infinita,
troppo grandi
per abbracciarle.
L'Africa attende
silente
colma di profumi
e coloratissime vesti,
immaginazione
e nausee,
danze tribali
e monili saltanti
su neri décolletés
come il colore vivo
del buio
quando brilla
sulla notte
lucente.




Alieni in safari

La savana
Si sfilaccia
Ai lati,
Sfrecciamo
Nella terra di altri.
Intrusi,
Estranei,
Illegittimi
Ladri di vento
E di erbacce,
Furfanti
Ingordi
Di nuvoloni bianchi
Sull'azzurro
Più intenso,
Della terra grassa
Di zolla fangosa
Sull'orlo di pozzanghere
Come spicchi di cielo
Caduti,
Di polvere rodente
Sulle palpebre,
Calpestata
Da orme inquiete
Di predatori,
Dal lungo solco concavo
Del serpente,
E penetriamo avidi
Lo stagno
D'ippopotami sdegnosi
L'acqua rosa
E il cielo rosa
E il verde rosa,
Quasi rosa,
L'aquila attenta
E il babbuino rissoso,
Un bufalo accaldato
E la famiglia del cinghiale
Che s'infratta nella boscaglia.
Noi, rapitori immorali
Degli occhi dolci dell'elefantessa
Sinuosi
E schivi
Come le ragazze
Del luogo.

Essi, costoro, noi,
Intendi?
Di nuovo lì, in pista, e il crepitio
Dell'obiettivo;
Venivamo in parecchi
E non ne potevate
Dei sorrisi,
E dell'amor
Sconsiderato,
Delle grosse ruote
Che vi ferivano la terra,
Squassavano le zolle grasse,
Vi mettevano in fuga le prede,
Di noi gesticolatori
In lingua aliena e fuori posto
Festosi
Con gli inutili giocattoli
Dalle bizzarre forme:
Pneumatici,
Cerchioni,
Camionetta,
Binocolo,
Obiettivo-cannone
E radio frusciante,
Cose di ferro
Che non odorano di buono,
Che valevano una capanna
Un ettaro, un fiume;
Corteggiatori poco attenti
Ardenti di provetto
Amore,
Non vi concedemmo tuttavia
Di scampare il
Maniaco attaccamento
E, nell'intervallo di un click,
Subito guizzammo via
Come demoni
Invasati di caccia,
Per l'universo
Di nascoste voci,
Tutto intorno per l'azzurro
Delle lontananze.




Una finestra e una storia infinita
(Ai venti dell'Equatore)


Su te non scriverò
una poesia:
le striature rosa
mi sorpresero dopo
un notte estesa,
stremante;
le ginocchia
molli,
il cappotto come una vela,
lì dove l'aria volteggiò docile,
dentro cui s'infilò la latitudine
come l'abbraccio
di un amante giovane.

Soperchiando dirompeva
il sonno,
umoriva il corpo di ore,
segregazione,
legami
e chiusi le tende per non vedere
l'alba.

Ma d'improvviso,
lacerando,
s'aprì.

E vidi
quel roteare di meccanismi
invisibili
che emanano il vento.
Mulinavano palme
sul rosa della creazione
e l'oceano disse:
guardami;
e membra esauste risposero:
muoio.

La mente arresa
come uno specchio
concavo,
ospitale
e riflettente

(io non ho reverenza,
amo quando l'effimero mi cattura
con tutti i sensi
e sono ingegnosa
di delizie fuggenti
di amari paradisi, di tempo perduto,
di buio,
di ciò che si vende e si compra:
io non credo nella felicità).

Eppure ricevetti in dono
un istante di rosa;

non disse,
farneticante,
segreti ultimi,
non m'inginocchiai.

Solo bellezza,
quel mostro violento
senza nume
mi abbracciò
con riflessi argentei senza pace,
col giorno,
rialzandomi come una frusta;

fu la striatura tra le palme
cui giunsi fuggendo dall'inverno
come un naufrago
come un uccello
come un povero diavolo.

Ecco,
potrei storie infinite
dalla stanza sola
ove attendo messaggi dal cosmo,
da scrutatori dei,
e guardo fuori dallo spiraglio tra i venti,
e nulla mai disse dio
di più imperativo
della propria non necessità:
il rosa
fiammeggiante
e il tuono sulla scogliera,
l'incessante propulsore in movimento,
le pale d'aria rotanti
ferivano l'eternità.

E se la voluttà ha un nome,
se la malattia della felicità
ha un nome,
se mai natura
ebbe per noi una carezza
e mai fummo acqua nell'acqua,
pesci,
onda delirata nell'onda,
se mai fummo vita,
amebe e plancton,
alghe e microrganismi industriosi,
se mai fummo scienza
e venature lattiginose primordiali,
se mai fummo uomini,
lo seppi,
la potenza di un meccanismo di venti
e la fatica di restare svegli.

Sguazzante come un girino nello stagno,
come la ninfea sullo specchio dell'acqua,
come una mosca felice,
come l'universo intero,
richiusi allora la tenda.

Cos'era l'universo
io non oso,
cosa d'ignoto, lo ignoro:
sono molecola sensitiva
dotata di artigli
e so di un poeta che muore,
so che bellezza gli incrina il cuore stanco,
so di un poeta di fronte all'alba straziata dalla luce
e chiedo
pietà d'una parola
degna della vita che mi prende,
che mi perse,

quando il tempo
sta racchiuso tutto nell'istante,
ci dice il suo uragano segreto
e io lo accolgo, paziente
e spaurita.




da LUCE DALL'INFERNO

Beach Boys (Kenya)

Mi chiedesti qualcosa
Due scellini
Ti furono pochi
E fummo amici.
Eri esperto
Della cerca subdola
E fosti consumato avventuriero
Di passeggiate su coralli puntuti
Attento conoscitore
D'italiche showgirl
E portavi in tasca
Il tuo granchio
Dalla lunga chela
Per mostralo al turista
Inflaccidito
E pallido
Sofferente e trafitto
Dal sole assassino
E dall'aguzza barriera madreperla.
Egli, il buana, si congedò regalandoti
Scellini e vacanziera
Promiscuità, immemore
E smemorato
Del campanile
Subalpino e pascolare
Ove difese l'usanza avita
I simboli e il focolare
Chiamandoti straniero
Nonsiammicarazzìsti
Padronincasanostra
(egli - la sua di lui -
onde il vappensiero)
E aiutarlincasaloro
In quelli remoti lidi
Donde il vento mendico li sospinge
Verso la patria (nostra)
Bella e confusa.

E tu ti congedasti
Da professionista
Cerimonioso della questua
Sulla spiaggia diamantina
Promettesti cacce
Manufatti, circumnavigazioni mitiche
Tesori e pesche magiche.
Sotto la visiera,
Il brillio dei Rayban.




Kathmandu

Monti come un ventaglio
di lance
e mondi dall'aria delicata
che porta intorno a noi
commossi
spiriti
un alito immateriale
illusioni d'aria e indefinita
santità.
Così veleggiamo, colti
all'improvviso
dalla meraviglia,
lievi sulla strada di terra battuta,
lievi come passi
divenuti celesti,
come il nostro soffio vitale liberato
dalle forme;
e pregammo a mani giunte
ognuno a suo modo,
col sorriso
e con il pensiero,
con la corsa
e il lento andare,
con la carezza
onorammo gli dei,
con la stretta di mano
e il ricordo;
un umile segreto
ci raccoglieva intorno
come amico fraterno
e noi fummo accoglienti verso
la muta nostra
evanescenza,
rarefazione,
pieni di luce.




Lecco

La notte scende lentamente
Un'auto ogni tanto
E così pago il mio tempo
Nella piccola città silenziosa
Dove la perfezione
Ha il sapore del momento
Dove ho odiato
E non posso odiare
Dove la parola non può
Oltre il suo ufficio
La materia della vita si dispiega
Raggiante e compiuta
Come ogni disegno
Ogni pietra
Ogni cosa
Il pino
E la casa laggiù
La nuvola e la montagna rosa nel sole
La voce di ubriachi in strada
E il silenzio di Dio.




Heidelberg

Udimmo potenti carmina
La musica vibrò nobile
Sul largo parquet
Mentre neve sui rami,
Stalattiti di luce;
Pregammo come neri monaci
Nella neve
Lunghe file di oranti medioevali
E l'incanto del gelo mirabile
Orchestravano una sublime ouverture,
Solenne
Germania.
Tu mi dicesti dai rami intirizziti
Che nascondevano gemme e i fiori
Le novelle di Hoffmann
I lievi orrori
Il patto di Faust
E il preludio del Lohengrin
Le dita magre di un demone romantico
Sulla tastiera del pianoforte
Le campane della torre
Il sognatore cinerino
Tra i tetti spioventi raccolti.

Nulla accolse l'anima mia inesperta
Di più ineffabile dei violini senza fine
Dei tuoi castelli severi,
Degli inflessibili assalti del tuo lungo inverno.


Mario Fresa - In viaggio con Apollinaire



Alcune versioni di Mario Fresa da Apollinaire, contenute in un libriccino edito con cura Image may be NSFW.
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Mario Fresa - In viaggio con Apollinaire
da L'Arca Felice (Salerno, 2016) con disegni di Massimo Dagnino. Qui come in altre occasioni Mario è traduttore inventore o ri-creatore, sempre alla ricerca di un giusto mezzo (ma sempre con l'azzardo dell'invenzione) tra metro e senso, tra rima e lima, tra barocco e dodecafonia, ma sempre mosso da una specie di innamoramento di partenza verso l'autore che traduce.
L'ironia divertita (che è quella un po' beffarda ma critica del lettore smaliziato) è indispensabile per Mario, basta leggere le sue versioni di Marziale, belle ed esilaranti (v. QUI), per rendersene conto, come pure le sue "imitazioni" di/da Catullo (ma più che di imitazioni si tratta, come ha scritto Giorgio Linguaglossa, di "un lavoro intenso di attraversamento dei testi del passato" - v. QUI). Forse i puristi della traduzione, soprattutto i sostenitori della "fedeltà", potranno non condividere le sue scelte, ma a me sembra evidente in queste versioni l'adesione allo spirito sia del testo sia dell'autore, che ben traspare senza che vi sia, in questo senso, alcuna vera "loss in translation", nemmeno quando si tratta di passare dal calligramma al verso lineare, come in Piove. In altre parole e per quanto possa apparire pleonastico, in italiano Apollinaire qui è proprio Apollinaire, così come lo sono stati Marziale e sotto altri aspetti Catullo, soprattutto perchè Fresa vi immette (e ammette) una "simpatia" (sympatheia) nei loro confronti. Non credo viceversa che, come qualche commento ha asserito, si tratti di attualizzazione o rammodernamento in senso stretto. Mi pare, e per me questo è importante, che sia un atto creativo (postmodernista o no qui non ci interessa) che fa appello a una cultura assimilata e la rimette in un gioco consapevole, divertito o serio che sia, che finisce per amplificarne il senso. (g.c.)



Costellazione

Sono nato sotto il segno dell'Autunno
Per questo mi piacciono i frutti perciò mi disgustano i fiori
I baci che ho donato io li rimpiango tutti
Come un noce bacchiato sussurra i suoi dolori al vento

Oh mio Autunno perenne oh stagione della mia mente
Mani di antiche amanti cospargono il tuo suolo
Una sposa mi segue ed è l'ombra mia fatale
Le colombe stasera spiccano il loro           ultimo volo




La bianca neve

Ah, gli angeli in cielo, là in alto, là fuori!
Uno è vestito da brigadiere
L'altro è vestito da cuciniere
E gli altri, quel gruppo, son tutti tenori

O bell'ufficiale, color dell'azzurro!
La primavera, adesso, dopo quel lungo inverno
Sai che bella medaglia di sole ti assegnerà
                  Ma sì, te la darà

Il cuciniere spiuma le oche
E che neve che cade: e cade, la neve,
Ricade: né v'è
La mia bella, qui adesso, con me!




Piove

Piovono voci di donne come se fossero morte perfino nel ricordo

Piovete anche voi meravigliosi incontri della mia vita, o goccioline!

E quelle nuvole impennate già iniziano a nitrire un universo intero [di città auricolari

Senti se piove mentre il rimpianto e lo sdegno piangono insieme una [musica antica

Ascolta cadere i legami che ti tengono su, che ti tengono giù




Metamorfosi

Una donna che singhiozzava
       Eh! Uh! Ah!
I soldati che passavano
       Eh! Uh! Ah!
Un custode di chiusa che pescava
       Eh! Uh! Ah!
Le trincee che biancheggiavano
       Eh! Uh! Ah!
Granate che scoreggiavano
       Eh! Uh! Ah!
Fiammiferi che non si accendevano
     E tutto
          E' così tanto cambiato
                In me
Tutto
     Salvo il mio amore
               Eh! Uh! Ah!


Aggiungo qui, per chiunque ne fosse curioso, i testi originali:

Signe

Je suis soumis au Chef du Signe de l'Automne
Partant j'aime les fruits je déteste les fleurs
Je regrette chacun des baisers que je donne
Tel un noyer gaulé dit au vent ses douleurs

Mon Automne éternelle ô ma saison mentale
Les mains des amantes d'antan jonchent ton sol
Une épouse me suit c'est mon ombre fatale
Les colombes ce soir prennent leur dernier vol




La blanche neige

Les anges les anges dans le ciel
L’un est vêtu en officier
L’un est vêtu en cuisinier
Et les autres chantent

Bel officier couleur du ciel
Le doux printemps longtemps après Noël
Te médaillera d’un beau soleil
D’un beau soleil

Le cuisinier plume les oies
Ah! tombe neige
Tombe et que n’ai-je
Ma bien-aimée entre mes bras




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                          Calligrammes - Il pleut (clicca per ingrandire)


Mutation


Une femme qui pleurait
       Eh ! Oh ! Ha !
Des soldats qui passaient
       Eh ! Oh ! Ha !
Un éclusier qui pêchait
       Eh ! Oh ! Ha !
Les tranchées qui blanchissaient
       Eh ! Oh ! Ha !
Des obus qui pétaient
       Eh ! Oh ! Ha !
Des allumettes qui ne prenaient pas
      Et tout
             A tant changé
                     En moi
Tout
             Sauf mon Amour
                      Eh ! Oh ! Ha !



Antonio Bux - Kevlar, nota di Rita Pacilio



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Antonio Bux - Kevlar – Società Editrice Fiorentina, 2016
Antonio Bux - Kevlar– Società Editrice Fiorentina, 2016

La raccolta poetica Kevlar di Antonio Bux, divisa in due sezioni: Capitanata e altre poesie e L’oppio di Barba, ci rimanda immediatamente alla musicalità, al suono di un controcanto tra luogo e significato, tra disposizione strofica e ricongiunzione de la chose envolée spostando continuamente il baricentro dalla dottrina ontologica e purgatoriale del mondo ai luoghi fisici e metafisici della coscienza. Musicalità, struttura e spazio (la musique avant toute chose, la musica prima di ogni altra cosa, Verlaine) concedono il suono del senso, o il senso del suono in cui significante e significato sono in continua corrispondenza come compito primario e necessario del poeta. Attraverso l’uso consapevole della metafora, a volte drammatica e sigillata nella sua misteriosa propaggine, si realizza l’atto creativo in cui terrestre e immaginazione offrono un tono privilegiato all’osservazione/celebrazione del reale. La sensibilità dell’autore non si esprime sic et simpliciter per se stesso, ma a nome di tutti gli altri che sono esseri pensanti e viventi nel mondo. Dunque, l’io lirico, la voce parlante di Valéry, supera la consuetudine del linguaggio abitudinario: non un individualismo per fervore creativo, ma un’acutezza di ingegnosa creatività che porta l’individuo-poeta a fondersi indissolubilmente con l’umanità intera. C’è, dunque, una chiara e dinamica consapevolezza della prevaricazione degli oggetti sulle creature, quasi ad accostarsi alla corrente poetica del realismo terminale di Guido Oldani. A tratti la versificazione, mai scontata o abusata, ci persuade, infatti, a concepire l’uomo singolo succube della vicenda cosmica del consumismo (materiale e intellettuale) venendone sopraffatto, inibito. Il simbolismo, come mezzo poetico, stabilisce un rapporto intimo e conciliante con la quotidianità creando una esperienza sensitiva e onirica come maniera di generare, riscrivere in abbondanza i tratti della modernità. Tempo (tempo tra composizione e ispirazione; tempo che smentisce la staticità delle cose e la continuità degli accadimenti), spazio (viaggi e spostamenti geografici tra la Catalogna e la Puglia e il luogo intimo della poesia, il suo paesaggio), vita (coscienza del sé e ruolo immaginario, interiore, incontro/scontro con il quotidiano), morte (i dialoghi con i poeti defunti e la resistenza alla fine grazie all’allegoria del kevlar), memoria (ricordi e sedimentazioni scrupolose della forma) rimangono le tematiche portanti della scrittura di Antonio Bux che sfida con audacia le forme nuove di espressione provocando la piacevole polemica tra etica ed estetica, tra premeditazione e dignità poetica. (Rita Pacilio)



dalla prima sezione “Capitanata e altre poesie”

Ricordo centrale
(Marina di Lesina)

Nella tua ombra passa la mano
il bambino. Passa la mano
come un adulto finito. Ma la tua
ombra vive il miracolo, se sei
tu bambino a rompere il giorno
come ogni volta se torni a scalare
la tua infanzia o se è vecchio perdono
un crescere cieco distrugge noi vivi.


