Vladimir DAmora - Neapolitana membra - Arcipelago itaca Edizioni, 2016Image may be NSFW. Clik here to view.
Il tema è la forma, in un certo senso. Per quanto questo non sia sempre vero, può esserlo quando in un libro si parla di Napoli, è Napoli la fonte di
ispirazione, lo scenario e insieme la protagonista principale, seppure come voce fuori campo. Naturalmente Napoli in questo libro non è un "oggetto"
poetico o non solo, non può esserlo in sé, appartenendo di fatto ad un mito speciale. Magari - qui - di una mitologia privata, un luogo astratto e
concreto insieme ("è un luogo più reale / per la terra è un realissimo / collante"), un luogo solo e soltanto in cui certe cose della vita, proprio quella
dell'autore - private - , avrebbero potuto accadere. Un luogo complesso nel quale la complessità della vita si materializza, forse più che altrove. In
altre parole scenario ed elemento strutturante insieme, che c'è, esiste anche quando viene nominato appena. Sia la città/scenario sia quel che in poesia si
narra, non possono naturalmente essere rappresentati che per lacerti di un corpo, per membra, compreso quel tanto di sessuale, non necessariamente
esplicito in parole, che ogni tanto emerge. C'è quindi, per questa connessione sotterranea, qualcosa di sincopato che si riflette nel linguaggio e che si
esprime in quel tanto di "jazzistico" e di equilibrio ricercato, una certa "propensione verso la scrittura di ricerca e lo sperimentalismo in generale, non
ripudiando però, dall'altra, l'eco lirica" (dalla motivazione del Premio nazionale editoriale di poesia Arcipelago itaca, vinto dalla raccolta). Ricerca
e sperimentalismo che per la verità, a mio avviso, si esplicano per lo più in una lingua fortemente ellittica, spezzata, nel rinvenimento di elementi
lessicali contrastati e "duri" (e raramente dialettali), nel ricorso talvolta ad andamenti prosastici, o ad un enjambement estremizzato (specie nel"narrativo"), ma che nel complesso non è "chiusa", anzi lascia al lettore un ampio margine di interpretazione, un ampio spettro di suoni e colori, insomma
una varia e diversa leggibilità. E' in questo senso che l'equilibrio di cui parlano gli estensori della motivazione è quasi totalmente garantito, non
dimenticandosi però, l'autore, che "la lingua è una torsione elementare", tanto più in poesia dove ci viene consegnata con una sua "conformità" per essere
restituita diversa.
Per il libro di D'Amora valgono molte delle cose generali che ho scritto QUI, parlando de La disarmata,
raccolta di autori vari che ruota anch'essa intorno alla città partenopea. Forse qui in un certo senso ce n'è meno, di Napoli, e alla fine non si può
parlare nemmeno di una poesia urbana, per quel tanto o poco che questo significa, pur mirando nel contempo (parole dell'autore) a uno "stile
dell'asfalto". Per quel che appare Napoli (o napoli, minuscola e confidenziale) è una città introiettata nell'animo (l'anima lasciamola all'imperio di
altri), in tanto apparentata con un "deserto ordinato da milioni di dei", dei che hanno abitato la città ma che tuttavia - aggiungerei - hanno abdicato da
secoli. In questa città/sostrato è quasi naturale rinvenire non tanto e non solo un passato mitico e eroico che in vari modi sedimenta in cultura (e certo
anche in scrittura) ma anche inquietanti "mappe / di una futura scena, di una crisi", a sua volta non tanto e non solo intesa in senso economico o politico
quanto piuttosto in quello di un privato quotidiano transeunte, nel quale l'autore sente che "tutto è posteriore a tutti", e dove è in essere un "dogmatico
accadere immemore". Dicevo introiettata perché quando D'Amora parla esplicitamente della città in effetti parla di sé e per sé, allegorizza la città come
un sé ugualmente complesso e problematico che con Napoli è in rapporto dinamico e circolare, esattamente come quando si trova a parlare d'amore o de "i
fiori che pendono falsi / da tetti più sacri", quei fiori che forse "urlano", fanno "voci", aprono la bocca, come molte altre cose che sono ipostasi di una
realtà che l'autore vive quotidianamente, e che rimane, persiste, vince la morte, ed è - ricordo - "posteriore a tutti". (g.cerrai)
*
Napoli oggi è nel suo inverno statico e pressante, è una lettera morta che la luce sarà
domattina per chi luce ricordando il giorno,
nuovo giorno e per ogni e nuovo sole
sorgere di un lento battito, stretto ai pochi
gesti nel quotidiano lungo un anno.
Forse avremo bisogno dei ricordi
nella scrittura tutelata nella noia:
saremo come figli seduti alla distanza,
occhi e parole rosso-rabbia incerta
ai primi raggi. Avremo la ragione dei nati
a vivere tra braccia lungo viali e
primavere in questi anni tutti paralitici.
Sarà costante idea la bianca presa
e il latte speso in una città di polvere
biostorica mai tolta, già sottratta.
*
nelle celle di tufo blu
era memoria di guerre interne
costosa, codarda
sottomissione pei grigi vicoli
che alitano bruciate femmine
talianti, prima d'aprirla 'a vocca rossa, l'oro
dalla punta nera e lo slancio,
legato a fili verdi, in turbe
umane e l'onde di maestri
fanciulli i tuffi
nel mare l'invincibile
lordura civica
in questa gabbia
d'infinite perdite per l'uomo solo
questa sua arsa
speranza di una spina.
*
A sera capitano ancora eventi di una speciosa traspropriazione a dire
che la relazione che il politico è, s'inabissa corta nelle frenetiche
rivendicazioni di distanza.
Nel cerchio del Vomero ove circolano indifferenti i mercanti d'anime e
quasi come a Seul il resto da finestre inquadrate da architetti mai
ringiovaniti, sono scorti i passi dell'imminente fine: è il reggerla, la
novità che ha trasformato l'immobile respiro in una esatta maniera
della vita: internamente quelli coi capi vivi nelle vasche umane,
chiedono il potersi aggirare pesanti nei metri consentiti, quasi i corpi
loro come dei muti segnali si specializzassero nella sopravvivenza
accelerando le trasmissioni di pochi punti di parola.
Le ossa che dalla bocca riescono sputate con la gagliardia feroce e
quanto mancano i santi ed i filosofi non imprestati da televisioni in
queste abbreviate luci lo starnutire diverso è un gioco prodigioso e tu
di un'altra epoca diffranta.
*
Napoli, nel novembre dell'anno duemila e quattordici, è un luogo più reale
per la terra è un realissimo
collante. Le sue terse
illusioni nella vece del saluto
sperano intese
lo zero e la realtà
più dura del metallo. E con l'odore
di possibile oh stringa forte
un piano o uno sciupio
feroce.
*
Riaccolti solo i segnali dellimpiego
uscimmo dall'estrema faccia della gioia.
Un calvario perfetto, senza
colore che rispondesse
ai farmaci, alle stonate ansie della fine.
Desiderai già sul balcone,
calcoli chinati e richieste di sale e sete e
ci salutammo,
confortati in un'angoscia. Il sole, Napoli
in autunno
che già chiamavo gelo
col viso
verificato dal silenzio.
E procedere su orme che si rifiutavano,
e soli e cestinati. Tendesti la mano:
mi coprì di voce chimica
questa forma del perdono, del mescolarsi
di ragioni inferte al chiodo, un unico
lenzuolo somigliante a tutta
la luce pallida e impredicabile del dilatato e solito
bagliore: era il demone che aveva
disegnato fili, spenta
la carne. E colava
essere sul petto, già scoppiato. Caddi così
nella tua sera, tu dentro al ventre mio.
*
amoremio
quanto sei bella nella forma della napoli rifatta
tu sembri
quella storia lasciata sui bordi
di una bocca ed una
sola roccia di chimica lotta
nella posata luce; io comincio
con il ritmo di meschonni
ma come nei miti le navi
che corrono al vuoto desiderio di un'altra
umana forma, così tu
amoremio
tu mi sei astante
fiore di un bacio
nell'alveo disfatto dal borghese.
*
Napoli. Il sole sopra ai tetti,
le giovani
anìmule che fetano la vita a denti lisci.
Un cane allucca al vento, costretto
dalla moda:
urla la morte, ed è vaneggiamento. La vena discoverta
l'ultimo destino, e ammore è fantasia
montate già nell'intimo le morse risorse di listino.
Piano piano s'inabissa il canto 'e cunti
due nari richiamano dolore assunto
a terapia nell'al-di-qua-del-porno.
Essere uno di montaggio,
donna di piacere e gusto,
pali dinsensata febbrile garanzia
come una carica e tensione introducendo all'apice
di mire che scambiano reietti sorsi.
E pulsa introversione.
*
i fiori che pendono falsi
da tetti più sacri
l'apparenza è la vittima
ferro battuto da vento
da infamia
fa caldo i
cieli di luglio
sui libri e i secchielli bambini
un torso dell'uomo è parte deterni rifiuti di
napoli
splendori veloci
pompini da stalla
la scolta africana la scena
la fame e poi loro che no
che hanno detto che no
che non ti conoscono
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L'informe amniotico [appunti numerati e qualche poesia]è
un'opera prima, già finalista sia a Opera Prima 2012 (di Poesia 2.0, e
già in quell'occasione lo avevo letto, facendo parte del gruppo
selezionatore), sia al Lorenzo Montano dello stesso anno. E sinceramente
mi fa sorridere il fatto che lo sia, che sia un'opera prima, qualcosa
che si accosta mentalmente all'acerbo, al primaticcio, al sorgivo e
comunque a qualcosa intrisa di "divenire". Sorrido sapendo bene che in
Loredana c'è invece una collaudata coscienza poetica, una esperienza sul
campo di anni, una presenza competente molto defilata, per molto tempo
celata dietro pseudonimi (e chissà che anche Semantica non lo sia), come quella Alivento con cui aveva animato
blog letterari come "Via Delle Belle Donne" o "Tellusfolio", per lo più
però con rubriche e note piuttosto che con testi poetici suoi, di cui in
fondo è abbastanza parca (diverse tracce e notizie si trovano ancora QUI e QUI), preferendo comunque una pubblicazione "virtuale", che è possibile reperire su ISSUU.
Dimostrazione è qundi forse proprio questa sua "opera prima",
dimostrazione cioè anche di una riservatezza che non diminuisce la
poesia rinchiudendola ma semmai la incastona in una visione personale,
intima e raffinata, dove è necessario andarla a cercare, attraversando
l'etere.
Di questo libriccino parlo con ritardo e anche buon ultimo, dato che se ne sono già occupati a suo tempo Stefano Guglielmin (QUI) e Deborah Mega (QUI),
ma tant'è. Potrebbe essere quindi una buona scusa per parlare d'altro,
per così dire, in maniera ellittica (qua stiamo, infatti). Loredana è
già stata in questo luogo, circa dieci anni fa (v. QUI),
con qualche poesia su cui scrissi una nota, seguita - cosa poi divenuta
rara in un blog - da un piccolo dibattito ancora utile da leggere. In
quella occasione avevo posto l'accento su alcune caratteristiche della
sua poesia, di una poesia esistenziale dispiegata su uno scenario "freddo", arricchita da una scrittura "significante", densa di elementi
pittorici, fonici, timbrici, ritmici, entro i quali la parola a volte si
dissolveva o si guardava allo specchio, con qualche innamoramento. Una
scrittura interessante e personale, appunto, in cui l'elemento
drammatico, una inquieta e disillusa visione del mondo e della vita,
fluttuava in maniera aerea, trovava per così dire un suo ambiente
naturale, diveniva permeabile al lettore.
In questo libro l'approccio a tematiche che sostanzialmente non sono
cambiate è più strutturato. Se l'idea di fondo è ancora quella di un
magma di difficile solidificazione, di un caos a cui è quasi impossibile
e insieme imperativo tentare di dare una forma e un senso, tuttavia ora
c'è il tentativo di includerlo in qualcosa di organico, che ci circonda
e in qualche modo ci nutre. Se l'indeterminato, il caso, l'accidente,
l'incontrollabile fanno parte della nostra vita, possiamo dire allora
che sono la nostra vita, o almeno sono il contenitore che ci
genera, in cui la vita nasce e si svolge. La ricerca di senso, come una
ricerca che si rispetti, avviene à rebours, partendo dalla decostruzione
del risultato finale, come una operazione di reverse engineering, fino
ad una "foce", quando "si ritorna all'uno, al grembo della madre".