Presso un lido qualunque
lì sulla spiaggia distrutta
Marina di Lesina pareva
una nube. I tuoi occhi
erano la spiaggia.
Nella spiaggia vi erano
persone distanti e bambini
giocavano sul molo aspettando
il ritorno in superficie
della biscia. La biscia erano
i tuoi capelli. Così i tuoi capelli
nel lago di Lesina, sulla spiaggia
arsa di bimbi e di magie nei voli
di aironi stanchi. E le mie gambe
sottili anguille, e le braccia ranocchie.
Eravamo piccini, diventati granelli.
Poi ti ho vista rinascere battigia
adulta nel boschetto anni dopo
quercia a metà d’un polmone di vento.
Eri diventata dell’aria, di tutto il silenzio.
E io tornato a quel lido, spiaggia qualunque.



Vico del Gargano

Noi che disabitiamo i paesi,
ignoriamo la stirpe del borgo
una volta valicati, l’intralcio
salatissimo. La sottospecie vivente
mai umana, è l’avviso: i muri sintetici
il nostro sonoro, di branchi e di grigi
ascoltati all’unisono. Non è un’eco
sostenibile. In paesi come Vico,
dove il bianco è del sole, nasce ogni ora
una luce palindroma. E nessuno più è vivo.
Qualcosa d’aldilà respinge. Ma la cinta
antica dei morti, costringe a restarci.


Uno sparo ha cambiato la corrente.
Non è stato il bosco ma il silenzio
scordato dei passi. Così il ranocchio
ha sentito l’aria girare, ed è impazzito.
E così tutti, insieme pazzi: la formica
più piccola della cava e il fagiano
cacciato dal lago e dall’ultimo cielo
e il pipistrello squilibrato nelle onde
e poi la volpe e poi il bradipo e poi
il serpente rimasto alle squame. Ma
una profondità di campo non fa l’aria,
solo giova alla rosa, imputridendo.
Eppure, nato il verme, comincia
la raccolta. Nato il verme è la pace.
Ma uno sparo sconfigge l’aria e la rosa
col verme impazzisce dal botto. Però
ora la sera non spara. Ora è severo divieto
sparare. A meno che da un rumore
invisibile nasca un nuovo cecchino.
Forse l’uomo, sbagliando bersaglio.



Dialoghi con Rio
(prima parte)

Vedi, Rio, il peschereccio
è sdraiato sul mare. In bilico,
con la fune a torcicollo. Siamo
chiusi come quello. Dalla luce
dell’acqua filtra una murena
muovendosi fa venire fitte
alla visione. C’è odore
di cancrena, arriva dal rivolo
di un rovo spento. Passiamo
ore al mattino, negli occhi
diradando sulla battigia
come vuoti, alghe fetali.
Tu non sai di essere finito
ed io non so la fine come arrivi
se da un profondo mal di schiena
o da un sorriso avvolto nel piombo.
So che farà male, che sarà come
fumarsi una stagnola, tradendo gli altri
cresciuti a pasticche. Dentro il mare
barcheggia il rifiuto, la storia svanita
e altri stupidi esseri facendosi a gara,
ma non si salverà il porto, solo una riva.
Rio, tutta questa fatica, lo sguardo
incagliato alle navi, è per una sponda.
È per una sponda morta, che si erode.



Dalla seconda sezione "L'oppio di Barna"

La Pedrera

Oggi è il palmo grezzo, con il
mortaio a coprire la calce. Tempo fa
avevano smesso, c’erano due mani
a tagliare, non solo foglie di cedro,
ma viti e ramagli. Tra tre inverni
torneranno. Come di neve, quando
il tempo è la luce del mostro.


Era seduto con me Gabriel
Ferrater accanto un cordone
di imbecilli. Erano per lo più
americani, oh yeah, pronti
a gettarsi di sotto dal
cornicetto della Pedrera.
Io non ero tra questi, ero
più morto, mentre l’altro,
Gabriel, spingeva l’aria
davanti a sé e ripeteva:
non voglio puzzare
di città, no quiero
oler a ciudad. Andò
giù. Gli imbecilli presero
a piangere, tornarono
scheletri. Io pensai all’aria
spinta in avanti, a me e al mio
odore italiano. Me ne andai.
Le mura sono l’altro specchio,
una cecità più sotto, demolita.


Casa Batlló

a Pere Gimferrer

Vorrei volare nel ricordo
di quando ero felice ed essere
felice di non ricordare

se non so volare ma solo ho fastidio
dei molti esseri che mi sorvolano
senza di me che non so vivere alto

come loro perché vedo corto
in me attaccato dai troppi ricordi
che non mi fanno felice volando.


Pere Gimferrer
non l’ho mai visto,
però mi ha detto
una volta che Casa
Batlló non esiste.
È un'immagine
di rose cadute,
un giardino tradito.
Gli risposi che da qui
l’aria è una vertigine
misteriosa, soggiorna
e fa luce più sotto.
E questa casa, casa morta,
volta a un emisfero di crani
rimedia il paesaggio
come un gatto miracolato.
La mia risposta non gli
piacque, e scomparve
dietro la mia giacca.
Però ho tradotto cinque
poesie di Gimferrer.
Una proprio davanti
a questa casa. Ne ricordo
ancora la chiusa: Al vertice
dell’aria vivrà l’aria, nel cerchio
a cupole del vento.



Antonio Bux (Foggia, 1982) vive tra la Spagna e l’Italia. Suoi lavori e recensioni sono apparsi in numerose antologie (tra le quali: InVerse 2014/15 - Italian poets intranslation; a cura di Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, Roma, John Cabot University Press, 2015) e sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali (come “Corriere della sera” e “L’Unita”) oltre che in diverse riviste (tra le quali “Poesia”, “Italian Poetry Review”, “La manzana poetica”) e lit-blog (come Nazione Indiana, Poesia 2.0, Vallejo&Co.) sia nazionali che internazionali, dato che molti suoi testi sono stati tradotti in varie lingue. Ha curato la traduzione del libro Finestre su nessuna parte (Roma, Gattomerlino Superstripes, 2015) dell’autore spagnolo Javier Vicedo Alos, oltre che la traduzione di testi scelti di numerosi autori, tra i quali Leopoldo Maria Panero e Julio Cortazar. Ha pubblicato vari libri (Disgrafie [poesie 2000-2007]; Trilogia dellozero; Turritopsis ; 23 [fragmentos de alguien]; Sistemi didisordine quotidiano; Un luogo neutrale; Sativi; El hombrecomido), due dei quali, scritti direttamente in spagnolo, sono usciti in Argentina. E risultato finalista e vincitore di alcuni premi, tra i quali il premio Iris di Firenze, il premio Minturnae, il premio Lorenzo Montano e il premio “Piero Alinari” 2014. Dirige, per le Marco Saya Edizioni di Milano, la collana “Sottotraccia”, e cura il blog Disgrafie (antoniobux.wordpress.com).


Su Trasversale miei inediti con una nota di Mario Fresa


Su "Trasversale", il blog/rivista di Rosa Pierno, alcuni miei inediti tratti da una raccoltaImage may be NSFW.
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santomaso_vite segrete_1958
dal titolo provvisorio di "Luoghi scarsamente popolati", con una acuta e articolata nota critica di Mario Fresa. Ringrazio di cuore Mario e Rosa Pierno per l'attenzione e l'ospitalità.


Ritrarsi e narrare
di Mario Fresa


C’è il senso di un’obliqua alterità e la sensibile eco di una lucida, raffinata sprezzatura in questi nuovi testi poetici di Giacomo Cerrai: essi appaiono immersi in un’atmosfera tutta brumosa e anfibia, nella quale gareggiano, alternandosi o convivendo, un’attitudine alla descrizione pura degli eventi e una prospettiva divagante ed enimmatica, tesa al nascondimento e all’elusione del soggetto che pazientemente registra lo schiudersi della realtà osservata. La narrazione-descrizione si fa essa stessa, allora, straniante e sospesa, nel segno di una continua trasfigurazione, misteriosa e mercuriale, di colui che guarda e di ciò che è guardato: una trasfigurazione nella quale, tuttavia, l’epicentro dell’osservazione digrada a poco a poco, e poi sfugge e si ritrae, infine moltiplicandosi e disperdendosi in una dimensione plurima, fitta di specchi e di rifrangenze che spingono l’occhio ad avanzare con movimenti liquidi e ingannevoli. (continua a leggere QUI)



Claudio Salvi - Album




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Claudio Salvi - Album - Arcipelago Itaca, 2016
Claudio Salvi - Album - Arcipelago Itaca, 2016

Un libro, questo qui di Claudio Salvi, che insieme coinvolge (anche a livello concettuale)  e un po' perplime. Il che è molto di più di quanto si possa dire di tanta poesia, cioè sostanzialmente un successo. Questa estrema sintesi (e vengo a spiegarmi) si ritrova in parte in quanto scrive Giulio Mozzi nella postfazione, che poi vedremo. Intanto il titolo, Album. Album di che cosa? Mi pare che sia contemporaneamente di foto, nel senso di immagini, scatti, attimi o inquadrature non sequenziali raccolte con un medium (in questo caso la scrittura); e di schizzi, ciò che gli inglesi chiamano sketches, appunti lineari di una realtà che c'è, e in un dato momento appare pur non essendo evocata, e che viene registrata a futura memoria, cioè per spostare a dopo la realizzazione di qualcosa. L'idea della foto è presente anche esplicitamente, essendo citata nei testi, con i suoi correlativi, almeno una ventina di volte. Come pure è presente un concetto, forse meno esplicito, di inquadratura brevissima, veloce, poco più di un frame, all'interno del quale l'autore è spesso mimetizzato. La brevità, in parecchi dei testi (non tutti), è infatti uno di tratti salienti, direi stilistici, e io credo che lo sia in relazione a quanto abbiamo appena detto, ma anche a una convinzione dell'autore che mi pare di intravedere, ovvero che la realtà sia afferrabile per lampi fenomenici, presenze, leggi del caso, qui e ora di pura combinazione. In questo senso mi pare che gli schizzi di cui parlavo possano essere l'espressione - anche - di una speranza, di afferrare il lampo (fotografico?) ora per capirlo dopo. Che poi la speranza si dimostri vana o accantonata o volutamente rimossa, questo è un altro discorso. Lo sguardo è qui essenziale e funzionale, ma è una risorsa che potremmo definire non strumentale, accessoria, uno sguardo che non ritorna veramente indietro. Un rivolgere lo sguardo, un gesto di indicare, dice Mozzi. E' la presenza ontologica dell'autore, l'essere-nel-mondo di uno che c'è e scrive, un esserci tuttavia non proprio impersonale, non solo perché a volte dice "io", ma anche perché, se proprio vogliamo fare i pignoli e parlando per metafore, cerca di assumere in sé tutte le categorie barthesiane, facendo la parte di operator (chi "scatta"), di spectator (chi guarda) e di spectrum (il soggetto, anche se di riflesso, anche quando fa finta di non esserci, aleggia). Quindi, in un certo senso, tutto fagocitando. Se la prima sezione è intitolata Album come il libro, la seconda, diciannove testi brevissimi che direi - come forma - sono prosa in prosa, si chiama Polaroid. Continua la metafora fotografica, ancora la messa a fuoco one shot  (tentata, fallita, o ininfluente), ancora l'idea di una realtà colta sul fatto, senza prima né dopo e quindi senza prodromi né conseguenze. Non un diario, come Warhol amava definire la sua Polaroid, poiché in effetti in molti casi non c'è niente di esistenziale da registrare, questi schizzi non sono studi preparatori di alcunché. Non dissimile la sezione Sogno, tredici frammenti anch'essi in prosa di due tre righe, anch'essi quindi brevi ma costipati di cose, di microeventi o microazioni. Già, azioni. Perché, a ben vedere, non di rado il fotogramma si dilata, slitta, appare "mosso" da un movimento rattratto a cui concorre anche l'uso dei tempi verbali (presente, imperfetto, passato prossimo), come avviene in questo testo (completo), che assomiglia anche molto (cosa interessante) ad un appunto di sceneggiatura:

ci sono delle persone con gli ombrelli. un uomo correva.
allora è cominciato a piovere, ma non lo vedo.
è diventato più freddo.

oppure come in questo altro testo, tratto da Album:

il venditore di cocomeri si è fermato sotto la casa della ragazza.
le tremano le mani quando lui le consegna il resto.

Nell'ultima sezione, Altri scritti, l'atteggiamento è invece ancor più prosastico, con anche al suo interno alcune affermazioni che potremmo definire di poetica o visione del fare poesia col mondo,

le immagini che presento non hanno niente di umano. a me piace guardare un buco per la forma che ha, non per quello che di umano porta.

come pure, più avanti,

in fondo non si fa altro che ripetere quello che c’è. le cose cambiano però quando qualcuno mette la copia in mezzo a un numero di originali tra cui non si può distinguere.

atteggiamento  che più si avvicina alla sensazione che registra Giulio Mozzi nello scritto conclusivo e cioè che "leggendo i testi di Salvi [ci si abitua] a uno sguardo che è insieme molto assertivo (la forma del buco!) e per niente assertivo". Sul dibattito, a volte fondato a volte specioso, tra poesia assertiva e non assertiva il discorso è tutto aperto e qui lo lasciamo perdere.  Ma la cosa è interessante, senza dubbio. Mi diverte pensare (e questo certo fa parte del fascino del libro) che Salvi scrivendo avesse in mente Duchamp che  per vent'anni ha lavorato a costruire un buco, la sua opera segreta (Étant donnés: 1. La chute d'eau, 2. Le gaz d'éclairage), una porta massiccia con uno o due pertugi da cui si può gettare lo sguardo su una rappresentazione misteriosa. Certo, magari in sottofondo c'è Benjamin (la copia in mezzo agli originali) o ancora Barthes, con la sua idea che la foto (qui la poesia) possa essere riprodotta (letta) all'infinito mentre quel che è stato còlto è - da un punto di vista esistenziale - irripetibile. Ma è il dato di realtà (il donné) che è intrigante, anzi perturbante, è questo sguardo un po' voyeuristico (che a volte osserva il pleonastico: "in inverno nevica. i pesci girano nella vasca."; "piove in un verso poi cambia inclinazione. dipende da dove arriva il vento.") che dà da pensare. Forse ha ragione Mozzi quando scrive: "Non vedo niente (niente di particolare, niente di attraente), quando leggo Salvi, ma vedo". Il dato (il donné) è lì, si tratta di vedere, anche se  poi per quali conclusioni trarne è difficile capire, se non forse la realizzazione di una contemporaneità irrelata dell'immagine ("penso che questi sono i miei contemporanei", scrive l'autore), di un vuoto totale che finalmente conquista quei "non luoghi" che ci hanno ammorbato in poesia per anni ("territori senza luce. stazioni illuminate. / luoghi vuoti. / luoghi parati a festa senza uomini e donne. / tempio vuoto. case vuote. stazioni vuote. / luoghi in attesa. o soltanto vuoti"). Ma il punto è che questo sguardo può essere gettato ovunque, ad libitum. E' questa una poesia ad libitum? E' forse la poesia di chiunque altro si metta davanti alla finestra e annoti quel che vede o gli viene in mente? Una poesia modulare, una poesia che potrei-farla-anch'io? Uhm, non è così facile, è un po' più problematica la faccenda. Leggere per credere. (g. cerrai)



da Album

è andata così.
a. prende un succo di arancia − esami a breve − in abito da morte.
nessuno incontra una maschera affine.
il seminudo sta in posa.
costumato salta a ogni foto.

g. ha pitturato la bocca (in sé la cosa è niente).
è poco un abito di velluto.
un cane la annusa. io conosco il suo odore.

è caduta un po’ di pioggia.
il neon illumina i muri.
più tardi un grassone che ha sudato ride.


***

questa mattina c’era movimento nell’appartamento di fronte.                                     f
due uomini in calzoncini e scarponi attraversavano il soggiorno.
uno di loro ha fatto finta di non notarmi, nudo a prendere
le mutande. più tardi nel pomeriggio un grassone spazzava il
davanzale con le dita di una mano. adesso le finestre sono chiuse
e viene sera.


***

comprano la casa.
un primo piano con una bella luce.
qui è la nostra stanza, qui il bagno, dice.
le fotografie sono scure. è così in questi casi.
guarda il pavimento, dice, in rilievo.
i vecchi cessi in balcone lui pensa che sono brutti.
non ti sembra un’occasione buona.
viene una pioggia leggerissima.
in corridoio si volta indietro, è buio quasi.


***

non ci vuole tanto.
un prato di erba finta ecco tutto.
e luci a forma di papavero.
un corridoio di legno dove qualcuno passa accanto a banchi schierati.
un uomo firma certi libretti.
in angolo una lampadina.
questa stinge le pareti.
poi la fila indiana di ragazzi e ragazze.
più niente da vedere.
eccetto la ragazza che corre avanti altri due passi e che tengo per il braccio.
non tenermi, ride, che faccio come il cane - e tira.


***

«quasi ogni giorno compro pane che consumo a fatica».
«costa un tanto a chilo, sono poche le cose che non dimentico».
dice il vicino.
«non esiste un orecchio disponibile al momento».
intanto un uccellino prende le briciole.
per i giardini nessuno si è visto.
forse il miraggio di un acquazzone.
il vicino tende le mani.
«ecco è finito».


da Polaroid

*
sono seduto in una stanza che non è quella in cui ti trovi - di sera.
confronta i due ambienti.