Questo "uno" non è solo (o forse non è) un unum trascendentale
a cui tutto si riduce, ma è anche il punto terminale di un conto alla
rovescia, di una danza delle ore che parte da una sessantanovesima
("alla sessantanovesima ora deglutì il passato") e va all'indietro (o
forse in avanti, chi può dirlo?). Per la verità c'è anche uno "zero",
che sembra segnare un "oltre", una rottura dell'amnio verso una realtà
destinale, un annullamento in seno alla natura - una maiuscola "Madre
nostra" - al pari di tutti gli esseri viventi. Deglutire il passato è
azione primaria di questa ricerca, riportarlo ai suoi "nutrienti"
essenziali, che sono non necessariamente momenti memorabili, forse più
insospettabili, anche minimali, punti su cui si incentra una diversa
prospettiva della stessa realtà già vissuta, dispersa in momenti che
tuttavia hanno avuto il loro significato, in un "futuro già accaduto",
con una "preveggenza esperita a posteriori", come scrive Rosa Pierno in
una delle note introduttive. Forse il percorso a ritroso non è un
procedimento nuovissimo (penso a illustri poeti francesi come Jacques
Dupin, penso dalle nostre parti al "Diario inverso" di Lucianna
Argentino - v. QUI),
ma qui è sostenuto dal fatto di non essere esaustivo, di non essere
"narrante", di lasciare dei cavedi nei quali il senso (del lettore)
rimbalza o rimane sospeso, grazie anche ad un sentimento di
indeterminazione corroborato dal ricorso ad un vocabolario
essenzialmente astratto, che aumenta quella permeabilità di cui parlavo
prima, o riferito a una concretezza di oggetti che però sono segnacoli
di un quotidiano ripetibile, di una non eccezionalità. Sembra che
Loredana registri la sua verità "come se stesse prendendo appunti"
(Guglielmin), ed in effetti è così, per ammissione stessa del titolo. Ma
a me pare però che la inchiodi sulla pagina (anche con quei punti ricorrenti nel
testo, come chiodi cristici, nota Guglielmin, e infatti la croce è spesso nominata), come
nell'urgenza di salvare ogni frazione salvabile, con la coscienza - come
scrive - che ".non è facile ancorare lo spirito alla terra. la carta al
suo pensiero". La tollerabilità del vivere la si misura in questo
ancoraggio delle cose (usiamo questo termine generico) alla parola
poetica, e viceversa. Inevitabilmente, anche in questo libro
dall'andamento prosimetrico, il frammento si ripropone come un canone
accreditato, ormai presenza costante della poesia attuale, come simbolo
di una realtà ontologicamente inafferrabile se non per schegge di uno
specchio infranto, e c'è certo una differenza rispetto alle poesie di
dieci anni fa. Se un problema c'è è forse, parlando in generale, quello
di un certo "horror pleni", il timore di farlo crescere, quel frammento,
fino a farlo diventare (banalmente) magari un testo poetico per così
dire "insostenibile" di fronte alla stessa complessa realtà che dovrebbe
descrivere. Viceversa, gli inediti qui presenti sembrano indicare,
anche nelle parti in prosa, una specie di recupero di un discorso più
esposto, meno franto, di modalità più distese, più liriche anche, pur nella
persistenza dei temi esistenziali, che nemmeno il ricorso al punto
fermo, quando c'è, riesce a ridurre a frammento, a scheggia inquieta e
baluginante. Non saprei dire se questo sarà il nuovo corso della poesia
di Loredana, se il suo conflitto con il tempo navighi verso acque meno
agitate. Mi piacerebbe trovare le risposte in qualcosa di più organico,
forse la sua vera opera prima - tutti quei testi dispersi nella rete,
alcuni dei quali eccellenti, i vecchi, i nuovi - che è ancora lì da
qualche parte, dietro i velabri della sua proverbiale riservatezza. (g. cerrai)
da L'informe amniotico
61 Questa è un'ora senza ora. anche perché non ricordo più. se ce n'è una e quale sia. sessantunesima mi pare. quella in cui renderò grazie. a tutti gli astri della giostra. stelle brillanti. stelle stelline. stellarelle. stelle spente. infinite grazie celesti. per il diletto grazie. il carosello. il vostro lontanissimo luccicare.
58 L'ho sognato alla cinquantottesima ora. tutto preso dalla carte. guardarmi con un'aria strana. lontana ed è la prima volta dopo anni. che mi torna in mente. emerso insieme. al verbo a te più caro. ancora mi domando. perché te ne sei andato. senza insegnarmi al presente. a coniugarlo.
57 Era commosso il petto fino al cuore. per la bellezza del creato. che si spandeva al sole d'agosto. calda e viva di colore. era per la separazione. tra l'ora dell'anima profonda. cinquantasettesima di gelo. e lo splendore circostante. per il peccato dell'indifferenza. quasi come inginocchiarsi. immobile a pregare. che giungesse la grazia. della riconoscenza. come rosa nel buio. lilluminazione.
54 Se io scrivo. e poi ti taggo. e poi ti chiedo. e poi gradisco. se commento. e mi spiego e mi piego. nella mia saturata gloria evanescente. e fluttuante mi sazio. di queste vene. di questa carne. di polsi senza sangue. l'incantesimo s'avvera. della cinquantaquattresima replica filmata. la bella addormentata.
51 Ora come ora ho sonno. cinquantunesima di grazia. gli occhi mi si chiudono. penso un giorno sarà. l'ultima volta. ma del momento. non desidero consapevolezza. piuttosto l'assenza di dolore. piuttosto l'ignoranza. la prima per paura. laltra. perché l'estremo sia della vita. perfetta immagine e somiglianza.
50 E c'è un'ora ancora di silenzio ed è davanti a te quando accogli la mia anima imperfetta è nell'offerta muta dei miei occhi quando mi consegno per come sai senza difese insieme ai miei cinquanta sbagli tra le mani vuote le mie trecento spade.
45 E così che si macchiano i pupazzi. sberciando orli di fatica. piatti. arnesi. libri. allora le maglie si scolorano nella lavatrice. assale un puzzo di disordine. e il tempo che rimane. pare perso all'occasione. quarantacinque passi nella vita. quando le strade sono vuote. e lavorare stanca. come Cesare attorno alla domanda. dove sia la donna. che dal vuoto faccia casa.
28 Accade di reggere la croce come ventotto cardini la porta di varcare la soglia fino al bosco dove cresce la parola ed ogni varietà di fiori erbe alberi cespugli il legno inchiodato sulla spalla a sgravare parti prematuri come una pena che la sostieni e soffri se l'abbandoni pure.
Accade che sia merda rifiuto scarto spazzatura che sia un assurdo e una vergogna che taluno legga ascolti pensi che a qualcuno possa mai appena un poco interessare quella cosa penosa ridicola noiosa la summa d'inutilità fatta parola di uno scritto in versi.
11 E così che siamo fatti grandi. di pietra. su cui poggiare i nostri credo. le statue dintaglio. il bronzo colato. il gesso dei nostri piedistalli. di marmo la forma. i sensi smarriti. la progressiva perdita del sacro. è così che tracciamo undici rotte all'infinito. e navighiamo distanti senza toccarci. guardando in lontananza. la consapevolezza dei nostri disincanti.
4 Un fiocco in testa. laltro. in disordine sul petto. quattro dita penzolanti e corte. un fiocco modesto. discinto e senza corpo. che a nulla valeva inamidarlo. appuntarvi le medaglie i premi vinti ottimi voti. ugualmente non reggeva il confronto. con quello degli altri. sempre perfetto per forma e per colore.
2 Nacque e fu un errore. di sesso femminile. avrebbe dovuto avere un genere diverso. laltro dei due possibilmente. sempre che poi. non ne esista un terzo. né carne né pesce. degli idonei ad essere. personaggi per sempre. alla ricerca di se stessi.
Inediti
Oggi mi chiedevo
Oggi mi chiedevo perché fosti pane e fosti poi vino e poi corpo e anche sangue perché nelluva e nel grano ostia bianca e farina nel torchio e palmento nellalbero e terra e frumento nel calice fiasco o nei tini come una proporzione equivalenza rimando ed assioma tra spirito e carne tra uomo e divino nel crisma che mutua la forma trascende in divina natura.
Viene come viene
Viene come viene il vento mordendo lalba e nella bocca la faccia che sincastra che saccavalla laria è tutto un turbinio di carne sfatta rosso fuoco e polpa cento poesie fantastiche e una sconfitta la prima e lultima da ricordare darsi alla luce e poi crepare. Volevamo essere eterni e siamo invece solo noi solo mortali.
È solo un fatto d'occhi
È solo un fatto d'occhi guardare le cose sopra ogni cosa volando ai monti disperando d'ali l'orizzonte.
Ci sono vette altissime che solo può l'inesistenza è per questo il dissenso il dialogo coi cari il completamento automatico dei termini usuali l'ustione tautologica deviata dai sentimenti.
Sparire in obliquo è solo guardare le cose da un altro lato.
davvero qualcuno pensa d'essere così necessario. c'è tutta un'anfora di veleno. una bocca che larga stride. non basterebbero duecento lune. liquidi mogli pastiglie. calmanti a iosa della carne. un osso grosso da mordere è la sua pena. veglio la compassione della virgola. restiamo poveri stamani. distanti quasi spellati. di tutto resta un po' di cenere. un mucchio di nulla. il pugno in piena faccia della brina.
lui veramente credeva d'essere un finto poeta. lo fingeva così perfettamente da vivere nell'invisibile. godeva di un piacere inesistente. sazio e completo nel fremito del nulla. produceva filigrana filando bava come seta. quando lo prese l'illusione tremarono le foglie. qualcuna si staccò dal ramo cadde lo raccolse. abbracciandolo con la nervatura. s'intravedeva nella trasparenza un braccio una gamba. un ciuffo di capelli che sfuggiva dal rotolo. come un cespuglio di asparagina.
Io scrivo di bocca
Io scrivo di bocca un'arpa eolica i filamenti della luna scrivo l'intenso verde d'oltremare dove c'è il fondo scoglio la risacca schiuma che ribolle lo sbattito dell'onda un altro scoglio a oriente l'alba rilucente.
La costa appare sporgendosi appena oltre le ciglia un arco a incavare la Sicilia un suo frammento d'ossa dove in quest'estate di lapislazzuli col solstizio e l'inizio si snoda ciclabile e bianca la pista sterrata nella roccia l'ora puntuale che ritaglia i nostri passi dispari.
Sicuramente era estate
Sicuramente era estate quando scrissi che i cieli si chiudevano erano come porte sprangate nel clangore una dopo l'altra nel buio serrate di ferro lucchetto e chiavistello infinite scorrevoli catene come d'argano di ponte levatoio ma non era una fiaba e nei dintorni tra le dune nel deserto e per chilometri e chilometri non un arciere non un'anima nemmeno l'ombra di un cavaliere.
Ora schizzavo inchiostro ora scrivevo mano seppia vecchi e nel frinire di cicale il refrain di un 'arsura la terra che si spacca arida metafora e metafisica del finire.
In un post pubblicato il 17 ottobre 2008 su "Oboe sommImage may be NSFW. Clik here to view.erso", il blog di Roberto Ceccarini, leggevo su suo invito"Lettera da Praga" diFrancesco Marotta (http://oboe.altervista.org/blog/?p=124)
apparso per la prima volta in Hairesis, (E-book, Milano, Cepollaro E-dizioni, 2007). Il file audio sembra non più accessibile su "Oboe sommerso", così ho pensato di
ricrearlo sulla base della registrazione che feci, mixandola con un diverso sottofondo musicale (*), non avendo più a disposizione quello originale, che -
credo - fu inserito da Tonino "Vaan" Vasselli. Il juke box poetico (progetto di lettura) voluto da Roberto Ceccarini era davvero una buona idea che
meriterebbe di essere ripresa, magari ampliando l'offerta mediatica con i mezzi che ci sono adesso (è ancora fruibile quasi completamente su
oboe.altervista.org/blog, numerosi gli autori presenti).
Mi fa piacere ripubblicare, per quello che vale, questo piccolo contributo/omaggio anche in relazione al fatto che si riaccende l'attenzione, peraltro mai sopita in chi lo conosce, lo
stima e gli vuole bene, per l'opera di Francesco Marotta, attenzione che in questi giorni ha trovato un fortissimo impulso nel libro di Marco Ercolani -"Il poema ininterrotto di Francesco Marotta" - Disegni di Francesco Balsamo - Carteggi Letterari Le edizioni, una antologia di testi e di critica di sicuro
interesse.
Ricordo che nella stessa data pubblicai su Imperfetta Ellisse una nota a margine, che ritengo ancora contenga qualche spunto di riflessione (v. QUI).