*
non è cosa metto in foto - questo non so che cosa è. sta lì davanti
il ragazzo che guarda.

*
1.interno 2.in camere.
1.il tale - a una rete tiene le mani su. là mastica un animale.
2.sezione - in camere. in queste va uno, di là uno cade.

*
questo sono io che vado a casa - i cani camminano così piano che
sono quasi fermi.


da Sogno

               misurare una cosa non vuol dire forse regolarla. non è
una regola che richiedo adesso. è una misura.
come in geometria.

*
               così ho fatto la foto ai ragazzi arabi che giocavano a
pallone con il muro di una chiesa.

*
               ho fotografato un albero dal basso con la macchina
fotografica. era pieno di fiori. poi sono caduti.

*
               bisogna fare ecc. - diceva. io ho detto un’altra cosa, non
mi ricordo. poi siamo andati fuori, era buio. ho detto un’altra
cosa, avevo fame.


da Altri scritti

le immagini che presento non hanno niente di umano. a me piace
guardare un buco per la forma che ha, non per quello che di
umano porta.

per esempio: vedo un tale che fa un palloncino a forma di animale
per dei bambini. ma quelli vogliono vedere una sfera che è
capace di volare.

in una stanza c’è uno schermo bucato. in questo caso fare un
buco è come predire la fine di uno spazio e l’inizio di uno che
non si vede.

lo schermo contiene forme integrate, disegni. è un quadrato e ha
una forma proprio come le cose che contiene.
anche lo spazio contiene forme integrate, me per esempio. per
questo si stabilisce un rapporto tra me, spazio e schermo.

cosa succede quando il rapporto si rompe?
in pratica non si può fare niente. non si può correggere. bisogna
adattarsi a un ambiente imperfetto in cui un insuccesso è quello
che è.

ma lo schermo bucato a filo del soffitto è in grado di liberarsi dalle
costrizioni materiali che ha in sé − pittura, tela, cornice, buco
− e diventare la forma che può andare verso l’alto.

Sonia Caporossi - Erotomaculae



Sonia Caporossi - Erotomaculae - Algra Editore, 2016Image may be NSFW.
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Sonia Caporossi - Erotomaculae - Algra Editore, 2016


L'amore non è più paegnia, giocattoli, figure, non oggi, non di questi tempi, non in certe condizioni sociali e politiche e culturali in cui tutto è da ri-conquistare, mai definitivamente acquisito, anche in termini di identità personale, di libertà di. Non è più un giocattolo, se mai lo è stato, una primazia del corpo in cui l'anima abitava, era ospite nobile, ma non - come poi è stato - effigie a somiglianza di, e quindi Sua messaggera e ambasciatrice. O forse non lo è ancora, ancora non è tornato ad esserlo. Nel frattempo l'amore è una macula, una traccia dai diversi contorni che si proietta sulla vita, ne invade lo sguardo e che si tenta ossessivamente di mettere a fuoco. Nel frattempo l'amore diventa identità e specchio. Entrambi molto fisici, molto corporei.
Questo ultimo libro di Sonia Caporossi è un canzoniere d'amore, d'amore erotico o omoerotico per essere precisi, in cui l'autrice si ritrova e si riconosce (lei è questa poesia, questo amore), ne individua le tracce,  le evidenze materiali, le maculae, le psichedelie, e lo definisce come elemento costitutivo della sua poesia, un elemento di una grana fitta e di un peso specifico non indifferente. Un amore descritto non come una serie diaristica di esperienze, ma come un unicum esistenziale che trova la sua descrizione (e la sua estetica, che spesso il tipografismo nasconde) in un flusso compatto di sensazioni, sensi, pelle, passaggi dall'epidermide al cuore e viceversa, fuso in un impasto linguistico abile, colto, molto icastico, spesso sinestetico, e da un punto di vista del lettore niente affatto epidermico.
La forma, in questo libro diviso in sei sezioni più un epilogo che ripercorrono una storia (o forse più) amorosa, ha una sua invadente preponderanza. Per forma non si intende niente di comunemente riferito alla poesia, se non in precisi, limitati (e pressoché desueti) momenti della sua storia. Come è possibile vedere nei testi che ho scelto, il primo impatto che se ne riceve è totalmente tipografico, visivo, un campo lungo che l'occhio, molto prima della mente, deve abbracciare. Viene in mente, certo, Marinetti (che Giovanna Frene cita nella sua prefazione), ma anche Apollinaire (ma senza "figure"), o il Luciano Folgore di Magnesio, o certe cose di Giulia Niccolai o di Liliana Ebalginelli. Gli esempi, vecchi e nuovi, non mancano. E' una scrittura ardua da leggere, sulla quale ci si deve "arrampicare", come dice Frene, ma mi pare che non voglia (o non pretenda di)  avere una particolare funzione visiva o grafica. Sebbene sembri provocare un urto tra tradizione e innovazione, come afferma Frene, in realtà mi pare si tratti di una poesia lineare, persino in molti punti decisamente lirica, non meno di quanto lo sia un carme di Saffo (e anche qui sono d'accordo con la prefatrice), con la dovuta distanza naturalmente. Una linearità, anche sintattica e lessicale, en travesti, in un certo senso, con una veste  cioè opposta alla voce, tanto che a volte ti chiedi se sia funzionale davvero. Ma in cui il grassetto, il bold, le lettere grosse non hanno solo una funzione di enfasi o di esplosione grafica, ma anche - come sanno i vecchi frequentatori di newsgroup - sono segnale di un urlo, di una rabbia, di un alzare la voce per farsi intendere, di una incazzatura. O di una forte passione. E certo è la passione amorosa il motore principale di questo libro, espressa in una concretezza di carne, di fluidi, di gesti erotici, di parole in evidenza, a volte forse esibite, che alla fine costituiscono un'onda lunga, una massa essa stessa corpo ("e sembra di attraversarlo,  questo corpo", cito ancora Frene), abbastanza vischiosa da non poter essere semplicemente letta, da richiedere anche un confronto intellettuale, forse razionale più che emotivo o empatico. Corpo che è segnale e simbolo, come ho scritto altre volte, un topos della poesia femminile, soprattutto in termini di riappropriazione ma anche, generalmente parlando,  come luogo di incrocio e snodo di problematiche diverse non sempre ricomposte. Quindi anche corpo politico, di cui la poesia di Caporossi vuole a mio avviso farsi interprete e voce, essere poesia-bandiera, riconoscendo a sé stessa, come dice Sonia nella nota in cui ringrazia l'editore per il suo "coraggio", di essere poesia forte. Almeno quanto basta per colpire il lettore o per essere "perturbante", come scrive ancora Frene con un termine scientificamente esatto. E probabilmente per il lettore la cosa migliore è lasciarsene investire, rimandando alla fine del libro ogni considerazione, ogni meditazione,  senza opporre ingiustificate resistenze agli attriti che questa poesia, a differenza di tante altre, certo può generare. Gli attriti si dice generino calore e luce. (g. cerrai)

Estratto da "Sonia Caporossi - Erotomaculae"
(nota: tutti i caratteri, comprese le cancellazioni, sono originali)







Bologna dopo Morandi - Riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli



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vasco bendini
Sperimentazioni visive e poetiche: partendo da "Bologna dopo Morandi 1945-2015" (a Palazzo Fava a Bologna)


Dodici stazioni da percorrere come attraverso una serie di tappe o soste obbligate di riflessione e visione nel tragitto stilistico e temporale che segue e traccia l’evoluzione dell’arte bolognese dal dopoguerra ai giorni nostri nella mostra attualmente in corso a Palazzo Fava, “Bologna dopo Morandi 1945-2015” curata dal noto critico d’arte Renato Barilli. Una settantina di artisti, l’epicentro di una città o meglio di una zona geografica intorno alla quale prendono forma differenti esperienze pittoriche e artistiche dal ‘45 al contemporaneo , infine una personalità indiscussa e catalizzatrice, quella di Giorgio Morandi, dalla quale inevitabilmente dover partire per ridisegnare l’oltre, il post o il dialogo con quel passato. Morandi spartiacque in ogni caso tra l’arte moderna e contemporanea nel panorama bolognese, limite inglobante da dover oltrepassare o bypassare per andare all’incontro con altre modalità espressive e personalità artistiche forse meno note, ma anche, punto focale del cammino aperto dall’avanguardia fino ad abbracciare tutte le possibili evoluzioni e involuzioni del post-moderno per approdare al panorama variegato dell'arte contemporanea.

Cronologicamente si parte dall’influenza post-cubista degli anni ’30, al cui vertice resta la pittura di Sergio Romiti- nature morte dall’eredità morandiana che sfociano in una forte ispirazione analitica e compositiva- cui fa seguito l’impetuosa ondata, la rivoluzione stilistica attuata dall’Informale in Italia alla fine degli anni ’50. La voce del critico più noto all’epoca in quest’ambito, Francesco Arcangeli, accompagna la transizione rilevando criticamente il passaggio dal limite estremo dell’ “ultimo naturalismo” alla nuovo esubero di giovani artisti informali come Ennio Morlotti, Mattia Moreni, Alberto Burri e Mandelli. L’inevitabile via d’uscita dalla sperimentazione estrema e univoca dell’informale sarà segnata da una nuova “ricerca della relazione” raccontata da artisti come Concetto Pozzati i cui lavori confluiscono nel clima della pop art e del new-Dada degli anni ’60. Altre stazioni di rilevo nella mostra sono la Scuola di Palazzo Bentivoglio con i due poli di Arte Povera (Pier Paolo Calzolari) e ribaltamento della medesima in un clima post-moderno e citazionista con Luigi Ontani. Una sala è ancora dedicata ai fumettisti incentrati attorno alla personalità di Andrea Pazienza e un’altra sala all’esperienza fotografica sperimentale e solitaria di Nino Migliori. Infine la Nuova Officina Bolognese apre uno spazio di ricerca nell’ambito della video-arte, dei nuovi media, del digitale e dell’installazione video cui è lasciato il secondo piano della mostra come il punto più estremo, l’approdo ultimo in cui confluisce il “post-post” della metafisica morandiana.


Improvvisazioni poetiche … attraverso il visivo dall’immagine alla parola


Punto focale dal quale partire per tracciare nuove cammini stilistici e formali, contraffare o rovesciare i presupposti nelle sperimentazioni successive resta, al centro della prima sala, una delle “nature morta” di Giorgio Morandi nell’immediato dopoguerra (1948). Pochissimi oggetti, perlopiù bottiglie viste su uno sfondo neutrale e ricondotte a una forma assoluta, essenziale, alla purezza di percezione morandiana. Lì lasciate in una sorta di “meditazione visiva” o meglio nella contemplazione silenziosa delle medesime per giorni e ore fissati nella solitudine di uno sguardo. Quasi Morandi intendesse lasciar parlare le cose, la loro presenza imperante, il loro “prendere spazio” nell’eco d’una percezione espansa, intima e insieme impersonale.


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giorgio morandi


Dipingere diviene qui il gesto di “lasciare essere”o parlare le cose e insieme permettere loro di assorbirci, assimilarci dentro la loro magnetica presenza o in una imperscrutabile atmosfera di silenzio e sospensione . In quella luce particolare gli oggetti inanimati divengono animati e l’artista come lo spettatore arrendendosi all’esperienza solitaria del proprio sguardo si trova di fronte a un mondo di oggetti famigliari che, come presenze stranianti, lo conducono all’apertura e all’ascolto dell’altro: l’ assoluto ritrovato attraverso il mondo delle cose nella metafisica d’uno spazio condiviso.

Giovanni Ciangottini

L’astrazione pittorica ampia e distesa sulle tonalità del blu si ricongiunge a quelle del grigio mercurio,del bianco e dell’azzurro slavato o tendente al cobalto nelle sue progressive gradazioni e degradazioni. Guazzi di colore si compongono in montaggio libero sulla tela tra il blu e i suoi sfumati come collage di mattoncini colorati, pezzi di puzzle in una giocosa astrazione dalla vibrazione calma e pacificante del bianco dominante al centro. Macchie bluastre, invasive saturanti scivolano ai suoi lati fin quasi a toccare le tonalità argentee spente, azzurrognole e saturnine del grigio.

Sergio Romiti

Un cosmo di oggetti famigliari, perlopiù in interni borghesi, assume la lucidità implacabile, le sembianze sottilmente inquietanti, kafkiane quasi nella visione di forte ispirazione post-cubista di Sergio Romiti. La percezione di realtà nella scomposizione primordiale delle forme, nell’esasperazione dei colori in primissimo piano supera il naturalismo dando adito a una visione astratta e insieme incisiva, lucida e devastante. In “interno di macelleria” la scomposizione primordiale delle forme domina sulla tela là dove si ripercuotono esasperanti linee spigolose, acute piuttosto che circolari nella forma degli strumenti di lavoro della macelleria e le masse divengono abitate, espanse oltre ogni prospettiva fino ad anticipare la dissoluzione formale del Romiti successivo.

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sergio romiti


Loro, gli oggetti come in Morandi appaiono lucidamente presenti davanti a noi, ma ora visti a distanza ravvicinata, quasi al microscopio, scomposti in linee primarie, morbosamente abitati e dunque sottoposti a una scansione mentale e strutturale dall’occhio analitico post-cubista: dissociati, esasperati, resi presenza di pure linee e masse circolari ritagliate e sospese in primissimo piano. Sono nel Romiti di questo periodo interni di cucine, di macellerie, visioni di oggetti o strumenti di lavoro come dei ferri chirurgici che il padre utilizzava nella professione di medico. Strumenti di lavoro o di tortura sembrerebbe, visti in modo ravvicinato dall’interno all’esterno attraverso una luce fredda, riflettente di cromature metalliche che non lascia adito ad alcun respiro. Ancora, sono i verdi-blu tentacolari degli interni kafkiani che come meccanismi di persecuzione appaiono freddamente analizzati in un’altra tela dove gli oggetti come tali scompaiono mettendo a nudo la loro primaria struttura per divenire pretesti o metafore della dimensione mentale e numenica cui sottendono.


Dalla seconda metà degli anni ’50 è il pieno esubero nella giovane generazione dell’arte informale in Italia superata la barriera di quello che Arcangeli, il critico più influente dell’epoca definiva “l’ultimo naturalismo”. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, dopo il lancio dell’atomica, le ideologie politiche e le poetiche moderniste, i precedenti equilibri mondiali appaiono liquidati mentre si assiste alla progressiva virata verso il post-moderno. La ricerca dell’arte è volta alla “natura profonda” della realtà, non già sua imitazione o astrazione essenziale là dove si rifiuta ogni concetto formale e l’impatto materico assume il sopravvento: il ritorno all’aspetto primordiale e innato della materia, del segno o del gesto che sottende la medesima, l’enfasi sull’azione spesso istintiva alla base della realizzazione pittorica, infine il ruolo fondamentale assunto dal corpo e dallo spazio performativo

Ennio Morlotti, “studio di nudi”, 1954

Nell’esubero di materia e colore i filamenti rossicci e vermigli, su fondo verde fresco e boschivo si confondono tra presenze di fibre vegetali e scie di figure alla deriva. Linee ondulate e vibranti fanno pensare ai corpi nella danza, filiformi e in movimento su una pasta densa e materica: rosso vermiglio sulle tonalità verdi e brune che evocano la terra, la presenza degli arbusti, il fondo boschivo. Ancora evocano il sostrato autunnale impregnato di melma e fango e le foglie mischiate all’ocra e al rossiccio del sottosuolo.

Sala Carracci: su un lato della parete le evanescenti liquidazioni dei volti in Bendini. Le figure sono ricondotte  progressivamente da un contorno ancora riconoscibile alla sostanza primaria dell’informale materico per trasformarsi in macchie spumose, impronte aeree del bianco, sindoni e contorni di corpi impressi su quelle, infine nuvole galleggianti in un marea di nebbia opaca che svapora a poco a poco per lasciar posto alla bufera del rosso.

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vasco bendini



Al lato opposto della sala, a sua volta affrescata di magnificenti figure barocche nell’esaltazione della carne e della grazia seicentesca, si instaurano in un arduo dialogo le “figure” grevi e massicce di Mario Nanni dal tratto corposo e pieno. In entrambi gli artisti, pur negli opposti dei loro stili, emerge la diluizione d’ogni concetto formale a favore del segno, della traccia o del sostrato materico di colore in primo luogo contro l’idea di figura come unità e soggettività al centro della pittura. In entrambi i casi il processo messo in atto dall’informale trasforma per stadi successivi il volto portandolo sempre più lontano per riconfigurarlo sulla via del segno e della materia. In una prima versione di Nanni il tronco e il bacino unicamente restano al centro della tela, in primissimo piano là dove la figura è amputata, tagliata e posta in evidenza nel solo settore del busto, sviscerata con lente di ingrandimento per fasce muscolari scavate nella pasta pittorica, tagliata a vivo in volumetria sul fondo grigio opaco, vivisezionata quasi in linee corpose al centro del quadro.

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ennio morlotti


In una evoluzione successiva quelle stesse forme e masse grevi di presenza esplodono al centro della tela là dove ogni traccia di figura è scomparsa per lasciar spazio unicamente a brani o pezzi di corpi dal segno violento e trasgressivo, nel loro punto più estremo a insorgenze improvvise di colore grigio opaco o nero. Guazzi di fango sulla tela e corpi smembrati, tagliati a vivo quasi in un ammasso di pezzi galleggianti nella marea calma di un “dopo la tempesta”. Sul grande mare del grigio denso e avvolgente masse di corpi si spostano alla deriva, in primo luogo la deriva del continente-figura ormai giunto alla sua liquidazione e riconversione nel magma informe di colore cui sottende.
Rosalba e Romana Spinelli: gli opposti si ricongiungono.