Il file audio (necessita il plugin shockwave-flash abilitato)
fango dislagato in pozze di cielo lurlo che annaspa stretto alle sue radici musica sghemba sirida in prospettive e note di volo disordine necessario che ripete locchio a curare lampi malati
e allora ripensi il chiarore il suo profumo offeso soglia che immette in terre senza luogo dove calchi di vento segnano il confine tra attesa e oblio e il futuro è un volto che riemerge da franate memorie sottovetro una catena di passi marcati col sangue uno a uno dalla foce del Sele alle porte del Hrad un ponte di croci gettato sullabisso
mio padre coltivava sogni dietro il filo spinato di terragne lune tra cumuli di vite lasciate a marcire e una viola spuntata per caso in pieno gelo li allevava nel piscio nel vomito di bocche smembrate proprio i sogni che resistono alla deriva degli anni quelli che lasciano una traccia indelebile ad ogni risveglio
un papavero che vigila le messi un fiammifero che urla alla marea unala trafitta di chiodi un frammento di buio strappato a un delirio di luci
forse già da bambino abitava il fuoco che il giorno porta iscritto dentro il palmo gabbiano insonne che misura il naufragio della storia come si guarda il tempo di una vela in balìa delle onde del crepuscolo
ora dal reliquiario delle sue sacre ombre qualcuno libera serpi a impastare il pane delle stelle
solo la sua mano ancora sillumina alloracolo sapiente della spiga recita parole desilio esorcismi contro lartiglio uncinato della grandine una preghiera a un dio senza altari un breviario di immagini dove il fumo che spunta dai camini non è alito di ceri e dincenso ma un respiro che ieri aveva occhi e voce
era dita smagrite dinfanzia che disegnavano rotte di astri splendenti sulle pareti dellinferno nei corridoi di Terezin o tra le case sventrate del ghetto era bambini che ritagliavano ali di luce scavando coi denti nellombra incidendo brandelli di pelle sul corpo inesplorato degli anni dove non sarebbero stati
rischiaravano la pianura boema annerita da nuvole dacciaio solcata da transiti di uomini cavie stipati nel ventre di carri bestiame
se ti fermi e accarezzi la terra che conserva il calore la linfa di giorni infiniti mai nati ogni stelo che spunta ai tuoi piedi ha la forma di un calice simbolo perenne di un unico rito il ritorno ai deserti di un grido
(i vivi diceva è appena un rigagnolo di vino memoriale della terra e delle stagioni che dallorlo colmo cade e accende sui prati alfabeti fraterni di assenza lumi apparecchiati per la cena interminabile dei morti )
ogni sera accosto alle labbra la sua pupilla di sopravvissuto estranea a un mondo che rimargina ferite con loblio lorrore con il balsamo e i drappi putrefatti delleterno
incessante dismisura del sentire mappa vegliata da silenziosi inverni dalla neve che cova salici e mulini giorni dalveare nel cratere dei numeri abrasi sfrangiati dallunghia della tenebra sul braccio muta sorgente di polvere
rifiorita dalbe nel passaggio
Si può inoltre leggere qualche altro testo di Francesco Marotta QUI
(*) "Aleatory2" - generative music elaborata al computer.
Image may be NSFW. Clik here to view.Giovanni Di Livio è uno pseudonimo. Come forse si sa non amo gli pseudonimi, ma dietro a questo c'è una persona che è già stata qui, su questo blog, e che apprezzo. Leggendo queste poesie si capisce perchè vuole celarsi. Sono estremamente private e affrontano un tema penoso con parole crude, dicendo cose che forse si pensano, ammettiamolo, ma che non si dicono. E' il prolungarsi di una agonia, di un tempo "allungato a dismisura", di quella particolare malattia che è la vecchiaia, che prevede un unico esito possibile. Roba difficile anche da farne poesia, da trattare in un certo senso esteticamente, preoccupandosi della prosodia o dell'"abbellimento", perché materia an-estetica, caso mai etica, di un'etica drammaticamente affine alla elaborazione anticipata del rimorso. Non sempre la contemplazione della morte accende l'animo a egregie cose, come direbbe Foscolo, o "belle". Forse è il tempo affrettato di oggi contrapposto a quello "allungato" ad imporre altre considerazioni, un'altra gestione della morte, una diversa "cura", o forse proprio una "noncuranza", quando la vecchiaia appare come un accanimento. Non lo so. Da un certo punto di vista non sono nemmeno sicuro che sia giusto pubblicarle, ma sono qui, esposte alla lettura di tutti.
Viola Amarelli - da "Fantasmata", ineditiImage may be NSFW. Clik here to view.
φαντασματα (fantasmata):
immagini sensibili (e in movimento) che Aristotele pone in una zona intermedia tra la percezione e il pensiero, ma libere da entrambi come pure dalla
fredda intelligenza argomentante. Evocate da ricordi, da esperienze, da visioni o da timori, non sono altro che l'immaginazione, la libera creazione,
libera anche di farsi da sé. Non c'è pensiero senza immaginazione o, meglio ancora, poesia senza di essa. E nemmeno immaginazione senza
percezione. I fantasmata stanno lì in mezzo, a fare da ponte. In questa piccola silloge di Viola Amarelli i fantasmi (o i demoni) sono per lo più
larve o barlumi di una realtà, non tanto percepita quanto vissuta e vivente come sintomo o fenomeno accessorio di altro, forse di un passaggio,
forse di qualcosa che travalica una ragione dormiente, come in Goya. Sono, ancor di più, fantasmi di fantasmi, nel senso di una ulteriore riduzione
dell'immagine evocativa ad una frazione di luce o d'ombra che il lettore può solo collocare nel bianco funereo della pagina, può contemplare, può forse
usare come modello, anche linguistico, per gettare uno sguardo sui suoi propri fantasmi.
Fondamentalmente quella di Viola mi sembra una poesia critica, ma critica di un io che è insieme antropocentrato e incapace di porsi davvero come
parte di un tutto consapevole, anche della propria morte ("un ego di muschiato marcescente"). La morte è presenza costante, qui, ma in forma di
contemplazione, di accostamento all'idea e al destino che contiene, elemento di una natura sovrastante e perpetua ("chissà quante altre volte siamo
morti"). È una poesia che vive (e lo fa coerentemente, per quanto possa essere paradossale) quella contraddizione di cui abbiamo appena parlato. Uno dei
nuclei "fantasmatici", forse il principale, a me pare proprio il contrasto tra un io per così dire sociale e un io intimo (quello lirico ha abdicato da un
po') luogo di proiezione di ombre e demoni ("oscuri e privatissimi") sul quale chi scrive vuole appuntare lo sguardo, o tra un dentro e un fuori illusori
("da fuori molto, / tutto, normale"). È la direzione in cui va Viola? Non lo so esattamente, so che in effetti qui non c'è più molto di oggettuale, hanno
perso importanza, da un punto di vista di oggetto ispirativo, anche le "nudecrude cose" di cui avevo parlatoQUI
, se non per il "caos che si riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di prospettive annichilenti" di cui avevo parlato a suo tempo.
Ho l'impressione che comunque qualcosa sia cambiato, si sia in qualche modo evoluto. Altrove Viola aveva detto "la scrittura è dall'origine un fissare, un
dar conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo", aggiungendo "Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce da un flusso e si risolve
in un flusso, quasi una sorta di processo a "doppio cieco" ". Ma qui a me pare che questa ansia sia messa in discussione, sia "criticata". A che pro
averla, se l'esistenza presenta "il conto, infinitesimale, del / macellaio" (narratrice, III)? D'altronde, dice ora, "le cose non vanno come
dovrebbero...le cose non vanno, si fermano, splendono e / piangono".
E il testo corrisponde in modo del tutto coerente a uno "sfilare ordure", a un "disordinare l'ordine", una tela di Penelope soggetta solo ad essere
disfatta, ridotta nel frattempo al minimo essenziale, una scrittura volutamente ossificata che potremmo definire un ulteriore avvicinamento (che dura da
anni) di Viola al "mu", a un versificare "privo di" a cui la "narratrice" riduce le "narrazioni" (entrambi sezioni di questa piccola silloge). Cosa che
avviene anche quando il testo si fa viceversa affollato, come in Cerchi (altra sezione) perchè fatto di costruzioni sintattiche che asseriscono
qualcosa che si compie in sé, non vuole diventare veramente narrativo, perché anche gli arazzi alla fine mostrano l'ordito. Le narrazioni
d'altronde, premette in esergo Viola, "- di cosa parlano? / - al dunque niente. // sorda sirena". Perciò un altro vuoto, o una stasi, o un gioco che
"perso, splendidamente langue / nell'arrocco". Giacché, scrive altrove Viola, "niente è peggiorato", e insieme "nulla qui è migliorato". Anche quando, come
dicevo, il testo si amplifica e si dispiega, rimane la sensazione di una volontaria frattura degli elementi costitutivi del discorso, l'eliminazione dei
connettivi, delle "giunture", nell'intendimento finale che "le parole sono pietre. / tu scheggiale / fino a che non diventano sabbia, polvere. / fine" (cerchi, VIII). È come se Viola dunque macinasse indifferentemente pietre grandi e pietre piccole o piccolissime (testi di uno, due versi). Sì,
forse qualcosa è cambiato. (g. cerrai)
da narrazioni
II.
una piccola nausea, vomita parole, non sta meglio .una piccola ferita, invisibile a tutti, emorragia costante, avvelena, marcisce, investe i giorni. cancella il cuore. nasconderla, tacerla. vomitare sorridendo, nessuno veda. nessuno sia. il sangue. una giostra stranota. una nausea, costante. non c'è fine. forse l'inizio, ad andare indietro, cauterizzando cauta, sé. il mondo sviene.
IV.
Nellambito//nel novero dei morti la graduatoria orizzontale a pira a fossi maccosto, la tocco
tra breve la terra già grassa di sotto il sordo del magma che preme, che cerca losmosi continua, intrauterina.
l'odore, delle erbe. non dei fiori.
da dèmoni
I.
vi vedo dietro il vetro,
non vi tocco, un lucido delirio
lurlo muto, pesci:
chi è il morto.
morto morto morto
fare il morto sull'acqua
vivo
passa il sale
sale le scale avvolge il suono
emette e squaglia
gioia
per poco
siate siate gioiosi
lintento tenace
non sulcera più
lo sbrego, diruto
lio spiritato,
arso, scomparso
il truciolo sbriciola
novo, un tarlo suicida per fame
la vittima in progress
(il prezzo, alto/basso)
Spett.li Come già
Nel rimarcare
Non si ha modo
Riscontro
Saluti saluti saluti
Molto vi piango
per gli affollati démoni che siamo amplifica: miriadi di voci
II.
alla marina le carte son segnate
basoli divelti, buche,
baracche triste,
si va, vorrebbe, in corsa
entrare, uscire, cocchi
mozzoni di palazzi
set di bombardamenti
un brulichio sconvolto
grigio giallastro sporco
al sole, allaria, al mare
mura a moli invisibili
odore chiazze di nafta
belle mbriane sfatte
si va, vorrebbe, in corsa
laditus, collo senzutero,
lontano si sfilaccia Pusilleco addorosa
unaltra, stessa, cosa
lincuria della furia, slabbrata cicatrice
fantasmi di carrozze in fila al Miglio doro
le senti, che frusciano, le
anime perse divelte
era di fiori il seme che non colsi
allora e adesso un seme che non gioco
da cerchi
I.
potresti scrivere una poesia semplice?
certo, una parola sola
affetto
e un dono: mangiare insieme pane e pomodoro
salto, lieve, di festa come la tua vita
nel balenio di coda, corsa che
danza
III.
il risultato è perfettamente sovrapponibile
camminano assorti una coppia, uomini di mezza età
sembrerebbe, in ritardo il sospetto, il marciapiede si avvalla
timido per la vergogna al peso di trolley, autobus, scarpe spaiate
alle vetrine chiagnenti di comprami comprami
polverose, lafa si prepara agli agguati elastomerici
elastosonografici, cisti di acqua nel cielo, nelle cavità
intraspeciose
le vetrine si appannano la coppia avvizzisce a un bar, questa era la città dove da piccoli
giocavano, piccioni e sessi dimenticati, acchiappavano ingenui le insegne, chiuso per
lutto affittasi, contiamo i soldi, si squagliano i chip, dateci tessere riverniciate
dovrebbero essere allegri, niente è peggiorato, tutto uguale, a crederci, illudiamoci
non scambiano una parola, tristezza estiva il clima è
le pompe dei condizionatori sibilano, lacqua troppo calcarea, losteopenia
dei dinosauri, gomma, ma di caucciù, bastoni di lacca, puntali argentei, i nonni
leleganza dei morituri, rifulgi immoto cielo opaco travagliato
inizieranno le doglia a momenti, si apriranno le acque, fa che non siano verdi
i due invecchiano di minuto in minuto, accelerati, è troppo caldo per stringersi,
figurarsi boccheggiare
lastre di ghiaccioli senza glutine, senza semi, vagonate carnivore abbandonate
a una stazione in disuso, carri frigoriferi, gas di nostro signore del calore,
fu sulla soglia di casa che luno disse allaltro: non credere mai di cavartela a buon
mercato
nulla mai nulla qui è migliorato, amen disse il ragazzo, che andava a mare, lillusione in
ciabatte di tela di plastica fulgente, allegro, di pochi, pochissimi minuti primi
sovrapponibili
ripeti, ripeti.lesame.
IV.
in simultanea la metropolitana, la fila la coda il coperchio già urna
le microscopiche viscere, la polvere, del nato morto
nellattimo del castigo perenne, non chiederà mai perdono decide
mentre si forma, sformato, sbagliano tutti sulla rotatoria, le canaline adagiate
sotto la sabbia, impronta dacqua, nomadi di fili di rame, cavi,
ancora nellistante di organico exultet
battito in volo , collasso di insetto, brivido freccia
il secondo protratto di orgasmo la carne, le membrane
certo opalescenti, la bocca sicuramente a murena a lemure a
voltaggio, trifasico, pagine e pagine e pagine
blateranti al vento, pregate quel, chi, volete,
si è rinserrato dentro un amnio qualunque, spiccona concetti, ribosomi
chi è la più bella del reame, fuori livori
lucean le cupole di zaffiro nei laghi centroasiatici
in simultanea nasce già livido morto,
aveva dato unocchiata intrauterina,
sequenzialmente
sera impiccato, evitiamo la lunga inesorabile
attesa del falco, del giorno, dello shopper di plastica.
Image may be NSFW. Clik here to view.Un assaggio di un eccellente poeta francofono di origine libanese, Salah Stétié, di cui spero di tornare a pubblicare qualcosa più avanti. I testi sono
tratti dallantologia Nel cerchio del cerchio Trentanni di poesia: 1973- 2003, Bulzoni Editore, 2004, introduzione, traduzione e cura di Franca Bruera, con postfazione di Sergio Zoppi.
Salah Stétié nasce a Beirut il 28 settembre 1929. Si forma dapprima al Collegio protestante, poi al Collegio San Giuseppe dei Padri Gesuiti e continua i
suoi studi presso l'École Supérieure des Lettres di Beirut dove frequenta i corsi di Gabriel Bounoure. Tra il 1950 e il 1954 prosegue gli studi letterari a
Parigi presso l'École des Hautes Études et il Collège de France; in questi anni stringe legami d'amicizia con Pierre-Jean Jouve, André Pieyre de
Mandiargues, Giuseppe Ungaretti, Yves Bonnefoy, André du Bouchet e instaura rapporti di collaborazione con altre rilevanti voci della cultura
contemporanea. Rientrato a Beirut, dirige il settimanale culturale "L'Orient Littéraire" e collabora al contempo alle principali riviste letterarie
francesi, tra le quali "Les Lettres Nouvelles", "Le Mercure de France", "La Nouvelle Revue Française", "Europe", ecc. Diplomatico dal 1961, Salah Stétié è
stato consigliere culturale del Libano presso le Ambasciate libanesi in Europa occidentale con sede a Parigi. Dal 1963 è stato nominato delegato permanente
del Libano presso l'UNESCO. Ambasciatore nei Paesi Bassi, in Marocco, segretario generale del Ministero degli Affari Esteri a Beirut, Stétié affianca alla
professione diplomatica un'intensa attività di poeta, saggista e critico d'arte. Nel 1995 ottiene dall'Académie française il Grand Prix de la
Francophonie. È membro della Commission de Terminologie et de Néologie de la langue française.
Da FRAMMENTI : POEMA (1978)
*
Cielo dolce e costruito sull'essere. Colombi
Da dove venite
Per quale consolazione tardiva?
Abbiamo plasmato il corpo e l'altro corpo
Folle di sostanza, e abbiamo
Guardato rilucere l'altro corpo nella negazione
Dei vetri
Uccelli di qui sulle colonne
Donateci questa sera. Donate
A noi questa sera
Prima di affamare la camera vuota
*
Il corpo non è più il corpo. È
Fatto di povero cielo in fondo alle vie
Che il pettine del mattino attraversa. E
Amico della donna notturna con le sue gambe
Oh dolore delle sue gambe! su di me
Viene a respirare a fatica il cane visibile
Quell'unione di me e di lei e noi
Bramosi d'essere respirati stupiti
Quale dei nostri corpi avrà fame e sete assai tardi
Francesco Filia - La zona rossa - Il laboratorio/le edizioni, 2015Image may be NSFW. Clik here to view.
Cos'è la zona rossa? Ne abbiamo più o meno un'idea: anni di "eventi", a partire dalla fine degli anni '90 (Seattle, 1999), ci hanno abituati a questa area
fisica e giuridica "esclusiva" in cui i detentori di un potere si rinchiudono per parlare dei fatti loro (e nostri), difesi da un apparato militare e
repressivo vero e proprio, proprio quella zona in cui per una ragione si sospende un diritto di esserci, di starci ecc., una libertà di movimento, una
"circolazione", non solo delle persone ma anche e soprattutto della manifestazione delle idee. Ma anche - storia di questi giorni - quella in cui si segna
il perimetro di una instabilità, del rischio del crollo, della maceria inabitabile - in questo caso il relitto di una lotta, di una speranza ideale o
semplicemente, come ha notato qualcuno, di un rito di passaggio. E' questo il nocciolo della questione, nel libro di Francesco Filia, che partendo da una
memoria per così dire "storica" e collettiva - cioè le manifestazioni e gli scontri avvenuti a Napoli il 17 marzo 2001 in occasione del Global Forum, un
triste prodromo di quanto più grave sarebbe accaduto a Genova di lì a qualche mese - delinea un percorso esistenziale, sociale e inevitabilmente politico,
una parabola discendente. Libro autobiografico, poema epico/lirico strutturato su piani temporali diversi (ora/allora, ma il tempo narrativo è tutto in un
giorno, da alba a tramonto), registri diversi (narrativo, lirico/elegiaco) e voci intersecate, incentrato sulle presenze di tre ragazzi e una ragazza di allora, qui non
esclusivamente come persone in carne ed ossa o "personaggi" ma anche e forse in maniera precipua come emblemi generazionali, almeno di quella generazione
che all'inizio del terzo millennio non aveva ancora voglia di smobilitare l'impegno politico, ma forse, come dice Viola Amarelli, "epigona del fallimento
dei padri". Pur senza colpa, perché, come avverte Masullo nella prefazione, "l'ideale infatti è intrinsecamente necessario ma altrettanto intrinsecamente
impossibile". E' questa necessità a statuire il rito di iniziazione narrato in questo libro, con la relativa parabola conseguente. Passaggio verso dove? Se
questo è, nella sua compattezza, un bildungsroman, come ha osservato qualcuno, lo è alla rovescia, nel senso che forma ad un sentimento irrelato
di sconfitta, forse di inadeguatezza ai tempi che verranno (sono venuti). In questo è degnamente contemporaneo, essendo impossibile un riscatto, un'ascesa
o una catarsi. Le magnifiche sorti e progressive sulle quali, anch'egli all'ombra dello sterminator Vesevo, già Leopardi ironizzava, sono finite.
E tuttavia - poiché la poesia serve anche a questo - ripercorrere quelle vicende da un punto di vista plurisoggettivo (per dirla in termini
cinematografici) non è una archiviazione. Se in esergo tra le altre cose Filia sente di dover porre le parole del PM Marco Del Gaudio al processo
del 2009 contro gli abusi dei poliziotti ("Succederà di nuovo, prima o poi. Se non si mette bene a fuoco cosa è accaduto quel diciassette marzo, il rischio
è che tutto ciò accada unaltra volta") è perché credo che abbia sentito questa necessità, cercando di darne poeticamente un senso attraverso una
registrazione per così dire sinestesica di quegli sguardi diversamente soggettivi di cui si diceva prima. Del Gaudio preconizzava, facile sibilla,
qualcosa che nel 2009 in realtà era già tragicamente avvenuto, lo sappiamo. Il libro invece parla di una lezione irripetibile, perché si cresce, si cambia,
si tradisce (ideali e, come racconta il libro, compagni), si diventa forse pompieri, si supera forse quella pulsione di morte un po' romantica che
serpeggia nel racconto ("Trentanni sono la soglia oltre la quale / non andrò, spesso mi son detto / brucerò quello che rimane in fretta"), si dimentica la stretta relazione tra pubblico e (è) privato (ricordate?). Lezione
irripetibile perché soggettiva, identitaria, sentimentale, nel senso buono, pieno ed "educativo" della parola, il non avere più dopo quel "niente di
meglio" flaubertiano che Filia cita in un altro esergo. E lezione insieme rinnovabile perché la si narra a chiunque voglia leggerla, se ne fa poesia
(scegliendo insomma la forma di comunicazione più "costosa", come direbbe Barthes) a tratti anche in maniera impietosa, poco giustificazionista, a tratti
con una vena lirica che parla direttamente alla nostra parte illogica, emozionale. Ma poi quel che rimane, la nota persistente di fondo, è la faccia
politico/poetica della meglio gioventù, del come eravamo. Ecco, se a me come semplice lettore è venuto in mente qualcosa, non è tanto Sciascia come ad alcuni, quanto piuttosto Gianni, Antonio, Nicola e Luciana, insomma l'Ettore Scola di "Ci eravamo tanto amati", che già nel 1974 descriveva magnificamente e forse anche
con maggior pessimismo l'epos di una resa generazionale, peraltro uscita da una catastrofe ben più imponente.
Non mi inoltro più di tanto nei dettagli perché di questo libro hanno parlato acutamente in diversi, a cominciare dal prefatore Aldo Masullo (ricordo tra
gli altri Montieri, Amarelli, Curci) e anche per i testi, oltre a quelli qui sotto, rimando a quelli apparsi su Nazione Indiana, Poetarum Silva, Carteggi
Letterari, ma anche QUI, ne La disarmata. Aggiungerei soltanto che uno dei meriti principali di questo libro è proprio di essere un poema a tutti gli effetti, come hanno notato in tanti.
Una forma-argine, un mezzo di contrasto della poetica rapsodica e frammentaria con cui si manifesta il "compianto", l'angoscia esistenziale, il disagio di
identità e collocazione che un po'"snerva" tanta poesia attuale. E' già importante, al di là che la si possa catalogare come opera politica o civile, cosa
che non interessa, o del fatto che inevitabilmente anch'essa sia mercè della "brutale corrente " della resa, se posso permettermi di semplificare. Ma qui la
storia (minuscola o maiuscola che sia) non pretendeva altro che di essere guardata per un momento in faccia. (g. cerrai)
da Alba
Marco / 2
Trentanni sono la soglia oltre la quale
non andrò, spesso mi son detto
brucerò quello che rimane in fretta.
E allora questo costruire un futuro di libri
e ordinaria amministrazione il ripetersi
di un domani che non mi appartiene? Ecco
forse la soglia di questa ringhiera è
la decisione mai presa. Ma ora è tardi
e una pantomima di vita la protesta
di questi vestiti non alla moda gli slogan
da ripetere tra una risata e una finta
indignazione mi aspettano
oltre la porta, nellaria già calda
di questo marzo mai cosi normale
mai così disperatamente sano e normale.
La vita ci accadde a velocità inaudita.
Ecco amici sto arrivando
a questo rito stanco al congedo
da quel che fu il nostro incanto.
(Vico Gerolomini - Andrea, 1995)
Cè qualcosa di radicato e arido
persistente ostinato come
la pelle di chi abita
queste strade da secoli, sterpaglia
nelle crepe di un acciottolato
dietro questa - sotto nel profondo -
apparenza di moto perpetuo
di pigia pigia senza fine.
Vuoto logico di un terrazzo aperto
su di un balzo di palazzi e voci rabbiose.
Le labbra si schiudono ancora nella gioia
di nominare le cose i volti arcigni lo spazio
che serra la gola
arcaica
come un rantolo di voce spezzato. Un grido
primordiale nelle pietre
nere di questo vicolo
perduto come quel viso mai più rivisto cercato
in questa città che continua
a crollarmi addosso da millenni.
da Giorno
Il contesto /2
Ardi divina tenaglia sul mondo!
Denaro merce più denaro. In quale
fase di questo ciclo ci colloca
il sistema che fa muovere
ogni singolo passo? Fine e mezzo
interscambiabili, la mano invisibile
che comanda un acquisto e un amore
indifferentemente. E se anche questo
fosse un rimedio? Alcuni ci vogliono al gelo
alla crudeltà della lotta per la vita
e credono così di aver colto
il nocciolo dellesistenza, denaro
più denaro. Un vento travolge ogni
cosa per voler solo se stesso.