Il foglio è bianco, la tela è vuota, nitida si direbbe, oppure svuotata di ogni presenza. Poi lieve compare questa volo di airone ad ali dispiegate in lontananza, un frammento di infinito appenninico, la linea appena tracciata a distanza lontanissima come l’utopia di una qualche altra esistenza, la punta di un iceberg che leggera diviene volo di creatura alata attraverso all’orizzonte, tuffandosi nel suo infinito.

Verde su bianco del foglio, una colatura a china appena visibile, cime di colline si delineano come il contorno di orizzonti chiari molto più lontano, di linee nette e frastagliate, irradianti se viste dal mare, a distanza, in una giornata chiara e luminosa.
Ora, al contrario, (in Romana Spinelli) la tela è cumulazione di presenza, ammasso vegetale, accumulo o proliferazione clorofilliana di piante forse per l’effetto del sole che a contatto con l’aria genera crescita, rigoglio di vita, riproduzione. Qui la vita diviene esubero di presenza, eccesso quasi e riempimento luminoso delle forme,
un troppo-pieno dell’abbondanza, della prosperità fertile dalla terra e dei suoi frutti, i colori gioiosi d’una chioma rossiccia e crespa con spiragli o sentieri aperti dal vento tra le sue trame. Sentieri aerei appaiono tracciati in mezzo ai campi di grano come d’una scrittura simbolica, una voce dall'alto espressa attraverso l'elemento invisibile del vento: messaggero divino in parole criptate inviate dall'universo soltanto a chi sia in grado di riceverle.


In Germano Sartelli un grande ovale è accumulo nuovamente di presenza, magma materico, se vogliamo magma di vita espressa nelle sue energie o forme primarie ma concentrata e compressa dentro questo piccolo contenitore bidimensionale sulla tela. Simile a un collage-montaggio di pigmenti colorati e carta crespa, stropicciata, trattata, decolorata accartocciata e re-incollata insieme alla vernice. Lo spaccato di un piccolo mondo prende forma, s'impone in trompe-l'oeil quasi uscendo dalla tela con le sue forme primitive, simile un mondo in sé, un universo rinchiuso dentro la forma ovoidale forse di un cranio o di un simbolico contenitore di storie e immagini celate nei suoi anditi; tra le pieghe della sua carta e dietro le multiple stratificazioni di pittura.

Oltrepassare l'informale, proseguendo al piano successivo della mostra, significa per Concetto Pozzati abbracciare la via della pop art in Italia verso la fine degli anni '60, sperimentando con i più svariati materiali provenienti dal mondo industriale o da quello della produzione di massa e, soprattutto, citare ironicamente, rileggere, entrare in un dialogo paradossale con i predecessori fino al punto di liquidarli come nell'opera “suicidio di Grosz”, artista dell'avanguardia tedesca nel primo '900.

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concetto pozzati


Un pannello enorme, immenso, riempito di figure citate o ripetute e dai più svariati oggetti in una serie di teche successive in vetro occupa l'intera parete della sala: voluminosa, invadente asserzione di presenza venendo verso di noi visivamente con il suo carico di oggetti e simboli dal mondo contemporaneo. La medesima figura cui il titolo allude, Grosz probabilmente nel suo improvviso collasso al suolo in una sorta di auto-eliminazione voluta da Pozzati con tratto incisivo e caricaturale, si ripete in ogni vetrina con la variante di oggetti estranei aggiunti intrusivamente sperimentando con i più svariati materiali. Dunque, la scena ritorna ogni volta identica e la figura è travolta al suolo, barrata, ricoperta o schermata da altri oggetti installati direttamente nel riquadro mentre la luce a neon percuotente della sala la illumina a pieno giorno quasi dissacrando o rovesciando con giocosa ironia l'atto di una morte annunciata della quale ci si dimentica. E noi spettatori non possiamo che restare attratti o meglio sopraffatti dalla miriade di oggetti, intrusioni e citazioni del quotidiano, esubero di materiali aggiunti in un ritorno alla realtà del mondo industriale e consumistico. La fine annunciata dell'artista, ironica e dissacratoria, è anche quella di un mondo o di modo di pensare e fare arte nelle avanguardie in tutta la prima metà del ‘900 cui il quadro allude mentre la svolta di Pozzati verso la pop art sancisce già il superamento dell’ondata predominante dell'informale in Italia negli anni ‘50. Allo stesso modo, le allegorie politiche, grottesche e macabre di Grosz sorte alla luce della storia tragica europea negli anni '30 , in primo luogo il suo ritratto, appaiono immolate, estinte e insieme riviste ironicamente alla luce di una nuova società dei consumi. E' il mondo industriale ora là al centro della scena la cui proliferazione di oggetti e residui, prodotti e loro rifiuti, materiali e loro scorie pare prendere il sopravvento e investire fino a far soccombere il disegno grottesco e caricaturale dell'artista dalla generazione precedente.

Un mondo di cose si impone, di “oggetti trovati” intrusioni dalla realtà della non-arte, dalla produzione di massa ( agli antipodi per assurdo della poetica delle cose di Morandi ma pur sempre lasciando spazio alle medesime) mentre Pozzati sperimenta con materiali di tutti i tipi e con una tavolozza esuberante di colori.

Sono gocce di pioggia o lacrime artificiali in cristalli di vetro, ingessature o bende in una delle figure, quadretto in plastica dentro il riquadro, veri e propri sassi, fasce da ardere e cannucce, nuvole di nylon o di cotone sporgenti oltre il piano, pagnotte vere e proprie o frutti finti in plastica. E, ancora, una linea di corrente elettrica, una luce a neon, inserzioni di finte piante o vegetali. Una figura barrata sopra da un nastro adesivo nero è vista a specchio, poi intrusioni dal quotidiano come pantofole, orologi, ventagli, fiori di carta dipinti sulle pareti, carta da parati, tappi di sughero, e ancora, grandi orecchi sferici in plastica, bandoli di fili attorcigliati insieme senza potersi districare, cornici dentro altri cornici, quadri nel riquadro, specchi, frecce e indicatori di direzione. Chiudono la serie lampadine accese, impronte di piedi in cammino, ritagli di vetri o di specchi, collage infine di scatole chiuse da aprire o decriptare ognuna con dentro una storia, un mondo di risorse per scrivere, riscrivere e insieme contraffare il senso dell'originale.

I nuovi artisti e l’arte contemporanea bolognese

Marcello Jori

Diamanti sfaccettati in “giacimenti” del sogno e tizzoni incandescenti animano le scene notturne di Marcello Jori. Espansi e magnificenti in un bagno di colore e di luce, immensi dalla tela alle pareti, i suoi “giacimenti” di pietre preziose si intercalano e si compongono in mille intagli geometrici e nella sfaccettatura di infinite vibrazioni colorate. Giacimenti sotterranei vengono alla luce in fiumi di blu oltremare e correnti d’oltre-oceano, in pietre e scorrimenti d’acqua, in verdi smeraldi e lapislazzuli trasparenti e bluastri, in rubini e aranci splendenti fino a toccare la solarità del mezzogiorno, infine in montagne di cristalli intagliati in rossi coralli sporgendo fuori della tela in esuberante presenza.


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marcello jori


Sono giacimenti di idee, di creatività o di bellezza insperata, pietre dure e granitiche divenute d’un tratto gemme preziose, cristalli di roccia raffinati fino a diventare della brillantezza rara dei diamanti. Sono liquidi segreti sgorgati fuori da fonti sotterranee, e giacimenti di risorse insospettate trovati per caso scavando più in basso. Sono città sepolte o ricoperte da tempeste di sabbia e polvere antica riportate alla luce trasformando la loro oscurità in questa pioggia d’oro vibrante di colore. La città ora è vista dall’alto in ripresa aerea notturna; scenario apocalittico e futurista appare come una distesa satellitare di brillanti pianeti, un reticolo stellato su un cielo ricoperto di diamanti quando si atterra nella quasi totale oscurità della notte.

Nelle fotografie di Nino Migliori

Sui tavolini di marmo e i ripiani in pietra dei caffè parigini i simboli, le tracce i segni grafici o le firme incise dai clienti occasionali, dai passanti o dagli avventori abituali di quei locali hanno trasformato le anomale superfici in diagrammi di segni, in graffiti e linee di mani simili a cartografie di vite lì rimaste incise, come un destino, insieme alla luce in riflessi e loro sdoppiamenti. Più tardi quei graffiti sono divenuti con Nino Migliori ingrandimenti fotografici, stampe o immagini trasferite dai ripiani ai supporti sui muri . L’idea di metamorfosi, di traccia appare così espansa in primo piano sottoposta a sperimentazioni di filtri colorati in camera oscura fino a trasformarsi in altro e altro ancora. Apre la visione a mondi immaginari, evoca l’idea di un universo popolato da pianeti fuori dalla sfera terrestre, visualizza mappamondi, forme di vita allo stato nascente, ecografie di pianeti o di grembi materni, sfere concentriche e celesti, paesaggi astratti pullulanti di vita nella vibrazione del rosso, del rosato o del carminio. (elisa castagnoli)

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nino migliori




René Daumal - Poesie, a cura di Emilio Capaccio



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rené daumal
La strada dei più alti desideri

passa spesso per l’indesiderabile

R. D.

René Daumalnacque a Boulzicourt, una piccola località nel dipartimento delle Ardenne, nella Francia settentrionale, ai confini con i Paesi Bassi, il 16 marzo del 1908. Il padre esercitava la carica di funzionario presso il ministero delle Finanze ed era votato ai principi del socialismo e profondamente anticlericale. Daumal frequentò gli studi secondari a Reims, nel dipartimento della Marna, dove fondò il gruppo dei «Phrères simplistes», composto da altri tre intellettuali, ispirati alla poetica e agli eccessi di Alfred Jarry, Arthur Rimbaud e al paradigma dei surrealisti di Breton, Il gruppo era composto, oltre che da Daumal, da Roger Vailland, Roger Gilbert-Lecomte e Robert Meyrat. Come Rimbaud, anch’essi cercavano quel dérèglement de tous les sens (irregolarità di tutti i sensi) attraverso l’uso di oppio, etere, assenzio e praticando il gioco della roulette russa. Intorno al 1924, Daumal cominciò ad ingerire con una certa regolarità anche il tetracloruro di carbonio, più noto con il nome di freon 10, che utilizzava per uccidere i coleotteri che collezionava, con l’intento di delineare e scandagliare un mondo parallelo alla realtà, immergendosi volontariamente in un coma prossimo all’esperienza della morte apparente. Dal 1925 al 1927 preparò a Parigi il concorso per entrare nel liceo Henry IV, dove divenne alunno del filosofo e saggista Émile-Auguste Chartier. Negli stessi anni conobbe la poetessa e filosofa Simone Weil. Nel 1928 fondò e diresse — insieme ai vecchi amici, RogerImage may be NSFW.
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Il gruppo dei «Phrères simplistes»
Gilbert-Lecomte e Roger Vaillard, e insieme al pittore Joseph Sima — la rivista “Le Grand Jeu”, in cui apparvero i suoi primi componimenti poetici. La rivista ebbe soltanto tre numeri e cessò nel 1931. In questi anni conobbe Hendrik Cramer, poeta olandese, che collaborò ai primi due numeri della rivista, marito di Véra Milanova, che sarebbe diventata la futura compagna di Daumal. Iniziò un crescente interesse per la cultura e la filosofia orientale e cominciò a studiare il sanscrito.

In seguito Daumal conobbe il ballerino indù Uday Shankar e si unì alla sua compagnia teatrale per una tournée negli Stati Uniti durante gli anni 1932-1933. Ritornato a Parigi, il poeta piombò in una profonda crisi finanziaria, restando a volte anche senza una dimora stabile. Si trasferì a Image may be NSFW.
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rené daumal
Ginevra con la compagna, Véra Milanova, e iniziò la stesura della sua prima opera in prosa: La Grande Beuverie (La Grande Orgia) che pubblicherà a Parigi solo nel 1937. In questo periodo, nella rivista: “La Nouvelle Revue Française”, pubblicò uno studio filosofico su Spinoza e a partire dal 1934, pubblicò alcune traduzioni dal sanscrito. Nel 1936 pubblicò la sua prima raccolta poetica: Le Contre-Ciel. Nel 1939 venne a sapere di essere affetto da una grave forma di tubercolosi polmonare. Proseguì senza sosta la sua attività di scrittore e traduttore di frammenti di grandi testi indù. In questo stesso periodo, durante un soggiorno a Pelvoux, sulle Alpi, iniziò la stesura della sua più importante opera in prosa, rimasta incompiuta: Mont Analogue (Il Monte Analogo). Si tratta di un romanzo di avventura sull’alpinismo, visto in un’ottica metafisica come viaggio per raggiungere la vetta, raccordo tra terra e cielo, sulla quale ognuno compie e trova le ragioni della propria esistenza. L’opera doveva prevedere sette capitoli, ma Daumal ebbe il tempo di scriverne solo cinque prima di morire. Nel 1940 collaborò con la rivista “Fontaine” e pubblicò la raccolta poetica: Poésie noire et poésie blanche. In questi anni le sue condizioni di salute peggiorarono precipitosamente. Morì a Parigi il 21 maggio del 1944. Aveva trentasei anni.

Articolo e traduzione a cura di Emilio Capaccio

Foto: due immagini di René Daumal e Il gruppo dei «Phrères simplistes» (fonte web)



Triste petit train de vie

Celle qui pourrit dans mon coeur

c’est la lueur qui se nourrit des peurs

qui rôdent chantant le malheur,

en haut, en bas, toujours.

Nuit sur la nuit, c’est fête, enfonçons-la

détresse

sous l’ouate d’une joie épaisse;

nuit sur la nuit, c’est la faiblesse

du coeur brisé.

La pourriture est dans mon souffle et ce

vent

c’est le siffleur fascinant, c’est la dent,

c’est le goût de saumure de ce gouffre avant

la fuite en bas.

Plaie du jour à mon flanc!

la nuit, c’est mon sang

qui s’enfuit par ce trou blanc,

soleil qui me baigne jusqu’au petit matin,

m’ôte la faim

au petit matin de ma fin,

personne n’entend, personne,

personne ne tend la main,

je suis l’aiguille,

l’aiguille dans le tas de foin,

le foin sans fin, l’étouffeur à la fin ...

personne ne vient, personne ne pleure,

sauf toujours la même, la terreur.



Triste piccolo modo di vivere

Quello che marcisce dentro il mio cuore

è il chiarore che si nutre delle paure

che vagano cantando la sventura,

in alto, in basso, per sempre.

Notte sulla notte, è festa, soffochiamo

lo sconforto

sotto l’ovatta di una gioia addensata;
notte sulla notte, è la debolezza

del cuore spezzato.

La putrefazione è nel mio soffio e questo

vento

è il fischiatore affascinante, è il dente,

è il gusto di salamoia di questo baratro prima

dello scolo verso il basso.
Piaga del giorno al mio fianco!
la notte, è il mio sangue

che scende per questo buco bianco,

sole che mi bagna già dall’alba,

mi toglie la fame

all’alba della mia fine,

nessuno sente, nessuno,

nessuno tende la mano,

sono l’ago,

l’ago nel mucchio di paglia,

la paglia senza fine, la soffocatrice nella fine ...

nessuno viene, nessuno piange,

eccetto sempre lo stesso, il terrore.



Après

Je vais renaître sans coeur,

toujours dans le même univers,

toujours portant la même tête,

les mêmes mains,

peut-être changées de couleurs,

mais cela même ne me consolerait point.
Je serai cruel et seul

et je mangerai des couleuvres et des insectes crus.
Je ne parlerai à personne,

sinon en paroles d’insectes

ou de couleuvres nues,

en mots qui vivront et riront malgré moi.



Dopo

Rinascerò senza cuore,

sempre nello stesso universo,

sempre portando la stessa testa,

le stesse mani,

forse di colore diverso,

ma tutto ciò non potrà consolarmi.
Sarò crudele e solo

e mangerò bisce e insetti crudi.
Non parlerò a nessuno,

se non con parole d’insetti

o di bisce nude,

con parole che mio malgrado vivranno e rideranno.



Il suffit d’un mot

Nomme si tu peux ton ombre, ta peur

et montre-lui le tour de sa tête,

le tour de ton monde et si tu peux

prononce-le, le mot des catastrophes,

si tu oses rompre ce silence

tissé de rires muets, — si tu oses

sans complices casser la boule,

déchirer la trame,

tout seul, tout seul, et plante là tes yeux

et viens aveugle vers la nuit,

viens vers ta mort qui ne te voit pas,

seul si tu oses rompre la nuit

pavée de prunelles mortes,

sans complices si tu oses

seul venir nu vers la mère des morts —

dans le coeur de son coeur ta prunelle repose —

écoute-la t’appeler: mon enfant,

écoute-la t’appeler par ton nom.



Basta una parola

Chiama se puoi la tua ombra, la tua paura

e mostragli il viaggio della sua testa,

il viaggio del tuo mondo e se puoi

pronuncia la parola delle catastrofi,

se osi rompere questo silenzio

tessuto di risa mute, — se osi senza complice

rompere la sfera,

strappare la trama,

solo, tutto solo, e pianta là i tuoi occhi

e vieni cieco verso la notte,

vieni verso la tua morte che non ti vede,

solo se osi rompere la notte

lastricata da pupille morte,

senza complici se osi

solo venire nudo verso la madre dei morti —

nel cuore del suo cuore la tua pupilla riposa —

ascoltala chiamarti: bambino mio,

ascoltala chiamarti per nome.



La désillusion

Blanc et noir et blanc et noir,

attention, je vais vous apprendre à mourir,

fermez les yeux, serrez les dents,

clac! vous voyez, ce n’est pas difficile,

il n’y a là rien d’étonnant.

Je vous parle sans passion,

noir et blanc et noir et blanc,

clac! vous voyez qu’on s’y fait vite,

je vous parle sans amour,

et pourtant vous savez bien ...

— il faut être évident jusqu’à l’absurde —

Blanc et noir et blanc et noir et noir et blanc,

si nos âmes échangeaient leurs corps,

il n’y aurait rien de changé,

alors ne parlez plus de corps ni d’âmes.

Blanc, noir, clac! c’est la seule chose

qu’ensemble nous pouvons comprendre,

(mais n’est-ce pas qu’il n’y a là rien de tragique?)

Je vous parle sans passion

blanc, noir, blanc, noir, clac,

et c’est mon éternel cri de mourant,

ce cri blanc, ce trou noir ...

Oh! Vous n’entendez pas,

vous n’existez pas,

je suis seul à mourir.



La disillusione

Bianco e nero, bianco e nero,

attenzione, vi insegnerò a morire,

chiudete gli occhi, stringete i denti,

clac! vedete, non è difficile,

non c’è niente di stupefacente.

Vi parlo senza passione,

nero e bianco, nero e bianco,

clac! vedete come si fa presto,

vi parlo senza amore,

eppure sapete bene ...
— bisogna che sia evidente fin all’assurdo —

Bianco e nero, bianco e nero, e nero e bianco,

se le nostre anime scambiassero i loro corpi,

non ci sarebbe nulla di cambiato,

non parlate allora di corpi né di anime.

Bianco, nero, clac! è la sola cosa

che insieme possiamo comprendere,

(non è che vi sia qualcosa di tragico?)

Vi parlo senza passione

bianco, nero, bianco, nero, clac,

è il mio eterno grido di morente,

questo grido bianco, questo buco nero ...
Oh! Voi non sentite,

voi non esistete,

sono solo a morire.



La peau du monde

Je vis et je vais m’interrogeant de la vie,
et l’image méconnaissable de moi-même,
ce monde d’air, de roc, de maisons, de lumières,
de millions de visages sans lois, sans voix
ce cuivre, ce bois verni, ces souffles, ces cris,
tournent, couleurs à fleur de peau,
formes touchées, mangées, où suis-je?

(non, non, ce n’est pas une devinette,
hélas, ce n’est pas une devinette,
que ce soit ici ou ailleurs
je ne me reconnais plus.)

Ordre si fragile de la géométrie,
ne me prodigue plus les consolations de ton coeur de fer.
Ces jours, je vais dans les couleurs et les sons mêlés,
et je vois la nuit dans les plus vives lumières,
monde, monstrueux fantôme,
ton jour est la plus vide des nuits.
Une voix dit: “où suis-je? qui suis-je?”

Est-ce ma voix dans ce désert?
La surface de chaque chose
est tendue par la nuit qui la gonfle,
− Oh! cette nuit en voiles de soleil!
Oui, cette parole dans la bulle d’illusion,
cette parole perdue,
ce n’est jamais que la mienne.



La pelle del mondo

Vivo e mi interrogo sulla vita,

e l’immagine irriconoscibile di me stesso,

questo mondo d’aria, di roccia, di case, di luci,

di milioni di facce senza leggi, senza voce

questo rame, questo bosco dipinto, questi soffi, queste grida,

fanno ruotare, colori a fior di pelle,

forme sfiorate, mangiate, dove io mi trovo?

(no, no, non è un indovinello,

ahimè, non è un indovinello

che io sia qui o altrove

non mi riconosco.)

Ordine così fragile della geometria,

non prodigarmi più le consolazioni del tuo cuore di ferro.

Questi giorni, io vado nei colori e nei suoni mescolati,

e vedo la notte nelle più vivide luci,

mondo, mostruoso fantasma,

il tuo giorno è più vuoto delle notti.

Una voce dice: “dove sono? chi sono?”

È questa la mia voce in tale deserto?

La superficie di ogni cosa

è tesa dalla notte che la gonfia,

— Oh! questa notte nei veli del sole!

Sì, questa parola nella bolla dell’illusione,

questa parola perduta,

non è che la mia.



Feu aux artifices

Les manèges tournent

avec leurs carrosses de plâtre doré,

les sirènes aux cheveux jaunes soufflent

de leurs grandes poitrines creuses,

le malheur entre dans la ville,

parmi les palais bâtis par des fous,

le malheur entre dans les châteaux de cartes,

dans les carcasses de plâtre des maisons,

dans les manèges dorés.

Mettons le feu à la cité,

les sirènes du manège flambent,

les couleurs de leurs joues se rehaussent,

le malheur, main de fer, demeure,

parmi les rires de braises

et l’odeur du carton verni

qui brûle rose.

La main de fer demeure

plus brûlante et plus sûre,

beau malheur luisant dans les cendres,

dernière certitude, que caches-tu dans ta paume?

ouvre les doigts, main dure mais solide,

que je pose mon front brûlé

dans ta chair vive et ferme,

saignante de soleil tueur.



Fuoco d’artificio

Le giostre girano

con le loro carrozze di stucco dorato,

le sirene dai gialli capelli soffiano

dai loro grandi petti vuoti,

la sciagura entra nella città,

tra i palazzi costruiti dai matti,

la sciagura entra nei castelli di carta,

nelle carcasse di gesso delle case,

nelle giostre dorate.

Appicchiamo il fuoco nella città,

le sirene della giostra fiammeggiano,

i colori delle loro guance si riaccendono,

la sciagura, mano di ferro, dimora,

tra le risa di brace

e l’odore di cartone colorato

che arde rosa.

La mano di ferro dimora

più rovente e più sicura,

bella sciagura luccicante nelle ceneri,

ultima certezza, che nascondi nel tuo palmo?

apri le dita, mano dura ma solida,

perché io ponga la mia fronte bruciata

nella tua carne viva e soda,

sanguinante di sole assassino.


Gianluca Spitalieri - Racconti di un'assenza



Gianluca Spitalieri - Racconti di un'assenza - Transeuropa, 2016Image may be NSFW.
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Gianluca Spitalieri - Racconti di un'assenza - Transeuropa, 2016


Che fare, si diceva qualche giorno fa con un amico, quando di un autore non sappiamo niente, non conosciamo nemmeno la faccia, non abbiamo la minima idea della sua vita o di come si sia costruito il suo bagaglio, la sua "ispirazione"? Non ci rimane che il testo. Per capire, ad esempio, di quale assenza voglia raccontare Spitalieri in questo libro abbastanza scarno (sono venticinque poesie) ma compatto nei suoi intendimenti e nel tema. Che è quello dell'amore, con i suoi immancabili dispiaceri, con la sue mancanze e lacerazioni, partenze e ritorni e patemi d'animo. L'assenza è dunque quella di chi non c'è, se ne è andato, manca all'appello, si fa aspettare. Ma è anche quella di tutti gli atti mancati, di appuntamenti andati a vuoto, e non solo quelli amorosi, del fallimento del confronto anche comunicativo con l'altro, chiunque esso sia. Dunque assenze molteplici e diverse, di cui l'amore, inteso sia come sentimento sia come densità corporea, finisce per diventare un grosso correlativo oggettivo, di qualcosa d'altro. E inoltre assenza come vuoto difficilmente risarcibile, poiché - come scrive Spitalieri - "chi parte non lascia niente".
Dunque il tema c'è, ed è noto, universale, antico come l'uomo. In ciò rischioso, nel senso che parlare d'amore è possibile solo se lo si fa in  un modo che consenta al lettore di scoprire qualcosa di nuovo sull'argomento, anche se fosse soltanto una diversa nuance di dire una cosa nota. Di scoprire, come diceva qualcuno, qualcosa che sa già. Qui ci sono intanto almeno due prospettive: una di chi parla d'amore parlando di qualcosa d'altro, foss'anche un melograno o bolle di sapone, con uno sguardo apparentemente ondivago che però nasconde un chiodo emotivo; l'altra esattamente contraria, in cui l'amore è esplicitato, e magari corporeo, ma è specchio di un mondo più vasto non sempre semplice da comprendere o da controllare (come l'amore stesso, del resto).
Il metodo di Spitalieri di affrontare la sua materia poetica è di distenderla in pennellate con almeno un paio di caratteristiche: sono lunghe, versi liberi ad andamento narrativo ma generalmente chiusi, cioè composti da frasi pressoché complete, che trovano il loro senso compiuto nell'ambito del verso stesso (ed essendo lunghe hanno lo scopo - o tentano - di dire più cose); e sono spesso contrapposte, di materiali, colori, registri, consistenze diverse (e talvolta anche di contenuti diversi, come un volontario saltare di palo in frasca - vedi ad esempio, qui sotto, in Attese, lo scarto tra la prima e la seconda strofa). L'effetto di questa stesura è la composizione di un testo (parlando in senso lato) che generi da una parte una attesa di qualcosa che gli accidenti della vita hanno momentaneamente sospeso ma che certo avrà un suo esito naturale, buono o cattivo che sia (una storia, un amore, una visione, un'idea ecc.); dall'altra una frustrazione di quella attesa, non tanto come risultato poetico quanto come negazione di un continuum, come affermazione del fatto che le cose vanno come vanno e sono sempre più complicate e meno lineari di quanto ci si possa aspettare. E' in questo senso che dicevo che il tema, amore o altro, poi veicola una visione del mondo più ampia, vestita di un pessimismo consapevole, di una aspettativa esistenziale liquida e insieme legata ad un hic et nunc, un certo qual "lascio fare al caso che poche volte invece / ha reagito bene alle insistenze del corpo". Il modo relativamente nuovo di parlare d'amore è quindi dire che l'amore è un accidente (un caso, appunto) della vita, qualcosa di intruso in quel magma ma con uno statuto speciale, che càpita, a volte è un incontro fortuito (anche, specie nel suo coté meramente erotico più che affettivo), ma incide, lascia un segno di cui ci si può illudere che sia una chiave di lettura dell'esistenza, a sua volta scarsamente proiettata verso il futuro, visto comunque come "un domani precario che si consuma / fra zuccheri e caramelle".
Poi naturalmente c'è altro, o forse ci sarà, qualcosa che si intravede nei due bei testi che chiudono il libro, qui riportati. Sono in fondo e lasciano in bocca un sapore diverso, come la promessa di un nuovo tema o addirittura di un nuovo stile, qualcosa che verrà. Più compatti, più limpidi, più comunicativi e, se posso dirlo, più importanti del resto dei testi qui presenti, perché diversamente orientati all'esterno, ad una riflessione sul mondo da un punto di vista meno egoisticamente (si fa per dire) soggettivo, più engagé, più maturo (per quanto questo aggettivo nasconda sempre un'insidia), e se vogliamo più lirico (ma lo dico come pura constatazione). E' un'impressione che ho avuto, non so dire se sia il preludio di qualcosa di diverso, non so nemmeno se siagiusto aspettarselo. Ma certo Spitalieri ha i mezzi, se vuole.  Staremo a vedere.  (g. cerrai)


Assilli  

I mille sguardi dei morti lasciano un paese a pezzi
e rimangono solitarie le strade di notte senza asfalto.
Hai forse trovato riposo in uno dei tanti letti presi in affitto
in quel luogo desolato?
Ho gettato semi nel water questa notte, raccolti in contenitori di cellulosa
serbo speranze nell’uomo.
Riuscirebbe a ritrovare un figlio perduto in quelle strade solo dallo sguardo.
Serbare speranze gettare seme e raccogliere sguardi
sembrano propositi alti per un paese di morti.

Ti ho lasciato anche questa notte con un abbraccio forte
e mi mancava il fiato per la presa. Così lascio i miei amanti
mentre stringo le palle alla luna illudendomi.

Avresti preferito un lavoro decente e mille prestiti in banca
invece di una notte passata con me. Posso capirlo.
Sono un precario anch’io. Ma di amori. Quelli che restano in gola
e che non vanno giù nemmeno a morire.

Questa notte quel letto lo paghi tu però.



After a long trip to a shrine                                 

Anche se i doni sfuggono agli occhi con poche parole e intanto respiri
lo stesso e non smetti più,
non ha più sonno il mondo e non basto più a dare nomi alle cose, ad ogni cosa
che è altro alle ore d’estate e alle luci del maggio che luccica
come macchia di bosco all’ombra come siepe che nasconde.
E questo non basta nemmeno a ficcarti dentro alla testa che è finito.

Stanchi occhi rossi
                              e una pausa pranzo in più.

Già... sembra assenza di dio che non dovesse mai arrivare quel giorno.

Abbandono? Come lo chiamò il poeta che vide scivolare
l’amore in un bicchiere
di sangue!


Ora lasciami il numero... anzi lasciami

                                                                    … after a long trip to a shrine.



Granada     

Non sarebbe il primo viaggio pieno di vittorie
senza marmitta truccata in moto chi lascia la propria terra.
Al mattino con un grumo di cavallette in testa e quello che resta d’un giorno
ci si affida al ricordo della madre coi capelli lunghi
e a quella sepolta dietro un sorriso.
Lascio le vittorie agli altri, mamma, e vado.
Anche se riuscissi a togliere mille denti in un solo colpo
so che a nulla servirebbe. Se non a lasciarsi senza dolore
come se tu fossi priva di quella ridicola calzamaglia che ti ostini ad indossare.
Tutte le sere.
Le stesse sere in cui tornava a casa e pisciava sul letto
e diceva che era colpa dell’acqua fredda.
Abbandono la memoria del corpo una volta per tutte e vado.

Abbandono la memoria della casa, quella degli spiriti veri e fasulli
con cui si gioca da piccoli e si cresce anche.

E intanto raggiungo il melograno.



Attese

Si fa presto a godersi dietro l’angolo
d’una strada,
quando invece uno sguardo sta ancora riposando
sul davanzale d’una finestra.
Dall’alto si sente poco e sembra più strano il gioco
se a mancare è il desiderio.

Questa mattina ho spedito tutti gli auguri di Natale.
Un quotidiano impegno di resistenza al tempo.

Dall’altra finestra si segue il passo di chi vuol perdersi
ed io lascio fare al caso che poche volte invece
ha reagito bene alle insistenze del corpo.

Si può mostrare di essere a casa in attesa
anche per un paio d’ore
col fiato strangolato da un colpo di mano
ma io non sono quel tipo lì...



Tra zuccheri e caramelle            

Lei si guardava distratta in quel buco d’ombre
la notte come facevano tutte in piedi tra gli sguardi
del Metrò.
Pochi attimi e sarebbe ritornata quella strana luce
cobalto ad illuminare il pavimento e
finalmente si sarebbero riconosciute nello spazio
chiuso d’un colore che un po’ in verità soffocava...
… avevano fatto l’amore con gli occhi mille volte
quella sera e nulla confessavano ora gli ultimi sguardi
che si perdevano prima di andar via da quel tocco di bicchieri.
Tutto si lascia alle spalle in quelle circostanze
ad un domani precario che si consuma
tra zuccheri e caramelle.



Alla fiera imbonitora

Quando dissi che quel letto vischioso forse andava buttato
pensavo alla mia memoria che fa acqua da tutte le parti
un intoppo fuori dalle cose
                                       che puzza di vita di cinguettii notturni
   che si riconoscono dal ballatoio di casa mia.
La chiami processione di corpi quella che nessuno ama e nessuno tocca
perché argillosa
e dovresti saperlo tu che vomiti sesso e che inzuppi briciole nel vino
quelle sere quando ci si sente soli e ti scappa una parola sporca
perché Così Fan Tutte
nel termitaio dove maschi e femmine si fecondano nutrendosi.

C’era amore vero sul davanzale che strizzava
sottane per uomini:
ce ne è per tutti i gusti alla fiera imbonitora.
Perché so che cammini e non ti curi di essere guardato?

malato il corpo
malato il frutto
malato il sogno

ieri ho rovistato tra gli armadi di casa mia
                                                                 se domani avrai voglia tu
                                                                 basta una botta.



La rosa di montagna              

Non c’è alcun vantaggio
nel fare strada a piedi dove l’aria
spezza la lingua
e si sente dischiusa a tratti una parte del cielo più chiaro,
con l’altra fitta di rose rugose dai margini seghettati e incompiuti,
lasciando che muti il colore la rosa di montagna
dal verde al giallo dal rosso all’arancione
alla fine di un inverno che non risparmia coltre d’ovatta
e s’affloscia bavoso sul sentiero.
Dal basso tutto appare più difficile
e s’allunga l’edera che ricopre muri a specchio:
non c’eri quando raccoglievano le bombe dimenticate sul campo
e nemmeno quando filtrava una nuova stagione che spegneva
la precedente.

Non ci sono vantaggi nel ricercare buoni motivi
fottendo la vita in nome della poesia.