Cè una macina che trita i suoi grani
secondo dopo secondo, eone dopo eone
e noi torniamo sempre di nuovo
su questidentici passi a correre
a urlare a cercare di aprire
il cerchio imperfetto di queste vite.
Elena e Andrea
La fine dei nostri gesti, se tu riuscissi
ad accettare Tutto anche un caffè ai bordi
di questo corteo sarebbe più semplice.
Ma tu vedi di me solo ciò che vuoi vedere.
E non vuoi sapere quel che sono quel
che sono diventata.
So solo che una seconda volta avrebbe senso
mentre ti guardo in questo bar riflessa
nello specchio che ci porta già oltre
il vociare di un mattino sbagliato di questo
starci troppo lontano e cerco di sfiorarti
di essere di nuovo due, io e te.
Mi guardo riflessa, i capelli raccolti intorno
a una penna il pallore teso del viso quel
freddo irrimediabile di una notte insonne
eppure sono viva. E tu? Chi sei ora cosè rimasto
vivo di te quale gioia ti possiede? O sei
morto anche tu il giorno in cui ne uscimmo
soli? Ma io rido. Rido. So
solo di essere viva di esistere
ed è già tanto. E tu? E tu?
Chiacchiere
In fondo chiedevamo un ordine.
Un dettaglio che ci salvasse da questo
cumulo di eventi impazziti, laccelerazione
della nostra mente contro il muro di strade
e scarti di vicoli ciechi. Cosè quel montare
improvviso che sentiamo dal profondo
delle viscere? Quella rabbia atroce
che divora se stessa? La maledizione
di chi almeno una volta ha voluto capire
lo stridio che lo fa stare al mondo
la stessa forza che tiene insieme i nostri
discorsi le nostre parole spezzate le urla
inconsulte di gioia. Rinchiusi nel carcere
di camere dove un pomeriggio dinverno
siamo stati segnati una volta per sempre
da un enigma non risolto,
da un gioco andato storto.
Senza guardarci intorno, incontro
a questo nulla di transenne e strade.
da Tramonto
Caserma Raniero: Marco
La vita animale da necessità mossa
formiche lungo i battiscopa in fila
sopra limpronta di un piede impresso
nella calce di questa parete, traccia
di unattesa di un appoggio distratto
in un luogo che non è di nessuno dove
si è nessuno, mosca in una goccia
dambra ed essere qui adesso
per sempre, quando il terrore ti attraversa
dalla nuca allo sfintere anale. Nessun
controllo. Perdere è qualcosa di più
di più atroce di quel che credevi.
Ritornare in un istinto ad aggrapparsi
alla legge che ti precede da sempre
a un impulso che digrigna i denti
gli occhi vortica, lattesa
impaziente ti domina ti abita
ospite mai tuo e gli insetti sono lì
sono specie, necessità e tu no.
Caserma Raniero: lispettore
Voi due cosa pensate di aver fatto cosa
credete di aver cambiato se non
inguaiato la vostra vita e la mia giornata?
Ma ora saprete, saprete ciò che di voi
non volete conoscere la vera stoffa
che tiene insieme i brandelli della vostra
esistenza al di là delle chiacchiere,
in cui certo siete bravi. Basterà un gesto
uno sguardo un panico fuori controllo
e ciò che un giorno avete promesso
non riuscirete a mantenerlo, si strapperà,
non sarete più sfrontata rabbia giovane che
pur svanisce. Chi di voi mi dirà
di questa molotov si salverà.
Ecco cosa siete diventati
bambini che vorrebbero fuggire
dal mammone che si è rivelato. Ma non
potete. Solo chi di voi cederà al terrore
che lo tiene in vita chi implorerà, potrà.
Caserma Raniero: Marco
Il sole scompare dietro i tetti lincendio
del tramonto irraggia il cielo
il lento mutarsi della luce nel cortile
lombra che avanza divorando
le pareti centimetro dopo
centimetro. La pena
più atroce è cercare di sostenere
il peso di ogni istante trascorso.
La via di fuga tra il tavolo e lo squarcio
della finestra tra le mura la stanza
così vuota che anche i pensieri
rimbombano, non sapere altro
che lattimo prima è morto
con una parte di te. Qualcosa è accaduto dirrimediabile. Tra poco
sarò nella solitudine di una strada
affollata nellinterminabile sera
di una quasi primavera sarò in qualcosa
da cui non potrò fuggire in una linea
dorizzonte tremenda, immensa.
(Via Simone Martini - Elena, 1991)
Un silenzio o il latrato continuo dei cani
poco altro in città, il resto si è arreso
a un vuoto pomeridiano di serrande
di strade consegnate a se stesse
alleco di ombre impresse sul selciato.
Sentire il caldo dellaria mossa
dalla tua spalla come unico
segno di vita, il sole che grava
come una colpa indelebile
sul cemento crepato di questa strada.
Il destino, in fondo, è un tacco spezzato
o un granello finito nellocchio,
un tacere che non conosce se stesso
che attende un rumore un grido
lo stridore delle gomme sullasfalto
che ci liberi, disperati, da noi stessi.
Lattesa di Elena
Il non sapere di questo buio, la calamita
del divano il mio giacere qui, limatura
di ferro di un giorno senza fine. Non so
cosa accade, tra il riflesso di un bicchiere
e lintermittenza delle luci dei fanali
che scruta la parete del soggiorno, cupa
sentinella di ronda ai miei pensieri
a unattesa di notizie che non potranno arrivare
senza che il tempo proceda oltre questeterno
istante di un morso a un pezzo di pane
o il soffitto che scende a perpendicolo
nel fondo di un pensiero ancora da pensare.
Lombra sprofonda in un terrore di volti persi
in un altrove che crolla in se stesso, muto
ostile come ogni cosa, identica solo a sé
a questo cellulare che promette nientaltro
che i cristalli della sua luce e un vuoto
di parole che non potrò dire
che saranno il sigillo di questo sporgermi
in un amore che mi ricaccia indietro
che mi chiude come sigillo in me stessa.
E non saprò nientaltro se non linutilità
irrimediabile di una banale notizia.
Il patto tradito
I
Resta uno dei due impigliato
nella rete del giorno nel tramonto
appostato dietro un davanzale
alla bretella dello zaino strappato via
sequestrato. Chi dei due tradirà
o sarà tradito entrambi
abbiamo giocato la nostra carta,
lamicizia che non guarda
oltre il bene di ritrovarsi ogni volta.
Ed ecco però il gesto, il terrore, lattimo
che ci fa crollare in noi stessi, la frase
lindice che accusa se stesso
in uno specchioè stato lui
un fossile di parole dissepolte
lentamente. Marco crolla
nello sgomento del viso di Andrea.
Poi solo il pavimento, la via di fuga
tra una mattonella e laltra. Il giorno
si sbriciola in un brusio dintonaco
e bianco.
II
Adesso sai che la tua è la colpa
incancellabile di chi è innocente.
La valanga dei secondi travolge
questo zero assoluto inchiodato
al presente di un rito mancato
figura della necessità il patto tradito
il colpo assestato, non cè altro
che il ticchettio implacabile su questa
parete delle lancette, solo questa
insondabilità di un dettaglio
impazzito di me che scruto nel fondo
di questo zaino per comprendere
quale distrazione ha portato
a uno svuotarsi di corridoi e viscere
a queste manette ai polsi
al sangue raggrumato sul cuoio
capelluto al patto tradito in uno sguardo
abbassato - sprofonda ora il giorno -
a questimplacabile buio.
Image may be NSFW. Clik here to view.Francesco Iannone - Pietra lavica - Nino Aragno Editore, 2016
Abbiamo già incontrato Francesco Iannone su questo blog, in una nota che scrissi in occasione dell'uscita per Ladolfi del suo "Poesie della fame e della
sete" (v.QUI
). Rimando volentieri a quella piccola nota perché mi pare che molte delle cose che allora sottolineai sinteticamente siano in sostanza rimaste lì, pur con
qualche evoluzione soprattutto sul terreno della scrittura. Dico subito che qualsiasi cosa scriva Iannone la scrive bene (e infatti riceve consensi), ha inventiva linguistica, ha
una perfetta padronanza sul come dire quello che vuole dire, in che tonalità eseguire la sua musica, su questo non c'è dubbio, con un certo coraggio e con
poche riserve mentali, poche soggezioni, stilistiche, concettuali o "correntizie" che siano. E', da questo punto di vista, un autore privo di dubbi e
insieme una tabula rasa, come se nessuna eco di esperienza poetiche precedenti alla sua emergesse, anche se certamente ve ne sono (a partire certo dal
Pascoli "fanciullino") ma senza - apparentemente - nessuna tradizione da difendere. In tutto ciò sta un certo fascino, diciamo anche questo, una purezza
che certo è anche "religiosa", assumendo il termine in senso ampio, ma è comunque fideistica, di una immensa fede nella vita, nell'uomo e nella natura, di
una francescana disposizione ad ascoltare i segnali che provengono dal mondo sensibile, da una realtà visibile e invisibile, un mondo che però, come
scrissi, sembra appena creato. Segnali che raramente sono problematici, fenomeni che difficilmente appaiono indecifrabili o incombenti (come in Leopardi,
ad esempio) perché con ogni evidenza sono lì come dono o forse perché nella visione dell'autore, fresca e confidente, sono ancora incontaminati, e come
sospesi fuori della Storia. Se gli uccelli e tutte le altre cose che lo sguardo di Iannone prende in considerazione sono correlativi oggettivi lo sono di
uno stare al mondo, di un essere parte ("altissimi testimoni del mistero") di una creazione superiore della cui logica anche gli affetti, i sentimenti, le
relazioni sono espressione. Ma senza particolari intendimenti metaforici o simbolici, pur essendoci in questi testi molto del simbolismo e pure una certa
vena metafisica. C'è in questi versi un'umanità indefessa, "originale", ancora capace di una qualche innocenza, insomma "denudata" e "primitiva" (sia detto
senza accezione negativa), naive. A volte mi appare come un Rebora un po' più laico, spogliato da tutte le angosce, ma più portato a costruire
piccole parabole, spesso assertive. Quel che sorprende di più, in fondo, che disarma, è questa sensazione antica, prenovecentesca, anzi volterriana da
"migliore dei mondi possibili", nel quale l'autore non sta dalla parte di Voltaire, perché non prende in considerazione il cataclisma, l'evento critico, il
male che alberga il mondo. I punti in cui c'è maggiore frizione, un maggior salto di potenziale poetico, un pacato tono di angustia malinconica che infine
emerge sono in effetti le poesie (generalmente belle, come l'ultima qui presente) dedicate all'amore, al sentimento che in qualsivoglia mondo possibile è meno gestibile, perché non si
lascia semplicemente osservare come una zolla o un uccello.
Iannone, tra i molti che ho letto, è comunque singolare, pur essendo diciamo un lirico puro (anzi "euforico", come scrive Giovanna Rosadini nella
postfazione), e insieme un esponente di quella "identità sfilacciata e solitaria , debole e poco battagliera, una potenziale 'nuova generazione in ombra'"
che Matteo Fantuzzi aveva acutamente individuato nella sua antologia "La generazione entrante" ove lo stesso Iannone appariva (come rammenta Giovanna
Rosadini). Singolare per stile, certo, ma soprattutto per la sua visione "fanciullesca" (parola mia e di altri) che salta a pie' pari, ignorandola
bellamente, tutta la questione forse un po' abusata del chi e cosa siamo qui e ora, in questo mondo, nella complicata modernità, uno dei mondi
"impossibili" da decifrare, in cui l'uomo - certo colpevolmente - è sempre meno il destinatario "centrico" del dono di Dio e sempre più un prodotto. E lo
fa convinto com'è, sono parole sue, che "tutto è alla portata della mia comprensione". Aspettiamo con curiosità il terzo libro. (g. cerrai)
*
Questo stare
nel gesto paziente
della maturazione
ci riguarda.
Aspetteremo
come dentro
una silenziosa conversazione.
Aspetteremo
come il fiore nel campo
la mano desiderata
del bambino.
Non puoi dire
che la goccia che squilla
sulla padella di rame
non è un suono
un timido modo
del cantare.
Devi fare
come l'aquila
che sconfigge gli sciami
col suo colpo d'ala.
Devi fare
come il ciliegio
che si compiace
della sua chioma
rossa
devi
devi
devi
ti avevo chiesto un bacio, un qualsiasi
avvertimento
dell'amore
invece mi lasci
come il figlio fermo
col secchiello sul molo e un mare
immenso davanti.
*
a mio figlio
Per ogni uccello che decolla una foglia
cade
e si schiantano insieme
per l'opposto destino
della terra e del cielo.
Per ogni figlio che nasce un corpo
s'inabissa e non lo vedi
più
e non sai
a chi davvero appartiene
e resta fermo lì sul tappeto
come un paradiso domestico
che ti germoglia il suo tesoro
sulla mano.