Luoghi di afa

Inabissa il peso dell’acqua in mezzo alle terre
che da Zaura solleva fra le palme suoi edifici
fra una folla di corpi di donne e bambini e gli uomini
anziani sono muraglie di fango in quelle terre di guerra.

Si scivola via sopra i letti del mare e non c’è nulla da sognare
dove la storia non ammette futuro in quel mondo d’Occidente
ove silente nasconde colpe ed essicca memoria.

Vorrei trovare un luogo che non sia solo luogo
una terra che non sia solo terra.

Vorrei attraversare un mare che non sia solo mare
e vorrei aggrapparmi sui fianchi della terra
e risalire dove le spighe raggiungono il cielo.

Ora dove il buio è l’eco della storia dei popoli del mare
l’abisso racconta le nostre storie e dove brilla la resina
si inabissano popoli di città ormai sommerse.



Mesi di dormienza

Strattonano le gemme di faggio purpureo
durante i mesi di dormienza.
Una stagione anomala che ispessisce i tronchi
delle latifoglie. Che ritarda il gelo sulle foglie
che scava sulle cortecce ridotte e che sfronda
all’essenziale.
È una stagione che delimita lo spazio
e che ci separa e ci definisce e ci avvantaggia
nella cernita in un inverno fittizio ed effimero.
E nell’illusione che basti il caldo alla crescita
portiamo anche noi
le nostre sacche di sementi, bacche rosse
esposti al cimento della vita.
E come le piante senza riposo invernale
affidiamo alle stagioni la fiducia
di una nuova corsa
tra le colline del moscato.
In anticipo corre la stagione dei ciliegi.


Guillaume Apollinaire - da Calligrammes, traduzioni di Norma Stramucci



Alcuni testi di Guillaume Apollinaire, tratti da Calligrammes, nella traduzione di NorImage may be NSFW.
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Guillaume Apollinaire
ma Stramucci (G. Apollinaire - Da Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre, 1913-1916 - Ed Arcipelago Itaca, 2016), traduzione che Giovanni Raboni, in una lettera del 2002 a Stramucci, aveva trovato "...decisamente un buon lavoro, motivato da un atteggiamento di fondo giustamente non esibizionistico (capita molto spesso a chi traduce ed è poeta in proprio..), ma non privo di soluzioni coraggiose [...]", ma che in me   suscita qualche sommesso motivo di perplessità. Tuttavia sono sempre interessanti sia la lettura di Apollinaire, sia il confronto con altre interpretazioni, e ringrazio l'amico Danilo Mandolini, patron di Arcipelago Itaca, di avermi inviato questo libro. A voi la lettura.

LUNEDÌ RUE CHRISTINE

Faranno fìnta di niente la portinaia e sua madre
Questa sera mi accompagnerai se sei un uomo
Sarà sufficiente che uno faccia la guardia al portone
Mentre l'altro sale

Sono accesi tre fornelli a gas
La padrona soffre di tubercolosi
Faremo una partita a tric-trac quando avrai finito
Ha mal di gola un direttore d'orchestra
Ti offrirò hashish da fumare quando verrai a Tunisi

Sembrano parole in rima

Una fila di piattini fiori e un calendario
Pim pam pim
Quasi 300 franchi devo dare d'affitto alla mia padrona
Preferirei tagliarmelo piuttosto che pagarla

Alle 20 e 27 partirò
In continuazione sei specchi si fissano
Mi sembra che stiamo a complicarci sempre di più
Caro signore
Siete un uomo che non vale due soldi
A un verme solitario assomiglia il naso di quella donna
Luisa ha dimenticato la pelliccia
I0 non la indosso e non ho freddo
Il Danese fuma e controlla l'orario
Il gatto nero passa per la birreria

Erano buone queste frittelle
La fontana gocciola

Nero il vestito come le unghie
Non è concepibile
Ecco signore
L'anello di malachite
C'è segatura per terra
E ciò dimostra che è vero
Un libraio ha rapito la cameriera rossa

Un giornalista che conosco del resto molto poco

Jacques attento ti dirò cose essenziali

Compagnia di navigazione mista

Mi disse guardi signore che cosa so fare in acqueforti e quadri
Io però ho solo una servetta

Dopo pranzo al caffè del Luxemburg
Una volta là mi fa incontrare un uomo grande e grosso
Che mi dice
Mi stia a sentire è divertente
A Smirne a Napoli in Tunisia
Ma dove mio Dio
Sono trascorsi otto o nove anni
Da quando sono stato l'ultima volta in Cina
L'Onore sta spesso nell'ora che segna il pendolo
La quinta maggiore



VERSO IL SUD

Zenit
        Tutti questi rimpianti
                                          Questi giardini senza fine
Dove il rospo canta un tenero grido d'azzurro
La cerva del silenzio sperduto passa in poco tempo
Un usignolo in strazio d'amore canta
Sul roseto del tuo corpo dal quale ho colto le rose
I nostri cuori pendono insieme dallo stesso melograno
E i fiori del melograno nei nostri sguardi schiusi
Cadendo uno alla volta hanno ammantato il sentiero




NEL RIFUGIO-CAVERNA

Mi getto verso di te e mi sembra che tu ti getti verso di me
Parte da noi una forza fuoco solido che ci scalda
Si aggiunge la contraddizione per cui non possiamo rendercene conto
Di fronte a me si sbriciola la parete di creta
Vi sono screpolature
Tracce di arnesi lunghe e lisce tali da sembrare fatte nella stearina
Pezzi di crepe sono staccati dal passaggio dei soldati che si occupano del mio pezzo di artiglieria
Mi è un'anima stasera svuotata vuota
Si direbbe di cadervi senza fine e senza mai toccare il fondo
Mancano appigli di qualsiasi tipo
Quel che vi cade e vive è una sorta di esseri immondi che mi fanno male e che vi giungono da chissà dove
Sì io credo che vengano dalla vita da una specie di vita che è nell'avvenire in quel futuro bruto che ancora non si è potuto coltivare o elevare o umanizzare
In questo grande vuoto della mia anima manca un sole manca ciò che dà luce
E oggi è stasera non la vita intera
Per fortuna è solo stasera
Gli altri giorni mi aggrappo a te
Gli altri giorni mi consolo della solitudine e di tutti gli orrori
Fingendomi la tua bellezza
Per innalzarla al di sopra dell'universo estasiato
Poi penso di immaginarla inutilmente
E ignota a ciascuno dei miei sensi
Non la conosco neppure attraverso le parole
E allora è vano anche il mio piacere della bellezza
Tu esisti amore mio
O non sei che una entità che ho creato senza volerlo
Per popolare la solitudine
Sei tu simile ad una di quelle dee inventate dai greci per annoiarsi meno
Ti adoro o mia dea squisita anche se esisti solo nella mia mente




RAZZO

Hai in testa un ricciolo nero che è il mio tesoro
Il mio pensiero ti raggiunge ed incontra il tuo
I tuoi seni sono i soli proiettili che amo
II tuo ricordo è la luce che ci serve agli avvistamenti della notte

Vedendo la larga groppa del mio cavallo ho pensato alle tue anche

Ecco i fantaccini che se ne vanno in retrovia leggendo un giornale

Il cane del portaferiti torna con una pipa in bocca

Un barbagianni ali fulve occhi sbiaditi gola di micetto e zampe di gatto

Un topolino verde fila in mezzo al muschio

Il riso si è bruciato nella marmitta da campo
Questo vuol dire che bisogna considerare molte cose con attenzione e bene

Il megafono grida
Allungate il tiro

Allunga amore il tiro delle tue batterie

Bilancia delle batterie cimbali pesanti
Che scuotono i cherubini pazzi d'amore
In onore del Dio degli Eserciti

Un albero nudo sulla collina

Il rumore dei traini che si arrampicano nella valle

O vecchio mondo del XIX secolo pieno di così belle e pure alte ciminiere

Virilità del secolo in cui stiamo
O cannoni

Bossoli strepitosi dei 75
Scampanate religiosamente




OCEANO DI TERRA

A G. de Chirico

Nel mezzo dell'Oceano mi sono fatto una casa
Le sue finestre sono ì fiumi che mi scorrono dagli occhi
In ogni luogo dei muri brulicano i polipi
Ascoltatene battere il triplo cuore e il becco coprire i vetri
                               Casa umida
                               Casa ardente
                               Stagione rapida
                               Stagione canterina
                   Gli aeroplani depongono le uova
                   Attenzione si getta l'ancora
Attenzione all'inchiostro che si getta
Sarebbe bene che veniste dal cielo
Il caprifoglio del cielo si arrampica
Palpitano i polipi terrestri
E poi noi sempre più diventiamo di noi stessi i becchini
Pallidi polipi delle onde terree o polipi dai pallidi becchi
Circonda la casa questo oceano che conosci
E che mai riposa




LA PARTENZA

E i loro volti erano imbiancati
Rotti i singhiozzi

Come la neve dai petali immacolati
O le tue mani sui miei baci
Cadevano le foglie autunnali




RICORDI

                        Due laghi negri
                                 Tra una foresta
                                           E una camicia che asciuga

Bocca schiusa sull'armonium
Era una voce fatta di occhi
A trascinare la piccola gente

Una vecchietta minuta dal naso a punta
Ammiro lo scaldino smaltato di blu
Ma il ratto penetra nel morto e ci resta

Un signore in maniche di camicia
Si rade vicino alla finestra
Cantando un'aria che non conosce bene
Fa molto opera

Tu che ti volti al re
Quasi che Dio volesse ancora morire



TESTI ORIGINALI

LUNDI RUE CHRISTINE

La mère de la concierge et la concierge laisseront tout passer
Si tu es un homme tu m'accompagneras ce soir
Il suffirait qu'un type maintînt la porte cochère
Pendant que l'autre monterait

Trois becs de gaz allumés
La patronne est poitrinaire
Quand tu auras fini nous jouerons une partie de jacquet
Un chef d'orchestre qui a mal à la gorge
Quand tu viendras à Tunis je te ferai fumer du kief

Ça a l'air de rimer

Des piles de soucoupes des fleurs un calendrier
Pim pam pim
Je dois fiche près de 300 francs à ma probloque
Je préférerais me couper le parfaitement que de les lui donner

Je partirai à 20 h. 27
Six glaces s'y dévisagent toujours
Je crois que nous allons nous embrouiller encore davantage
Cher monsieur
Vous êtes un mec à la mie de pain
Cette dame a le nez comme un ver solitaire
Louise a oublié sa fourrure
Moi je n'ai pas de fourrure et je n'ai pas froid
Le Danois fume sa cigarette en consultant l'horaire
Le chat noir traverse la brasserie

Ces crêpes étaient exquises
La fontaine coule

Robe noire comme ses ongles
C'est complètement impossible
Voici monsieur
La bague en malachite
Le sol est semé de sciure
Alors c'est vrai
La serveuse rousse a été enlevée par un libraire

Un journaliste que je connais d'ailleurs très vaguement

Ecoute Jacques c'est très sérieux ce que je vais te dire

Compagnie de navigation mixte

Il me dit monsieur voulez-vous voir ce que je peux faire d'eaux-fortes et de tableaux
Je n'ai qu'une petite bonne

Après déjeuner café du Luxembourg
Une fois là il me présente un gros bonhomme
Qui me dit
Écoutez c'est charmant
A Smyrne à Naples en Tunisie
Mais nom de Dieu où est-ce
La dernière fois que j'ai été en Chine
C'est il y a huit ou neuf ans
L'Honneur tient souvent à l'heure que marque la pendule
La quinte major




VERS LE SUD

Zénith
           Tous ces regrets
                                     Ces jardins sans limite
Où le crapaud module un tendre cri d'azur
La biche du silence éperdu passe vite
Un rossignol meurtri par l'amour chante sur
Le rosier de ton corps dont j'ai cueilli les roses
Nos coeurs pendent ensemble au même grenadier
Et les fleurs de grenade en nos regards écloses
En tombant tour à tour ont jonché le sentier




DANS L'ABRI-CAVERNE

Je me jette vers toi et il me semble aussi que tu te jettes vers moi
Une force part de nous qui est un feu solide qui nous soude
Et puis il y a aussi une contradiction qui fait que nous ne pouvons nous apercevoir
En face de moi la paroi de craie s'effrite
Il y a des cassures
De longues traces d'outils traces lisses et qui semblent être faites dans de la stéarine
Des coins de cassures sont arrachés par le passage des types de ma pièce
Moi j'ai ce soir une âme qui s'est creusée qui est vide
On dirait qu'on y tombe sans cesse et sans trouver de fond
Et qu'il n'y a rien pour se raccrocher
Ce qui y tombe et qui vit c'est une sorte d'êtres laids qui me font mal et qui viennent de je ne sais où
Oui je crois qu'ils viennent de la vie d'une sorte de vie qui est
[dans l'avenir dans l'avenir brut qu'on n'a pu encore cultiver ou élever ou humaniser
Dans ce grand vide de mon âme il manque un soleil il manque ce qui éclaire
C'est aujourd'hui c'est ce soir et non toujours
Heureusement que ce n'est que ce soir
Les autres jours je me rattache à toi
Les autres jours je me console de la solitude et de toutes les horreurs
En imaginant ta beauté
Pour l'élever au-dessus de l'univers extasié
Puis je pense que je l'imagine en vain
Je ne la connais par aucun sens
Ni même par les mots
Et mon goût de la beauté est-il donc aussi vain
Existes-tu mon amour
Ou n'es-tu qu'une entité que j'ai créée sans le vouloir
Pour peupler la solitude
Es-tu une de ces déesses comme celles que les Grecs avaient douées pour moins s'ennuyer
Je t'adore ô ma déesse exquise même si tu n'es que dans mon imagination




FUSÉE

La boucle des cheveux noirs de ta nuque est mon trésor
Ma pensée te rejoint et la tienne la croise
Tes seins sont les seuls obus que j'aime
Ton souvenir est la lanterne de repérage qui nous sert à pointer la nuit

En voyant la large croupe de mon cheval j'ai pensé à tes hanches

Voici les fantassins qui s'en vont à l'arrière en lisant un journal

Le chien du brancardier revient avec une pipe dans sa gueule

Un chat-huant ailes fauves yeux ternes gueule de petit chat et pattes de chat

Une souris verte file parmi la mousse

Le riz a brûlé dans la marmite de campement
Ça signifie qu'il faut prendre garde à bien des choses

Le mégaphone crie
Allongez le tir

Allongez le tir amour de vos batteries

Balance des batteries lourdes cymbales
Qu'agitent les chérubins fous d'amour
En l'honneur du Dieu des Armées

Un arbre dépouillé sur une butte

Le bruit des tracteurs qui grimpent dans la vallée

O vieux monde du XIXe siècle plein de hautes cheminées si belles et si pures

Virilités du siècle où nous sommes
O canons

Douilles éclatantes des obus de 75
Carillonnez pieusement




OCÉAN DE TERRE

A G. de Chirico

J'ai bâti une maison au milieu de l'Océan
Ses fenêtres sont les fleuves qui s'écoulent de mes yeux
Des poulpes grouillent partout où se tiennent les murailles
Entendez battre leur triple coeur et leur bec cogner aux vitres
                              Maison humide
                              Maison ardente
                              Saison rapide
                              Saison qui chante
                 Les avions pondent des oeufs
                 Attention on va jeter l'ancre
Attention à l'encre que l'on jette
Il serait bon que vous vinssiez du ciel
Le chèvrefeuille du ciel grimpe
Les poulpes terrestres palpitent
Et puis nous sommes tant et tant à être nos propres fossoyeurs
Pâles poulpes des vagues crayeuses ô poulpes aux becs pâles
Autour de la maison il y a cet océan que tu connais
Et qui ne repose jamais




LE DÉPART

Et leurs visages étaient pâles
Et leurs sanglots s'étaient brisés

Comme la neige aux purs pétales
Ou bien tes mains sur mes baisers
Tombaient les feuilles automnales




SOUVENIRS

               Deux lacs nègres
                      Entre une forêt
                              Et une chemise qui sèche

Bouche ouverte sur un harmonium
C'était une voix faite d'yeux
Tandis qu'il traîne de petites gens

Une toute petite vieille au nez pointu
J'admire la bouillotte d'émail bleu
Mais le rat pénètre dans le cadavre et y demeure

Un monsieur en bras de chemise
Se rase près de la fenêtre
En chantant un petit air qu'il ne sait pas très bien
Ça fait tout un opéra

Toi qui te tournes vers le roi
Est-ce que Dieu voudrait mourir encore


Un’influenza senza angoscia: l’ombra lunga di Emilio Villa nei testi di Corrado Costa - un saggio di Chiara Portesine



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emilio villa - corrado costa
Un’influenza senza angoscia: l’ombra lunga di Emilio Villa nei testi di Corrado Costa

[da un intervento al Convegno che ha avuto luogo nelle giornate del 24 e 25 novembre 2016 presso la Scuola Normale Superiore, dal titolo «I Verbovisionari. L’ “altra avanguardia” tra sperimentazione visiva e sonora»]

Il parallelismo critico tra le figure di Corrado Costa ed Emilio Villa, oltre a poggiare su una solida amicizia personale (testimoniata dal nutrito carteggio conservato presso l’Archivio «Emilio Villa» di Ivrea), ha prodotto un’interessante collaborazione artistico-letteraria, particolarmente operativa tra gli anni Sessanta e Ottanta. Ricordo, sinteticamente, tra i testi più noti, ll mignottauro. Phrenodiae quinque de coitu mirabili (scritto a quattro mani e pubblicato nel 1980) e The Flippant ball-feel (un testo di Emilio Villa composto ad accompagnamento dei tre poemi-flippers di Corrado Costa e William Xerra, presentati alla Mostra del Mana Market, a Roma, nel 1973).

Per fornire un inquadramento generale dell’approccio di Costa ai testi villiani, occorre partire da alcune specificazioni preliminari: per quanto Villa sia stato un referente d’elezione per il giovane poeta, Costa è riuscito ad emanciparsi piuttosto brillantemente dal modello villiano, smontandolo nelle sue componenti fondamentali ed isolando quelle caratteristiche tecniche più utili a fondare una propria avventura sperimentale, felicemente autonoma. Per questo motivo, si potrebbe parlare di un caso critico-clinico di «influenza senza angoscia», cercando, nel parafrasare e distorcere l’etichetta di Bloom, di conservare intatto il valore dell’influenza, da cui Costa si svincola ma soltanto dopo aver compiuto un pedinamento serrato dei testi villiani, e operando una scelta ragionata di prelievi stilistici cui mescolare altre sollecitazioni culturali o apporti personali. Dal canto suo, Emilio Villa ha l’abitudine di rivolgersi a grandi modelli del passato (dai filosofi presocratici ad Artaud, da Esenin a Eliot), scansando il dialogo diretto con i poeti contemporanei; pertanto la figura di Costa verrà accettata in veste di compagno di strada (a volte coadiutore in opere a quattro mani), ma senza che la collaborazione lasci tracce stilistiche o suggestioni tematiche evidenti.

Soprattutto nei testi di Costa elaborati all’interno dell’arco cronologico citato all’inizio (anni sessanta-ottanta), il basso-continuo villiano si impone come referente preferenziale e quasi “seconda voce” argomentativa nella riflessione del poeta. Se prendiamo, ad esempio, Inferno provvisorio (uscito nel 1970), oltre a svariate allusioni e citazioni dirette sparse nel corpus testuale, troviamo un sottoparagrafo intitolato proprio «Emilio Villa», una sorta di digressione dedicata alla figura-chiave nel percorso di formazione del poeta:

Emilio Villa . Tutte le tecniche dell’allusione, dell’eufemismo, della sostituzione si assommano. Fanno divenire il testo un GRANDE LAPSUS in una lingua intermedia fra francese e italiano, che non è né l’una né l’altra, ma conserva di entrambe l’enorme bagaglio culturale, il suono latino, lo spaventoso senso del sacro! Oltraggiando se stessa la lingua diventa l’epifania dell’Oltraggio, e qualsiasi nome si forma nel suo flusso si corrompe, si guasta, si sfregia definitivamente. Villa, a bella posta, verifica l’oltraggio fuori dalla poesia per oltraggiare meglio la poesia: presentazioni per pittori, lettere, telegrammi e altri pretesti. La (d)eclaration, contro la Dea Madre, è dedicata alle opere del pittore Giuseppe Desiato, che a sua volta ha combinato fotografie di donne nude, abbronzate e bianche nei punti chiave dell’erotismo e su questi ventri, aperti come un libro, ha intercalato violentemente la scrittura

[C. Costa, Inferno provvisorio, Feltrinelli, Milano 1970, p. 50].


Se analizziamo questa breve parentesi monografica, notiamo in primo luogo l’interesse di Costa per l’ordito plurilinguistico delle sperimentazioni villiane, non nel senso di un mero collage giustapposto di lingue eterogenee (un verso in italiano, uno in francese, uno in inglese e così via), ma come riappropriazione dell’origine linguistica e della tradizione etimologica che ripercorre la catena semantica di ciascun idioma. Costa parla di una «lingua intermedia fra francese e italiano, che non è né l’una né l’altra, ma conserva di entrambe l’enorme bagaglio culturale [la cronologia storica della sua trasmissione], il suono latino, lo spaventoso senso del sacro [l’origine sacra della prima Parola]». Se la prepotente originalità dell’impalcatura linguistica è stata più volte notata da critici e altri scrittori (tra cui Andrea Zanzotto, in un acuto intervento comparso sul numero monografico del Verri nel 1998), il secondo focus riguarda, invece, l’importanza del «fuori», secondo un paradigma filosofico di area francese che Costa adopera ammiccando a un lessico decostruzionista “alla Derrida” o “alla Foucault”, pensatori più volte citati dal poeta. Per Costa, la critica d’arte, i quadri degli amici pittori, le lettere, gli apparati extratestuali, insomma, costituiscono un innesco imprescindibile della poetica villiana, che Costa ricostruisce nei termini di una letteratura-sfregio, per analogia con il paradigma di Artaud (la cui lettura è stata probabilmente suggerita all’amico proprio da Villa). Il pretesto, il paratesto, l’extratesto agiscono, quindi, come vettori di «anarchia» (per rimanere nell’area semantica di Artaud), ossia come principi di ordinamento alternativi all’Ordine stabilito. La centralità degli apporti esterni e i prestiti (lessicali e di concreta “impalcatura visiva”) provenienti dal settore artistico giocano effettivamente un ruolo fondamentale nella presentazione di un’opzione sperimentale originale e autonoma rispetto alla coeva Neoavanguardia.

Per riassumere, a Costa interessano in primo luogo la disposizione dialogica delle voci (gli idiomi) chiamati a reagire sul foglio, in secondo luogo la combinazione tra dato artistico e riqualificazione del medesimo in contesto letterario. Qui Costa cita come esempio l’articolo villiano dedicato alle opere del pittore Giuseppe Desiato, intervento nel quale Villa combina a un archetipo universale –quello della Grande Madre- le suggestioni plastiche della sua traduzione pittorica, ritraducendole una seconda volta entro le convenzioni del linguaggio letterario.

Per spiegare le dinamiche di questo parallelismo critico, ho ritenuto istruttivo mettere a confronto due opere (una di Villa dedicata a Costa e, simmetricamente, una di Costa dedicata a Villa), adoperandole come cartine tornasole del confronto (ben poco biunivoco) tra i due poeti. Partiamo da Emilio Villa; scartabellando tra le carte del Fondo conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, è possibile rintracciare una cartellina che reca la titolatura Scegliendo Pel da Pelo. Cristomazia lirico – retrospettiva –inedita 1944 – 1970 a cura e hasard del medesimo. Per Corrado Costa [cart. 2]. Questo faldone assembla materiali eterogenei (da un punto di vista cronologico, stilistico e di genere), tra i quali risulta pressoché impossibile gettare un ponte tematico che ne unifichi le istanze; questa apparente disomogeneità rappresenta una costante di numerosi indici o prospetti villiani, che spesso rispondono all’esigenza primaria di pubblicare e promuovere testi rimasti inediti, attraverso proposte editoriali che compattassero i risultati più significativi di una determinata fase poetica). I materiali isolati da Villa nell’indice ( [Ana]tomie, Cep 1950, Comizio millenovecentocinquanta3, Hepatos) presentano una genesi autonoma e indipendente da qualsiasi implicazione con Corrado Costa, e la dedica all’artista costituisce un’appendice posteriore, esterna alla strutturazione dei componimenti stessi. Villa non scrive dei testi con l’intento di ammiccare o ispirarsi a Costa, ma decide in un secondo momento (biografico e artistico) di raccoglierli e dedicarli all’amico, apportando lievi ritocchi e alterando la datazione originaria. Ad esempio, la seconda poesia, CEP 1950, è in realtà una rielaborazione (con scarse e poco rilevanti variazioni) di una poesia conservata presso l’Archivio di Reggio Emilia. Per quanto riguarda la prima poesia, [Ana]tomie, la collocazione cronologica al 1944 costituisce sicuramente una retrodatazione autoriale, confermata anche dalla differente grafia e tratto di penna utilizzato per la sigla finale «dicembre 1944». Ancor più esplicito il travaso di un’opera come Comizio millenovecentocinquanta3, con una storia editoriale certificata e autonoma (una prima pubblicazione nel 1959, in un’edizione oggi non reperibile ma attestata in tutte le bibliografie villiane, e una seconda edizione risalente al 1962). I testi citati nell’indice, pertanto, non si qualificano come opere in cui il legame con la poesia di Costa risulti funzionale (come innesco originario oppure, al contrario, come direzionalità finale), ma piuttosto come momento riassuntivo/retrospettivo in cui Emilio Villa rappresenta, in forma di dialogo con l’amico, una sintesi dei propri lavori precedenti, senza l’ambizione di ricostruire un percorso evolutivo lineare.

Ancor più evidentemente “postuma”, per così dire, alla collaborazione con Costa risulta la raccolta The Flippant ball-feel: per quanto l’avvertenza villiana iniziale formalizzasse il testo come «codice di lettura da inocularsi nella Messa in Opera dei Flippers» [foglio n. 1] di Corrado Costa e Wiliam Xerra (adoperando un termine, come quello di «codice di lettura», che parrebbe sottintendere una funzione direzionata in modo esplicito all’oggetto artistico in questione), tuttavia anche in questo caso il testo risulta un collage di esperimenti precedenti. Questa indicazione preliminare era significativamente assente dalla versione del testo uscito per «Marcazero» il 22 luglio 1972; inoltre, per rendere il testo meno slegato rispetto al presunto destinatario finale, Villa inserisce ex abrupto alcuni segnali testuali denotativi (ad esempio, nel foglio n. 8, il periodo ipotetico “retorico” che recita «Se trovate qui nei paraggi Corrado Costa ditegli che si dice così»).

Le potenzialità visive e concettuali del gioco del flipper applicato alla letteratura (con il risultato di una scrittura provocatoriamente combinatoria, che, nel riutilizzare le icone della società dei consumi, allestisce una parodia della Pop art, chiamando i suoi oggetti a reagire con archetipi eterni –la Grande madre, il Logos eracliteo, il principio presocratico del Pneuma, e così via-) erano già state saggiate da Villa negli anni precedenti, come dimostrano un numero consistente di carte manoscritte dedicate al medesimo tema. Queste pagine testimoniano un accanimento programmatico nel testare un’immagine (come quella del flipper di poesia) che non si rivela quindi un commento estemporaneo e “su commissione” per accompagnare le opere di Xerra e Costa, ma un pretesto per organizzare materiali già meditati e collaudati in precedenza.

Questo esempio sintomatico dimostra come il percorso di Emilio Villa si eserciti serenamente in parallelo rispetto agli artisti con cui sigla una collaborazione autoriale; spesso, infatti, l’influenza del coadiutore trova soltanto riscontri accidentali (un’etichetta nominale, un breve cenno d’intesa, e così via). Questo espediente vale quantomeno per le collaborazioni poetiche, dove Villa persegue un proprio obiettivo direzionale e difficilmente riserva un margine a compromissioni stilistiche (di mimesi parziale o parodia) dell’autore con cui si trova a lavorare. Per quanto concerne il rapporto con i pittori e artisti, la questione è più spinosa ed è opportuno scindere il discorso in due ramificazioni: da un lato le raccolte poetiche destinate a essere intervallate da tavole grafiche, dall’altro gli scritti teorici del Villa “critico d’arte”. Nel primo caso, il tasso d’incidenza dell’artista con cui opera Villa risulta piuttosto basso; ad esempio, le 17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica sono state stampate, con disegni e pitture di Burri, nel 1955. Tuttavia, non soltanto la presenza del pittore di Città di Castello, a livello testuale, appare nulla (in questo caso non troviamo neppure una telegrafica citazione o apostrofe nominalistica), ma addirittura esaminando le carte dell’archivio di Reggio Emilia si può dimostrare come alcune variazioni fossero originariamente destinate a una collaborazione con Corrado Cagli, e poi riconvertite, senza modifiche sostanziali, per il nuovo progetto artistico. Tale approssimazione cinica allo stile e allo sguardo del collega pittore risulta spesso spiegabile attraverso motivi strettamente pratici, legati alla maggiore vendibilità del prodotto (si pensi alla collaborazione con Guttuso, di cui pure conosciamo il parere non certo positivo di Villa). Per quanto Villa accetti apparentemente di inserirsi entro il circuito mercantilistico, lo fa secondo le sue regole e senza tradire una propria idea di poetica testardamente indipendente dalle sollecitazioni coeve.

Nel secondo caso (ossia per quanto riguarda gli articoli e i contributi di critica d’arte), invece, Villa dimostra una certa duttilità e capacità plastica di dare una veste letteraria alle forme visive da lui selezionate. Per quanto rientrino spesso, in alcune pagine teoriche, riflessioni e spunti personali non direttamente inerenti alla descrizione dell’opera in analisi, tuttavia le pagine su Burri, Fontana o Mimmo Rotella dimostrano un’acuta capacità di restituire, in forma poetica, i valori plastici dello stile pittorico dell’artista, attraverso un’adesione stilistica e immaginativa al ritmo personale di ogni artista; anche in questo caso, con alcune eccezioni, legate a testi su autori meno noti, scritte rapidamente come esercizi personali di scrittura piuttosto che come commento alle operazioni figurative menzionate. D’altronde, in una lettera inviata a Tagliaferri e oggi pubblicata in appendice alla nuova edizione degli Attributi, Villa scrive:

Per me si tratta di documentare una milizia di ragione logonevrotica, una azione di natura strettamente abissale, non di saggi sui nomi indicati. I nomi che ci sono non sono scelte di valore (in nessuno dei sensi possibili) ma solo cadute, casualità, irritazioni, impennate, scatti, spari. Non c’entra la storia dell’arte contemporanea e tanto meno la critica. E non è saggistica. In questo magma c’è un nome solo, ed è il mio, gli altri sono più o meno fittizi, come supporti. E’ la mens generale, il torbido totale, la febbre che scivola dentro, quello che fa il libro. Che sia De Kooning o che sia Desiato fa lo stesso.

[E. Villa, Attributi dell’arte odierna 1947-1967, nuova edizione ampliata a cura di A. Tagliaferri, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 390-391]


Questa precisazione cautelativa è valida per alcune digressioni spiccatamente villiane e magari meno direttamente compromesse con lo specifico dell’artista, ma non è sicuramente operativa nei saggi più importanti (dalle pagine su Burri, in primis, a quelle su Rothko, Sam Francis e così via). A volte, addirittura, questo accesso fortemente personale agisce come pungolo sull’artista oggetto di commento, diventando la base teorica orientativa per la futura produzione dell’autore. Spesso, infatti, gli artisti isolati da Villa non possiedono un’autocoscienza critica spiccata, e Villa, anche “villanizzandone” i presupposti inaugurali, tuttavia riesce a impartire una direzione positiva e costruttiva di mediazione tra opera e sua ricollocazione teorica, in quella che il poeta stesso ha definito «una potenza che in parte è parassitaria e in parte generativa dell’arte che aggredisce» [Attributi dell’arte odierna, op. cit., p. 379]. Nel parlare attraverso il filtro della propria poetica dirompente, Villa stimola gli artisti ad incanalare la propria auto-esegesi entro punti di passaggio imprevisti ma che vengono spesso assorbiti nel progetto dell’autore; è risaputo che fu Villa, nel 1953, a esortare Rotella sulla strada dei manifesti lacerati, oppure a spronare Ettore Colla ad adottare legni e metalli scartati per le proprie sculture, oppure ancora a “scoprire” per primo e a sostenere in sede critica le potenzialità di Alberto Burri o Piero Manzoni. Come vedremo in seguito, lo stesso Costa sarà condotto a sperimentare, attraverso l’opera fittiziamente dedicata a lui, The Flippant, alcuni espedienti grafici e di “sintassi matematica” che probabilmente non avrebbe approfondito senza l’innesco villiano.


Per quanto Costa e Villa si muovessero nell’ambito del medesimo retroterra culturale, tuttavia le rispettive sperimentazioni presentano rari punti di tangenza, divergendo negli obiettivi e nei presupposti iniziali, nonché negli esiti concreti. Si può significativamente accostare The Flippant ball-feel ai Tre poemi-flippers di Xerra e Costa per quanto concerne il collante (grafico e stilistico) più evidente, vale a dire il gioco linguistico, il calembour sagace; in entrambe le raccolte, l’idea di giocare a smontare il linguaggio e la sintassi tradizionale (forzata a seguire i percorsi a zig-zag di un ideale flipper poetico) innesca una serie di bisticci lessicali, ma Costa e Xerra rivelano un base comunque ricostruttiva [foglio n. 1]:

il padre atterra

di sotto se mi va

come voi desiderate in due

legati stanno sotto, insomma

neanche anche non parlo.

VELLO BELVA PALLA tenue

fino al frutto interrato, pallido

sottoterra con le sue labbra miti anche

mano la FUORI conico contro neanche cosa

Desidero RICEVERE LUCE

nella vulnerazione, nella MORTIFICAZIONE

nella mortificAZIONE, svirilizzazione

del VIR ERETTO era CARPONI

[…]

ORA sabbia lentamente trae

sottrae con 2 mani

il RE di COLLA OSA NIENTE da dire.


Nel testo qui presentato, le parole enfatizzate dal carattere maiuscolo creano, se lette in successione, un canto alternativo che convive con la lettura ordinaria della poesia, espediente grafico che non annulla ma accresce la fruizione unidirezionale del testo (pur richiedendo sempre una collaborazione e una sorta di sovrappiù creativo alla fantasia del lettore). L’impressione generale, pertanto, è quella di un compromesso rassicurante tra mancanza di un significato forte e creazione di controcanti alternativi che guidino il lettore, evidenziando alcuni nuclei portanti da porre e suggerendo comunque un percorso orientativo in cui il fruitore possa lasciarsi guidare.