Alzati e cammina
ordina il vento la sera sul molo
ed effettivamente rotola il sasso
scende il gradino in solitudine
un tonfo secco
un corpo che rientra nell'archeologia
del suo silenzio
un sorso che va giù
sordo
ed è sul fondo
sulla grande pancia dell'animale
nella grande culla dello stomaco dell'animale
nella sacca splendente
del mare.
ore 7, 11 luglio 2014
*
Abbiamo alzato la testa
come i funghi
ai piedi del ceppo.
Ci soffieranno il terriccio
dal gambo
finiremo nella premura del guanto
di qualcuno.
Sai come si pulisce un corpo?
Me lo ha insegnato una volta un gigante
passare e ripassare lievemente
col fazzoletto.
*
Tu la conosci la solitudine dei rami
a quest'ora della neve?
Dio ha mandato quaggiù i suoi bambini
con le margherite in mano
gli angeli hanno starnutito così forte
da svegliare i pozzi
i cavalli hanno pestato la terra così forte
da rovesciare il grano dai fazzoletti.
Tu lo conosci il nome dell'agricoltore
che vegliava gli orti?
Te l'ho già detto - se vuoi essere felice
devi allacciare le radici agli alberi
il corpo urlerà sotto il peso dei tronchi
il corpo urlerà sotto il volume dei cancelli.
Vedi, sul gran torace della terra è caduta la neve anche oggi
ma tu stai tranquilla, qui tutto brilla
come deve.
*
Mi sollevai sulle ginocchia del cammello
l'arsura mi avvizziva i pomodori nel cesto
ho attraversato tutta la sete che ci vuole
per riempire le cisterne
lo vedi adesso come sono sode le gobbe?
La scimmia ti slacciò la collana di perle.
La scimmia ti tolse l'orecchino luccicante.
Adesso mi dici come farà il bambino
a riconoscerti così
avvolto nel buio
del tuo telo nero?
Scrivimi sempre
perché la tua grafia
è l'assenza
che la mia poesia
non sa dire.
*
È scritto così
entrerai nel regno aggrappata alla coda dell'asino
entrerai nel regno lucente come un acino di grano duro
entrerai nel regno sventolando il palloncino nella mano.
Sì, è scritto così
reggerai lo scettro alla formica
ti aggiusterai la spilla sul cappotto
insegnerai ai nani come si brilla
in tutto il buio che c'è.
*
Tutti mi dicono
il papavero è bello
esposto così
appena fuori dall'orlo
del taschino.
Tutti mi dicono
che l'uccellino che si gingilla
sulla mia spalla è di una specie rara
e che ha piume fluorescenti
evidenti come una fame antica.
Tutti mi dicono
qualcosa
che è sempre a lato
del mio bisogno
e nessuno che mi tiene
nel cerchio del suo anello
nel punto di sutura
sul ginocchio del fanciullo.
Pensa alla madre
che spinge a beccate
i piccoli
nella fortezza del nido.
Pensa alla marea
che rapina i granelli
per il compito
luminoso dei fondali.
Mi credi adesso
se ti dico
che persino il vento
quando muove gli steli è perché li sceglie, li preferisce?
*
Dentro il mortaio grande
il tempo addestra la bambina
alla fatica del pestello.
La gocciolina di sudore
ti rovina
la neve
sulla faccia
scava un solco
buio come una vena
come una cattiva notizia.
Lo so già, mi strapperai
come si strappa un dente
dalla bocca
della tigre
mi strapperai
come si strappa la spina
da un piede
dolente.
Puoi solo portare l'acqua è questo il modo
perché rientri il respiro
nelle squame dei pesci.
Puoi solo portare il pane è questo il modo
perché ritorni la fame
nel becco degli uccelli.
Tu impara dai pesci, impara
dagli uccelli. Impara.
*
Abbiamo deposto il nostro agnello sull'altare
ma l'agnello non era felice
dice il custode che domani il sacerdote
farà cadere la spada
farà tremare la fede
dei santi nelle teche.
Appoggia la fronte sulla fibra povera
la preghiera o è umile o niente.
Lo senti il dolore alle ginocchia? È il tamburello
bello
che fa volare
in alto
la domanda.
Dietro la tenda danza la ballerina monca.
Dentro la veste bianca si consuma il sacrificio della santa.
*
Abbiamo volti
che sono coltelli
avvolti nei fazzoletti.
Abbiamo volti
che sono mattine
dalla braccia lunghe
di agricoltore.
L'amore si solleva è l'elefante
del dare è il vento che trascina
l'incendio delle chiome.
L'amore ci leva
la lana dagli occhi
ci picchietta le mani
per lo scavo dei nidi.
Tu porgi
l'anfora
del corpo
il pezzo di coccio
il prezioso reperto
che s'incaglia nel dente
del rastrello.
È felice
l'arancia del tramonto
quando si stacca
dal suo ramo azzurro
e finisce
nello scrigno
del cappotto
di qualcuno.
*
Come scaglia di sapone
sul liscio di porcellana è scivolata così
la mia rovina
di non amarti più.
Devi fare
voce piccola
se vuoi davvero
che il bambino
impari
a schioccare
la prima sillaba dalle labbra.
Devi fare tu
tutta la luce che ci vuole
la mattina con la bocca cava
e un dente in mano
come un dono strepitoso.
Il mio bene è un portone che geme
chiuso a chiave
nel suo secolo di solitudine.
Tu mi spiani
la neve sugli occhi
mi aggiusti il candore
come si aggiusta
un corpo nella bara
prima del saluto totale.
Tu sei una cosa di qua
così appoggiata
al tempo
e che muore.
La senti
la nota che tuona
nella gola del muto?
Sono io che ti chiamo.
Okay, lo porto altrove
il mio teatro
che non t'ha voluta
la morte solita
che non sai mai
se affligge o se ti libera.
Tu solo
hai l'amore
ovvio
come è ovvio
che esiste Dio.
Tu solo sei
uguale alla tua gioia.
*
Poesia per un congedo
Carena dei fianchi contro carena dei fianchi.
Albero motore del cuore contro albero motore del cuore.
Eliche dei piedi che si inceppano ad intreccio.
Perno della mano che gira nel suo filetto.
Perno dell'altra mano che sgrana per il troppo ardimento.
Marmitta della bocca che sfiata calda sulla spalla.
Mistero del fiore che s'inabissa nell'oro della sua corolla.
Ventre che s'incunea nel cavo della roccia.
Ventre che s'assomiglia nella meraviglia che lo agita.
Filamento di saliva che unisce lingua con lingua.
Balcone degli occhi oltre il quale ti affacci, è mio
il panorama che prolunga
l'orizzonte oltre.
Con un bacio cucio la mia anima alla tua.
Con un bacio ti insegno il mio baricentro, il mio
sangue obbediente e il mio niente
che ti trema nelle orbite come l'acqua di una lacrima.
Sangue della lacerazione, della prima volta.
Corpo che combacia corpo nel pieno
della sua vigilia.
Corpo che si allaga di piacere, rubinetto
rotto "ti amo non voglio lasciarti mai".
Emilio Capaccio - Voce del paesaggio Kolibris, 2016
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Alla mia famiglia
, inizia con una dedica il bel libro di poesie di Emilio Capaccio dal titolo Voce del paesaggio, edito da Kolibris, 2016, e lincipit Ma la vita, la vita, la vita,la vita è possibile soloreinventata (Cecília Meireles) definisce quanta realtà è insita nei versi
della raccolta. Se il poeta è il tramite tra la poesia e il misterioso reale, allora qui troviamo numerosi suggerimenti per lo spirito e per la società
intera. Il discorso, sin dalle prime poesie, si fa tensione: dalla parola emerge la nostra storia e le sue ragioni. Le continue guerre, le uccisioni per
nome di un Dio che non porta nome, i valori decapitati dallopportunismo economico e dai compromessi, sono in rapporto vivo con lanimo dellautore che non
dimentica di sorprendersi e stupire senza esprimere giudizi moralistici, ma, corrispondendo a ciascuna forma di dolore intimo e sociale. Così la voce di
Capaccio si intreccia con quella delle coscienze dellumanità rivendicando il diritto di pace e di amore, opponendosi con forza alla tragicità della
realtà. In verità il profondo monito è rivolto al senso di responsabilità e di colpa divenuto sempre più minimo dentro di noi; ecco perché interviene la
poesia. Il poeta ha necessità di indicare a se stesso la via possibile da percorrere, attraverso il linguaggio, per comprendere lesperienza umana e per
lottare contro di essa al fine di salvarsi dallabbandono, dal fallimento, dalle solitudini. La poesia non viene prima degli accadimenti, ma allinterno di
essi, nellattraversamento dei dubbi e dei contrasti, come possibilità di purificazione, come operazione di salvamento. Bisogna partire dalla creazione,
dallinizio, dalla nascita, per raggiungere linnocenza, la verginità delle cose sensibili e, la prosa, la narrazione degli antefatti, servono
allautore per raggiungere lo stato di contraddizione dei luoghi della volontà, più intimi, procedendo verso i labirinti della verità. Accostarsi alla
realtà della parola consente di essere in più luoghi, in più paesaggi e lì trovare le risposte semplici, le più audaci e irrinunciabili. Sono gli intrecci
delle tradizioni e la prospettiva intellettuale della bellezza a illuminare lautore che si accosta e misura il sublime e il terribile del mondo con
intelligenza e saggezza, unica modalità per sentirsi vivi, consapevoli, pronti nella vita. (rita pacilio)
I nomi di Dio
Quando parlo con te in un perfetto allineamento
di giorni disperati e ti sento frusciare
dietro ogni laterizio di questo secolo
(o forse è il gesto dei tuoi continui disappunti)
«Dio» ti dico
«Il cielo è tornato del colore di quando non ceri!»
Hai tanti nomi, così pieni di spifferi daria
che noi qui ci sentiamo infreddolire
spiattellando storie del Corano e della Bibbia
senza aver imparato a chiamarti
perlomeno con un nome comune.
Però ci vuole coraggio a pronunciare i tuoi nomi:
una pietra potrebbe dire di non sentirsi amare
abbastanza
se fallissi laccento o mi tradisse lironia.
E quando scrivo il tuo nome con la mia Parola
non è lo stesso di quando lo scrivo in pashtō
o in hindi o in curdo.
Ti abbiamo degradato a un dio dei nomi
un dio delle razze, un dio di geopolitica.
Che strane cose luomo è capace di renderti
non solo tu a noi i miracoli!
Così ti domando:
«Con quali dei tuoi nomi hai chiesto a un ragazzo
laggiù
di farsi esplodere davanti a unambasciata?...
o qui a un prete di portare un anello al dito
e il colletto sotto i piedi?»
Non cè niente di tuo in questa grama vistosità!
Solo la nostra intransigenza nel voler credere
che porti un nome e un verbo
per ogni popolo che ti accoglie
O, ma se tutti...
se tutti ti chiamassero Mario!
*******
Su un verso di John Donne
«Ogni morte duomo mi diminuisce»...
perché io sono lape
io sono la formica
io sono il siriano
io sono il parigino.
Non sono il soldato
io sono la tenda
non solo la bomba
io sono lostaggio.
Non sono il lapidante
io sono la donna
non sono laereo
io sono la torre.
Non sono Medea
io sono i figli
non sono la fine
io sono la culla.
*******
La nascita
Una sera i cieli erano acerbi
colori scarlatti di lontananze.
Il luppolo delle nuvole
conferiva agli uccelli
il sentore di una Nascita
che blandamente maturava.
Lingue di metalli e ori crescevano.
Le stelle, una dopo laltra,
si disponevano a rilento
negli spiegamenti delle costellazioni
nei decreti degli oroscopi.
I venti si creavano e si disfacevano
ancora fragili.
Io origliavo, mancante!
Ero come un incantesimo di luce
non ancora pronto per essere svelato.
Il tempo savvantaggiava.
Incuteva le prore e salpava
per unazzurra primavera.
******
La barchetta di malinconie blu
a una donna sola
Laggiù, sulle acque tiepide dellorizzonte
va la tua barchetta di malinconie blu!...
Con il suo carico di amori finiti
nella stiva dorata dei ricordi.
Con il suo carico di giovani mani
che salutano il tempo, bianche e sorridenti.
Con il suo carico di altre vite
che potevano essere e non sono state.
Con il suo carico di sogni lasciati a pendere
sotto lalbero del passato.
E si sente ancora qualche volta con londa
dai legni sonori di quella sagoma di vela
il chiaro vocio degli uomini che ti fecero compagnia
capitani scialbi e generosi, amandoti per un po,
fra incagli di illusioni che non hai districato,
in albe di passioni di frangibili mari.