Invece, per quanto riguarda Villa, l’abitudine di separare graficamente le parole in coppie binarie (prefisso più sostantivo) crea spesso un effetto contrario di spaesamento e deriva del significato, in quanto l’inserzione di un semplice trattino (o di parentesi tonde) determina un’ambiguità tra il significato standard che la parola avrebbe nel suo allineamento consueto e la suggestione determinata dalla segmentazione delle sue componenti. Vediamo ad esempio, nella già citata raccolta The Flippant ball-feel: «(d)estin(a)zione» [foglio n. 17] (dove la biforcazione destinazione/estinzione sembra suggerire che ogni traguardo coincide con la sparizione definitiva); oppure «immane(nte)» [foglio n. 14] (in cui il concetto metafisico di immanenza convive con quello di un “ente immane”); oppure ancora le coppie «(in)divisibile» e «(in)separabile» [foglio n. 8], in cui i due significati opposti coesistono nella loro antitesi irrisolta; e così via.


A questo punto, passerei all’angolatura prospettica di Costa e alle impronte villiane impresse sulla superficie dei suoi testi. Come abbiamo già ricordato all’inizio, e come osserva Aldo Tagliaferri nel suo contributo al catalogo Il titolo lo mettiamo dopo [Biblioteca Panizzi edizioni, Reggio Emilia 2012], il tasso maggiore d’incidenza villiana si registra tra la metà degli Anni Sessanta e la metà degli Anni Ottanta. Andando a consultare l’inventario dell’Archivio Costa conservato a Reggio Emilia, possiamo notare come proprio al 1967 risalga un testo che riporta, sin dal titolo, il nome del poeta ( Ripetibile. Per Emilio Villa) [cart. 32]. Più che il testo, pubblicato su «Nuova Corrente» nello stesso anno e concepito come montaggio variato delle stesse tessere lessicali (capelli, denti, vestito, occhi, forbici, e così via), ricomposte e dislocate sulla pagina in sei modalità differenti (dalla “a” alla “f”), a noi interessano le annotazioni manoscritte confluite nel faldone reggiano, che legano direttamente il testo ai temi di Inferno provvisorio (entro cui avevamo già messo in rilievo la digressione su Emilio Villa). La dedica a Villa, a differenza di quanto visto per il poeta di Affori, non pare affatto una contingenza posticcia, ma anzi accompagna il titolo in tutte le versioni che precedono il dattiloscritto definitivo, come una componente strutturale nell’ideazione del testo.

Così come, in Inferno provvisorio, Costa aveva isolato il tema della Grande Madre presente nell’intervento sul pittore Giuseppe Desiato, allo stesso modo il nome di Villa torna qui ad innestarsi su una base psicanalitica-sociologica di ritorno agli archetipi portanti dell’inconscio collettivo junghiano. Villa venne sicuramente a contatto con la psicologia analitica di Jung quando da giovane frequentava il circolo iniziatico-esoterico di Corrado Cagli (si veda, ad esempio, il catalogo del 1982 a cura di Enrico Crispolti). Un riferimento testuale diretto a Jung compare nell’ Arte dell’uomo primordiale, il testo più vicino, assieme all’intervento su Desiato, all’angolatura prospettica scelta da Costa. In una pagina di annotazioni allegate alla raccolta, Costa cita una serie di referenti bibliografici (dal Frazer del Ramo d’oro a modelli letterari come la poetessa Luisa Giaconi, Gozzano, Licini e così via), accostati a promemoria tematici di area psicanalitica (ad esempio l’iniziazione, lo svezzamento, la masturbazione, l’androgino, la necrofilia, etc.).

Costa sembra cercare, in questa sede, una combinazione tra il concetto villiano di archetipo (interpretato, da Costa, come emergenza di energie primordiali che «oltraggiano» il mondo moderno con la propria persistenza sacrale) e il lessico junghiano (che riconnette queste idee a un patrimonio sociale condiviso e, in generale, a un’idea di inconscio cui Villa non fa direttamente riferimento). Questa doppia influenza (villiana e junghiana) interna alla ricerca simbolica di Costa credo che motivi la compresenza, nel suo complessivo posizionamento teorico, di un eros inteso come potenza primordiale e di un eros come vincolo di relazioni psicologiche che si instaurano entro un ambiente comunicativo e politico condiviso. Da qui, forse, la necessità iniziale di una distinzione, scrive Costa, tra «prelinguaggio» e «linguaggio paranoico» [foglio n. 1], che pure arrivano a combinarsi dialetticamente nella riflessione del poeta. Non ritengo, pertanto, che l’impostazione stessa del lavoro di Costa sia casuale; così come per Villa è centrale la natura iterativa del sacrificio, inteso, in primo luogo, come ripetizione di un gesto che provoca un potenziamento simbolico di se stesso se pensato entro una catena sequenziale (le linee verticali incise serialmente sulle pietre dai primitivi, su cui Villa si sofferma nel suo saggio dedicato all’Arte dell’uomo primordiale), così Costa sembra voler replicare, in ambito poetico, questa duplicazione rituale delle stesse tessere lessicali, promuovendo a livello stilistico quella che per Villa doveva porsi come prassi rituale del sacrificio primitivo. Si arriverebbero, così, a comprendere anche i riferimenti bibliografici a testi di antropologia o studio delle comunità primitive presenti negli appunti di lavoro allegati alla raccolta costiana. A questa altezza cronologica, Costa poteva essere venuto a contatto con la prospettiva villiana sul contrassegno rituale arcaico soprattutto grazie agli interventi oggi raccolti negli Attributi dell’arte odierna, dove compaiono, ad esempio, un riferimento al sistema ideogrammatico (per Sante Monachesi [p. 160]), l’evocazione dei lastroni di Monte Bego (per Capogrossi, Basaldella ed Ettore Colla), la «memoria delle palafitte» (per Alberto Burri [p. 44]) e così via. Insomma, negli Attributi Villa sembra tentare un cortocircuito positivo tra la sperimentazione artistica più contemporanea e le tecniche di progettazione spaziale e di architettura simbolica isolate nell’iconografia primordiale, che potrebbero aver avuto qualche ricaduta incantatoria sull’operazione di Costa; il poeta, infatti, sembra qui mescolare tale iterazione ossessiva e tribale tipica del sacrificio antico a influenze più ludiche e meccaniche suggerite dal collage dadaista.

Lo zampino villiano è ancora più evidente in un’opera inedita intitolata Continuando a parlare in tema di silenzio e datata 1970-1975. Innanzitutto, il testo ruota attorno ad un tema in sé centrale nella poetica villiana, ossia quello dell’afasia come rischio di interruzione terminale della comunicazione ma anche come componente positiva interna al linguaggio. Scrive significativamente Costa, proprio a proposito di Villa, che «nel vuoto comincia a essere parlato un parlare senza parlare». Oltre alla prossimità tematica, l’influenza del poeta di Affori è registrabile in alcune scelte tipografiche, prima fra tutte la predilezione per una formalizzazione matematica adoperata come paradigma poetico, una sorta di nuova figura retorica a cavallo tra il visivo e il letterario. L’utilizzo di parentesi graffe, di simboli matematici, indici numerici interni al messaggio poetico, che aiutano il concetto a disporsi sulla pagina incanalando i versi entro un percorso operazionale simile a quello di un’equazione, non poteva evitare di guardare in parte agli esperimenti coevi di Villa. Se ci rivolgiamo proprio alla raccolta The Flippant ball-feel (indirizzata a Xerra e Costa e pertanto, si può presumere, non sconosciuta a quest’ultimo), possiamo vedere un’impostazione impressionantemente simile: i nuclei poetici vengono immessi entro strutture algebriche o geometriche che dividono l’idea in singolarità essenziali (in parte espresse attraverso il linguaggio ordinario, in parte sostituite da numeri astratti); spesso l’astrazione è sottolineata dal ricorso allo Zero o ad esponenti ennesimi, che allontanano l’equazione dall’ipotesi di un computo razionalmente quantificabile. Costa sembra esercitarsi a partire dallo schema villiano e anche la riflessione relativa al «senso» viene ad intersecarsi con una serie di riflessioni analoghe condotte da Villa negli stessi anni. Se prendiamo in considerazione, ad esempio, le Note sul concetto di senso [Biblioteca Panizzi, cart. 17] e le mettiamo in parallelo con alcuni fogli di Costa, scopriamo una sorprendente reciprocità (anche a livello di impaginazione matematizzante). Costa si interroga qui sull’«origine» e sul significato del silenzio, adoperando un lessico che occhieggia in modo esplicito all’universo di discorso villiano, ad esempio nel riferirsi al «microsenso», che Villa, nelle Note sul concetto di senso, aveva chiosato nei termini di una «unità di misura infinitamente piccola» che è il «prodotto tra senso e non senso nella loro unità di misura iniziale» [foglio n. 1]. Nella pagina di Costa questo «microsenso» sembra collocarsi specularmente «tra un silenzio A intimamente ripetuto dopo un microrumore B»; qui silenzio e rumore sembrano porsi come corrispettivi sinonimici del senso e del non-senso villiani. Inoltre, il sostrato lessicale di queste pagine rimanda allo stesso retroterra concettuale di un testo, scritto da Villa e M. Diacono per Ettore Innocente e uscito nel 1970, in cui ritroviamo l’espressione adoperata anche da Costa del «nessun senso ciclico» e l’idea che sia impossibile catturare la nozione di senso, giacché essa risulta un’eterna tensione tra l’infinito dei possibili significati e l’assenza radicale di significato; da qui la percezione di una ciclicità del senso e la proposta di sostituire l’accezione rigida di «senso» con quella plastica di «varianza universa» dei significati. Nelle Note sul concetto di senso, leggiamo: «senso è = pura variazione (cioè non è variazione di qualche cosa, ma solo variazione, solo il variare, non il divenire, ma l’esser vario, in atto, in gesto» [foglio n. 1]. Lo stesso meccanismo di variazione perpetua viene applicato da Costa alla nozione di silenzio («1 2, 3… microsilenzi)n» [foglio n. 2]).

Quest’opera costituisce, tuttavia, se non un’eccezione, una deviazione rispetto alla norma, per quanto concerne l’opera di Costa; probabilmente, pertanto, dobbiamo leggere questi appunti manoscritti come un prospetto, un aggiornamento personale di Costa che prova a replicare alcune modalità di impaginazione del dettato poetico sbirciate sul tavolo di lavoro villiano.

Per rimanere nello stesso ventaglio di anni, sarebbe interessante disegnare una mappatura generale di temi che potremmo in senso lato definire villiani, e che sembrano suggestionare Costa in alcune emergenze testuali. Ad esempio, nell’opera intitolata Montagna bianca [Biblioteca Panizzi, cart. 42] (datata 1978), viene il sospetto che l’eraclitismo di fondo che permea la prima sezione possa essere un portato della frequentazione con Villa (che dedicò alla scommessa sui presocratici numerosi accenni –in sede teorica e poetica-) [foglio n. 1]:

in alto [o

sotto]

[sopra,

sopra] in alto

sopra una linea azzurra

immaginaria

[sopra ] c’è

una linea più azzurra

che è impossibile immaginare

] c’è

nello spazio destinato a

contenere una impercetti-

bile linea più azzurra

una superficie

in alto [o davanti

Un incipit come «in alto o sotto, sopra, sopra, in alto», che poi verrà a cadere nella stesura definitiva, si legava direttamente al frammento eracliteo «via in alto via in basso una sola la medesima» che Villa riutilizza spesso, in forme più o meno esplicite, ad esempio nei già citati Attributi dell’arte odierna. È difficile pensare che Costa non tenesse conto di quella che prima ho denominato “scommessa sui presocratici”, che costituisce un tratto marcatamente originale nel canone villiano rispetto ai modelli spesso evocati dai poeti italiani a lui coevi, avvicinandolo ad esempio a Eliot, maestro dichiarato di Villa, che aveva scelto di dedicare l’epigrafe di The Dry sauvages proprio a Eraclito. La filosofia presocratica diventa una costante lessicale all’interno degli interventi teorici e, materialmente, nelle poesie di Emilio Villa, contribuendo a conferire ai versi quella retorica sapienziale che ancora oggi costituisce uno dei tratti più interessanti e originali dello stile villiano, soprattutto se calata nel contesto secondo-novecentesco (Neoavanguardia, da un lato, e predominio del paradigma montaliano, dall’altro).

In conclusione, vorrei tirare le fila, in modo sintetico, dei vettori preferenziali entro cui sarebbe interessante in futuro tracciare le linee del rapporto Costa-Villa. Dal raffronto tra la «cristomazia» di Villa (Scegliendo Pel da Pelo) e il testo di Costa ( Ripetibile. Per Emilio Villa), emerge da un lato la spiccata autonomia villiana rispetto al canto delle sirene dell’intertestualità contemporanea, dall’altro, invece, la permeabilità di Costa alle suggestioni villiane. Costa sembra, infatti, saggiare e sottoporre alla prova dell’applicazione concreta alcune istanze teoriche tipiche della riflessione villiana, al punto che, soprattutto attorno agli Anni Sessanta, credo sia possibile isolare un certo numero di esercizi di stile e di ritraduzione “dal villiano al costiano”. Tuttavia, l’opera di Costa non si può e non si deve ridurre al lavoro compilativo di un epigono, anzi il suo merito è quello di aver saputo operare una selezione fortemente personalizzata dei motivi villiani da riprodurre (ad esempio, l’eccesso di formalizzazione matematica, dopo lo scartafaccio Continuando a parlare in tema di silenzio, verrà presto abbandonato in quanto troppo distante dalle forme ordinarie della poesia di Costa), e in secondo luogo dall’essere riuscito a non farsi piegare dal carattere inglobante e malioso della Sibilla villiana, continuando a perseguire alcuni tic (come quello dell’ossessione modulare e iterativa) non spiegabili soltanto a livello di prestiti villiani. Anche per quanto riguarda il canone letterario, il ricorso ad autori aggiornati con i tempi (Wittgenstein, Foucault, Derrida), del tutto assenti nell’opera del monolitico Villa, ha contribuito a rendere al tempo stesso radicale e indolore il passaggio da una prima fase di bloomiana influenza (per quanto tutelata dagli anticorpi di una solida personalità poetica) a una fase di sereno allontanamento dal modello, alla ricerca di nuovi padri speculativi da emulare. Con un pizzico di malignità si potrebbe dire che Costa ci appare oggi un poeta originale perché, ispirandosi più o meno liberamente a diverse fonti, ha prodotto un coacervo effettivamente personale e caratterizzante, in cui la singola suggestione viene annullata nel flusso di influenze esterne (di ambito filosofico, antropologico, poetico, visivo), che egli ha saputo riconvertire in un linguaggio personale e autonomo. Tuttavia, la radiazione fossile dell’influenza villiana si manterrà anche quando, a partire dagli anni Ottanta, l’asse preferenziale di interesse si sarà spostato da un lato verso i contenuti filosofici più recenti, dall’altro verso forme di visualità più marcate.

L’influenza esercitata da Villa, in conclusione, viene a sedimentarsi serenamente in un gioco di interrelazioni tra modelli, che elimina l’angoscia bloomiana in un’intertestualità spensierata, rendendo la sperimentazione di Costa un gioioso e divertito collage di riferimenti culturali, lontano dai toni allarmati e apocalittici di tanta avanguardia novecentesca, e incline piuttosto al ludus, al carillon delle forme eterogenee, in un teatro dinamico di figurazioni visive in cui Villa viene a collocarsi senza dubbio come fondale di scena, di fronte al quale le nuove maschere vengono a disporsi, nel corso degli anni, senza riuscire mai a coprire del tutto lo sfondo originario. (chiara portesine)

***

Chiara Portesine (Genova, 6 marzo 1994) studia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove svolge ricerche relative alla poesia sperimentale del secondo Novecento (con un’attenzione particolare per il Gruppo 63 e autori come Pier Paolo Pasolini, Edoardo Sanguineti, Emilio Villa e Andrea Zanzotto). Per quanto riguarda la prosa, si è occupata dello statuto del personaggio all’interno dei romanzi di Carlo Emilio Gadda, dell’Hilarotragoedia di Giorgio Manganelli e della trilogia Il dio impossibile di Walter Siti. Si è dedicata, inoltre, alle intersezioni tra discorso filosofico e letteratura attraverso un seminario sulle influenze di Antonin Artaud interne al pensiero di Jacques Derrida e sui rapporti tra Pasolini e la biopolitica (in un articolo, in fase di pubblicazione, intitolato Pasolini «biopolitico»? Ipotesi, abiure e cautele critiche per una categoria). Da due anni si occupa dell’opera villiana, con un’attenzione rivolta alla sistemazione filologica delle carte manoscritte, a problemi legati alla variantistica e alla consultazione degli archivi del poeta.

Il 16 novembre è uscito un libro, scritto a quattro mani con Aldo Tagliaferri, intitolato Emilio Villa e i suoi tempi. Finestre per la monade (Mimesis, 2016). Nello stesso 2016 si è laureata presso l’Università di Pisa con una tesi triennale dal titolo Emilio villa e il periodo-finestra degli anni Cinquanta e Sessanta. Appunti per un’analisi filologica e stilistica della transizione al «visivo».


Le illustrazioni sono tratte da Emilio Villa - The flippant ball-feel, Stampa Gi – Bi, Piacenza, 1973


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