*******
Amo di te quelle folli, disperate, increspature
che su quei mari hai tratteggiato
le tracce di vita che hai lasciato
le accese correnti che ti hanno portata.
Amo di te quei sentieri nei capelli
fitti e attorcigliati sulla fronte
il giro danni che scolora sul tuo collo
il filo dargento che hai tessuto.
Amo di quella barca il viaggio, la cronaca,
la sua storia, il blu delle dolci malinconie
solitarie, la stramba idea di altre vite
che potevano essere e non sono state.
*******
Una foglia
La pioggia ha sempre un carattere meditativo
quando cade a lacrime sottili
come se il tempo nascosto
sotto finestre appannate
stesse valutando con quali eventi mondani
abbozzare i nuovi giorni
e non trovasse soluzione!
Il traffico rallenta
fa lunghi chilometri di solitudine
e torna a casa.
I corpi non più lucidi perdono lombra
e le cose la loro natura
come se un albero là fuori
fosse meno albero di ieri.
Così anchio rifletto
mentre perdo qualche cosa che non conosco
finché non la perdo del tutto!...
Era una foglia!
*******
Silentium
In questo assiduo tacitare
sono cresciuto
e ho sorriso tanto, dopotutto!...
ho sorriso di un sorriso solitario.
Sono cresciuto e ti dico:
«Non attendo il Tuo parlare!»
Non sia mai tu debba dirmi
non sei come timmaginai.
Vado a rischio
anche in questa estrema illusione
più avventato ora
che i tempi stanno passando
perché per ardere la fiamma
sullultimo cero
deve necessariamente credere
che non può esistere il vento.
*******
Mancanza
A volte, a momenti, nel luogo dove cade
la mancanza
sento la voce delle cose che non sono accadute
più viva della voce delle cose reali.
E lattesa che spendo
senza vedere che si compiono
è una vitale inesistenza
a cui tendo laspirazione e vivo
come fosse il mio corpo
sostanza e desiderio
di tutto quello che mi manca.
E il tangibile delle cose
che filano il succedere del caso
come spina dorsale posticcia ed elementare
mi pesa addosso
in uno spazio di strade e aria.
Sento la vita appropriarsi
dinsopportabile gravità evanescente
ogni giorno passare
con minore appariscenza
indefinendomi nella noia delle cose che ho
avuto.
E tutto quello che ho sognato
tutto quello che non ho amato
in un boato profondo minnomina
con un biasimo incessante
dillibata vita perduta.
Emilio Capaccio è nato a Salerno il 16 maggio del 1976. Si è laureato in Economia e Commercio allUniversità degli Studi del Sannio nella città di Benevento. Vive a
Milano, dove lavora nel settore della sanità pubblica. Alcune poesie sono state inserite in varie antologie pubblicate dalle case editrici: Pagine e
Aletti Editore. Finalista ai concorsi: «I poeti dellAdda 2012», «Il Federiciano 2013» e «Viaggio di Versi III Edizione», a cura della rivista «Poeti e
Poesie». Si è classificato al 2° posto nel concorso letterario nazionale «Il Giardino di Babuk Proust en Italie 2015», promosso dallassociazione
culturale Larecherche.it. Ha pubblicato in formato e-book: Malinconico Oscuro, traduzioni di poeti sudamericani inediti, con prefazione di
Giorgio Mancinelli. Attualmente cura la rubrica Il Poeta del Lunedì sul sito della rivista internazionale di poesia Iris News diretta da Chiara De
Luca.
Image may be NSFW. Clik here to view.Caterina Davinio - Alieni in safari - Robin edizioni 2016 (con testo inglese a fronte a cura di David W. Seaman e 42 fotografie scattate dall'autrice)
Forse in certi luoghi della Terra dovrebbero averci fatto l'abitudine, ormai. L'abitudine cioè a quegli "alieni" di cui parla Caterina Davinio nel suo
ultimo libro. Fotografie e versi, scatti e impressioni poetiche dal mondo esotico frequentato da occidentali che però non sono più Pierre Loti, né Bruce
Chatwin, ma nemmeno (o almeno si illudono di non essere) i turisti charter frustati dal tempo e "pacchettizzati". Alieni perché, come dice l'autrice in una
nota, perché siamo "stranieri senza radici, che amiamo perderci per imparare qualcosa di noi che non sapevamo, atterrati da un'astronave in paesi ignoti",
ma - aggiunge Francesco Muzzioli nella prefazione - "restando inevitabilmente 'intrusi', 'estranei' e 'illegittimi' in un contesto che non ci prevede e che
la vacanza non basta ad approcciare". E allora a che serve il viaggio, magari ritornando negli stessi posti? Io mi fermerei qui, a questa interessante
contraddizione tra il cercare (forse) qualcosa e l'essere intrusi, estranei e illegittimi (forse anche a sé stessi). Se si pensa a questo, forse allora il
viaggio non diventa altro che un transfert dell'immaginazione, un vedere il mondo come lo si immagina che sia, anche magari dal punto di vista di una"cultura" di cui ci si è imbevuti; oppure un "divertimento" nell'etimo del termine, cioè un deviare dal percorso usuale, e allora, alla fin fine, ti viene
il sospetto che equivalga a un "voyage autour de ma chambre", cioè a vedere il tuo mondo da un'altra prospettiva, cercare di vedere te stesso meno alieno di quel che ti senti.
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Io credo che nel libro di Caterina ci sia anche questa consapevolezza, a conti fatti, di una impossibilità, in un mondo globale, di delocalizzare la
propria identità, di spostare i problemi, di essere diversi da quello che siamo (e del resto Caterina dice ne La mia nascita: "Fin da allora fui
io" e "Dove fui sarò"). L'"altrove" è ovunque e l'"altro", rimbaudiano che sia o meno (cosa più probabile), è sempre più uguale a noi. Il pittoresco
locale porta i Ray Ban, il leghista nonsiammicarazzisti e aiutarlincasaloro te lo ritrovi in Kenya. Viene meno il mondo diverso,"innocente" e parallelo della cultura alternativa, rimane un sentimento profondo, forse un po' melanconico e nostalgico, rimane il conforto prezioso della
vastità della natura, dell'oceano, del mondo che puoi ancora contemplare popolandolo di pensieri, di dei benevoli e laici, di poesia. O anche un mondo
visto dal di fuori, dall'alto, come farebbe appunto un alieno a bordo di un'astronave, ma non in arrivo bensì che si sta allontanando dopo una fuga
precipitosa da una catastrofe, come avviene in testi come Il pianeta o L'Italia vista dallo spazio. Caterina è brava a rendere questi
sentimenti basici, fondamentali. O quelli di un ritorno, forse non meno "alienato", a casa, ai luoghi natii, alle città nostrane (Roma, Lecco, Heidelberg,
Novoli in Sicilia), luoghi dell'affetto e della decantazione di un percorso ellittico che poi, in finale, riporta irresistibilmente alle spiagge di Goa e
Bombay, come riflessi abbaglianti di una vita precedente. Come pure è brava ad accendere autentiche visioni del cosmo come nella rutilanteUna finestra e una storia infinita o a rinnovare affettuosamente cadenze beat venate di divertenti echi futuristi e palazzeschiani come in Goa (Goa trance).
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Certo Caterina non è come scrittrice un "viaggiatore immobile" o "sedentario", come diceva X. De Maistre, tanto che sono dell'idea che dovrebbe essere
letta in contesto, come un unico libro o diversi libri uno accanto all'altro, trasversalmente o parallelamente, poiché la sua scrittura tende ad essere
così legata all'esperienza diretta (quindi poco simbolica, poco metaforica in senso stretto) che in realtà ha scritto e sta scrivendo un unico libro, nel
quale da una parte si parla d'amore, dall'altra di malattia dell'anima e di esperienze estreme, dall'altra ancora di attraversamenti e riattraversamenti di
confini alla ricerca di chissà cosa o di sé stessa (v. anche, per assonanze e consonanze, Aspettando la fine del mondo, QUI). Ma mi pare che ci sia una patente pacificazione in questa poesia, un appeasement anche
generazionale, un segno della variazione dei tempi e di un clima complessivo o anche di una realizzazione se vogliamo. E' naturale che sia così, direi. La
lontananza dalle lacerazioni drammatiche e coraggiose di libri come Il libro dell'oppio (v. QUI) o anche
come Fenomenologie seriali (v. QUI), è
evidente. Là lo sguardo e la scrittura erano rovesciati in un incolmabile vaso interiore, qui c'è uno sguardo meno affamato, spesso lirico/malinconico, a
volte contemplativo e libero da inquietudini, espresso in testi anche molto belli (v. ad es. qui sotto titolo), uno sguardo rivolto ad un orizzonte lontano
sull'oceano, come se gli alieni in fondo avessero visto quasi tutto quello che c'era da vedere, prendendo coscienza di sé non tanto come soggetti di una
sociologia del turismo, quanto come uomini e donne che, a Goa come sul balcone di casa, devono alla fine fare i conti col tempo ("Oggi che il
tempo / ha reso sagge le membra ma non la pietà"). Ma da Caterina c'è da aspettarsi di tutto. Per fortuna. (g. cerrai).
da AI VENTI DELL'EQUATORE
Goa (Goa Trance)
Festa al centro del mondo-fiore tuttointorno a cerchio universo e le stelle.
La piccola figlia vesticolore profilata sul lungoceano nell'onda che batte la riva come una lingua (slap slaap) ispirata da precettori dei a ginniche destrezze d'eros e fluttuante in etilica trance di chiara pelle discinta prosciolta si snoda su per il cosmo - in agguato il nulla dietro forme tremanti - svincolata estesa e di sottile caviglia fragile e azzurra lì dove il mare risucchia sabbia preziosa scritta per la penna di un dio da un dio più mansueto che slitta rasente terra alle caviglie negre scansioni di tempo.
Ritmi e timbri crogiuoli cimbalìi gorgògli ribòlli elettrònici in ellittica fusione schizzi e spruzzi di maremoto emateriaelettronica-a-sprazzi tecno-sciacquìo di cimbèrli rìtmici agàin e sciabordìo rollìo crepitìo e stridobàttito stridobattìo scalpìccio-e-muvemènt-o lento-Tramest-st-st -stìo strèpito-sciacquìo sciacquàio e sciac-conquàsso strobotuòni et eterni ritorni dinamici martellocosmico-cacatapùlta onirica oscillazione psiche-edelica tumb-ciuf sdrang ciulf-fìu rolllliìo trillo vibròtromo bassocontinuo ossexionato e via, su astronavi siderali, fino all'a-pice, alla punta del cosmico disordine della stellare anarchia dell'universale eccezione della totale celeste s-freccia scoccata su in alto, più de-lospaziocelèste de la volta di psycotronìe che sciaborda (splic-splock) come catino pieno rubinetto ubriaco (plock, plo-plockk...) sintonizzzz-zzzz-zzscrscrrshhhzz -arsi sul canale scrzzz del rivo corrosivo d'energia spiovìggia-vìa scorre liquida disciòlta trasmigrando paese e corpo la vigorosa svolta angolocàmbio-auménto curva sterzata giro dis-viràta dis-ancoràta dis-ancòra-ménto decollo (atleti del caos)
Goa!-Festa! al cuore del mondo-fiore tuttointornoacerchio l'universo e le stelle. ***Infinito***
Calcutta
e brulichio festoso di biciclette, di stracci ossa nude e occhi raggianti di vecchi santi divertiti dalla diversità nostra, barocci e sorrisi pazienti di madonne dal velo policromo screziato tra banchi di frutta e scranni di colore, carri cigolanti e marci chiodi ritorti;
rotolò nelle cose animate e in quelle inerti con il suo fuoco il grande uno.
Stracciandoci tutta l'anima bianca, quell'animella da niente desiderosa di stare al mondo, di rallegrarsi al senso di una lunghissima fine, in quella capitale d'impero squassata da un madore rosa da pensieri rosa da un infinito sudiciume rosa dall'infinito tutto rosa.
Mercato dei fiori (Calcutta)
Non so dirti le onde, marosi avviluppanti di scapole schiene turbanti gomiti zigomi e fiori; non so dirti gli stracci le corde le traiettorie le tettoie e le scimmie, e non so l'odore marcescente e il riflesso iridescente il colore lancinante l'arancio e il giallo e la calca la forza e il caldo la fatica e l'allegrezza delle lunghe foglie d'immensi fagotti in precario equilibrio su teste vaganti in moto perpetuo, e dei fiori. Quintali di fiori corolle e ghirlande stracci e ghirlande sorrisi e ghirlande ricami e ghirlande da perdersi, pezzetti di cielo tra baracche e corolle cumuli di corolle strati e piramidi di corolle aulenti, possenti onnipresenti esalanti; e non so dirti la mia lunga fuga, la mischia i rigagnoli e il fango, inciampando nella verzura multicolore scandalosa e urlante.
L'Africa sognata dal Brasile
L'Africa sulla costa lontana annuì con il collo delle giraffe oltre le onde selvagge spumose d'Atlantico conturbanti agitatoci oltre la sabbia d'oro e vetro e falesie a picco sulla rabbia del mare in successione infinita, troppo grandi per abbracciarle. L'Africa attende silente colma di profumi e coloratissime vesti, immaginazione e nausee, danze tribali e monili saltanti su neri décolletés come il colore vivo del buio quando brilla sulla notte lucente.
Alieni in safari
La savana Si sfilaccia Ai lati, Sfrecciamo Nella terra di altri. Intrusi, Estranei, Illegittimi Ladri di vento E di erbacce, Furfanti Ingordi Di nuvoloni bianchi Sull'azzurro Più intenso, Della terra grassa Di zolla fangosa Sull'orlo di pozzanghere Come spicchi di cielo Caduti, Di polvere rodente Sulle palpebre, Calpestata Da orme inquiete Di predatori, Dal lungo solco concavo Del serpente, E penetriamo avidi Lo stagno D'ippopotami sdegnosi L'acqua rosa E il cielo rosa E il verde rosa, Quasi rosa, L'aquila attenta E il babbuino rissoso, Un bufalo accaldato E la famiglia del cinghiale Che s'infratta nella boscaglia. Noi, rapitori immorali Degli occhi dolci dell'elefantessa Sinuosi E schivi Come le ragazze Del luogo.
Essi, costoro, noi, Intendi? Di nuovo lì, in pista, e il crepitio Dell'obiettivo; Venivamo in parecchi E non ne potevate Dei sorrisi, E dell'amor Sconsiderato, Delle grosse ruote Che vi ferivano la terra, Squassavano le zolle grasse, Vi mettevano in fuga le prede, Di noi gesticolatori In lingua aliena e fuori posto Festosi Con gli inutili giocattoli Dalle bizzarre forme: Pneumatici, Cerchioni, Camionetta, Binocolo, Obiettivo-cannone E radio frusciante, Cose di ferro Che non odorano di buono, Che valevano una capanna Un ettaro, un fiume; Corteggiatori poco attenti Ardenti di provetto Amore, Non vi concedemmo tuttavia Di scampare il Maniaco attaccamento E, nell'intervallo di un click, Subito guizzammo via Come demoni Invasati di caccia, Per l'universo Di nascoste voci, Tutto intorno per l'azzurro Delle lontananze.
Una finestra e una storia infinita (Ai venti dell'Equatore)
Su te non scriverò una poesia: le striature rosa mi sorpresero dopo un notte estesa, stremante; le ginocchia molli, il cappotto come una vela, lì dove l'aria volteggiò docile, dentro cui s'infilò la latitudine come l'abbraccio di un amante giovane.
Soperchiando dirompeva il sonno, umoriva il corpo di ore, segregazione, legami e chiusi le tende per non vedere l'alba.
Ma d'improvviso, lacerando, s'aprì.
E vidi quel roteare di meccanismi invisibili che emanano il vento. Mulinavano palme sul rosa della creazione e l'oceano disse: guardami; e membra esauste risposero: muoio.
La mente arresa come uno specchio concavo, ospitale e riflettente
(io non ho reverenza, amo quando l'effimero mi cattura con tutti i sensi e sono ingegnosa di delizie fuggenti di amari paradisi, di tempo perduto, di buio, di ciò che si vende e si compra: io non credo nella felicità).
Eppure ricevetti in dono un istante di rosa;
non disse, farneticante, segreti ultimi, non m'inginocchiai.
Solo bellezza, quel mostro violento senza nume mi abbracciò con riflessi argentei senza pace, col giorno, rialzandomi come una frusta;
fu la striatura tra le palme cui giunsi fuggendo dall'inverno come un naufrago come un uccello come un povero diavolo.
Ecco, potrei storie infinite dalla stanza sola ove attendo messaggi dal cosmo, da scrutatori dei, e guardo fuori dallo spiraglio tra i venti, e nulla mai disse dio di più imperativo della propria non necessità: il rosa fiammeggiante e il tuono sulla scogliera, l'incessante propulsore in movimento, le pale d'aria rotanti ferivano l'eternità.
E se la voluttà ha un nome, se la malattia della felicità ha un nome, se mai natura ebbe per noi una carezza e mai fummo acqua nell'acqua, pesci, onda delirata nell'onda, se mai fummo vita, amebe e plancton, alghe e microrganismi industriosi, se mai fummo scienza e venature lattiginose primordiali, se mai fummo uomini, lo seppi, la potenza di un meccanismo di venti e la fatica di restare svegli.
Sguazzante come un girino nello stagno, come la ninfea sullo specchio dell'acqua, come una mosca felice, come l'universo intero, richiusi allora la tenda.
Cos'era l'universo io non oso, cosa d'ignoto, lo ignoro: sono molecola sensitiva dotata di artigli e so di un poeta che muore, so che bellezza gli incrina il cuore stanco, so di un poeta di fronte all'alba straziata dalla luce e chiedo pietà d'una parola degna della vita che mi prende, che mi perse,
quando il tempo sta racchiuso tutto nell'istante, ci dice il suo uragano segreto e io lo accolgo, paziente e spaurita.
da LUCE DALL'INFERNO
Beach Boys (Kenya)
Mi chiedesti qualcosa Due scellini Ti furono pochi E fummo amici. Eri esperto Della cerca subdola E fosti consumato avventuriero Di passeggiate su coralli puntuti Attento conoscitore D'italiche showgirl E portavi in tasca Il tuo granchio Dalla lunga chela Per mostralo al turista Inflaccidito E pallido Sofferente e trafitto Dal sole assassino E dall'aguzza barriera madreperla. Egli, il buana, si congedò regalandoti Scellini e vacanziera Promiscuità, immemore E smemorato Del campanile Subalpino e pascolare Ove difese l'usanza avita I simboli e il focolare Chiamandoti straniero Nonsiammicarazzìsti Padronincasanostra (egli - la sua di lui - onde il vappensiero) E aiutarlincasaloro In quelli remoti lidi Donde il vento mendico li sospinge Verso la patria (nostra) Bella e confusa.
E tu ti congedasti Da professionista Cerimonioso della questua Sulla spiaggia diamantina Promettesti cacce Manufatti, circumnavigazioni mitiche Tesori e pesche magiche. Sotto la visiera, Il brillio dei Rayban.
Kathmandu
Monti come un ventaglio di lance e mondi dall'aria delicata che porta intorno a noi commossi spiriti un alito immateriale illusioni d'aria e indefinita santità. Così veleggiamo, colti all'improvviso dalla meraviglia, lievi sulla strada di terra battuta, lievi come passi divenuti celesti, come il nostro soffio vitale liberato dalle forme; e pregammo a mani giunte ognuno a suo modo, col sorriso e con il pensiero, con la corsa e il lento andare, con la carezza onorammo gli dei, con la stretta di mano e il ricordo; un umile segreto ci raccoglieva intorno come amico fraterno e noi fummo accoglienti verso la muta nostra evanescenza, rarefazione, pieni di luce.
Lecco
La notte scende lentamente Un'auto ogni tanto E così pago il mio tempo Nella piccola città silenziosa Dove la perfezione Ha il sapore del momento Dove ho odiato E non posso odiare Dove la parola non può Oltre il suo ufficio La materia della vita si dispiega Raggiante e compiuta Come ogni disegno Ogni pietra Ogni cosa Il pino E la casa laggiù La nuvola e la montagna rosa nel sole La voce di ubriachi in strada E il silenzio di Dio.
Heidelberg
Udimmo potenti carmina La musica vibrò nobile Sul largo parquet Mentre neve sui rami, Stalattiti di luce; Pregammo come neri monaci Nella neve Lunghe file di oranti medioevali E l'incanto del gelo mirabile Orchestravano una sublime ouverture, Solenne Germania. Tu mi dicesti dai rami intirizziti Che nascondevano gemme e i fiori Le novelle di Hoffmann I lievi orrori Il patto di Faust E il preludio del Lohengrin Le dita magre di un demone romantico Sulla tastiera del pianoforte Le campane della torre Il sognatore cinerino Tra i tetti spioventi raccolti.
Nulla accolse l'anima mia inesperta Di più ineffabile dei violini senza fine Dei tuoi castelli severi, Degli inflessibili assalti del tuo lungo inverno.
Alcune versioni di Mario Fresa da Apollinaire, contenute in un libriccino edito con cura Image may be NSFW. Clik here to view.da L'Arca Felice (Salerno, 2016) con disegni di Massimo Dagnino. Qui come in altre occasioni Mario è traduttore inventore o ri-creatore, sempre alla ricerca di un giusto mezzo (ma sempre con l'azzardo dell'invenzione) tra metro e senso, tra rima e lima, tra barocco e dodecafonia, ma sempre mosso da una specie di innamoramento di partenza verso l'autore che traduce. L'ironia divertita (che è quella un po' beffarda ma critica del lettore smaliziato) è indispensabile per Mario, basta leggere le sue versioni di Marziale, belle ed esilaranti (v. QUI), per rendersene conto, come pure le sue "imitazioni" di/da Catullo (ma più che di imitazioni si tratta, come ha scritto Giorgio Linguaglossa, di "un lavoro intenso di attraversamento dei testi del passato" - v. QUI). Forse i puristi della traduzione, soprattutto i sostenitori della "fedeltà", potranno non condividere le sue scelte, ma a me sembra evidente in queste versioni l'adesione allo spirito sia del testo sia dell'autore, che ben traspare senza che vi sia, in questo senso, alcuna vera "loss in translation", nemmeno quando si tratta di passare dal calligramma al verso lineare, come in Piove. In altre parole e per quanto possa apparire pleonastico, in italiano Apollinaire qui è proprio Apollinaire, così come lo sono stati Marziale e sotto altri aspetti Catullo, soprattutto perchè Fresa vi immette (e ammette) una "simpatia" (sympatheia) nei loro confronti. Non credo viceversa che, come qualche commento ha asserito, si tratti di attualizzazione o rammodernamento in senso stretto. Mi pare, e per me questo è importante, che sia un atto creativo (postmodernista o no qui non ci interessa) che fa appello a una cultura assimilata e la rimette in un gioco consapevole, divertito o serio che sia, che finisce per amplificarne il senso. (g.c.)
Costellazione
Sono nato sotto il segno dell'Autunno Per questo mi piacciono i frutti perciò mi disgustano i fiori I baci che ho donato io li rimpiango tutti Come un noce bacchiato sussurra i suoi dolori al vento
Oh mio Autunno perenne oh stagione della mia mente Mani di antiche amanti cospargono il tuo suolo Una sposa mi segue ed è l'ombra mia fatale Le colombe stasera spiccano il loro ultimo volo
La bianca neve
Ah, gli angeli in cielo, là in alto, là fuori! Uno è vestito da brigadiere L'altro è vestito da cuciniere E gli altri, quel gruppo, son tutti tenori
O bell'ufficiale, color dell'azzurro! La primavera, adesso, dopo quel lungo inverno Sai che bella medaglia di sole ti assegnerà Ma sì, te la darà
Il cuciniere spiuma le oche E che neve che cade: e cade, la neve, Ricade: né v'è La mia bella, qui adesso, con me!
Piove
Piovono voci di donne come se fossero morte perfino nel ricordo
Piovete anche voi meravigliosi incontri della mia vita, o goccioline!
E quelle nuvole impennate già iniziano a nitrire un universo intero [di città auricolari
Senti se piove mentre il rimpianto e lo sdegno piangono insieme una [musica antica
Ascolta cadere i legami che ti tengono su, che ti tengono giù
Metamorfosi
Una donna che singhiozzava Eh! Uh! Ah! I soldati che passavano Eh! Uh! Ah! Un custode di chiusa che pescava Eh! Uh! Ah! Le trincee che biancheggiavano Eh! Uh! Ah! Granate che scoreggiavano Eh! Uh! Ah! Fiammiferi che non si accendevano E tutto E' così tanto cambiato In me Tutto Salvo il mio amore Eh! Uh! Ah!
Aggiungo qui, per chiunque ne fosse curioso, i testi originali:
Signe
Je suis soumis au Chef du Signe de l'Automne Partant j'aime les fruits je déteste les fleurs Je regrette chacun des baisers que je donne Tel un noyer gaulé dit au vent ses douleurs
Mon Automne éternelle ô ma saison mentale Les mains des amantes d'antan jonchent ton sol Une épouse me suit c'est mon ombre fatale Les colombes ce soir prennent leur dernier vol
La blanche neige
Les anges les anges dans le ciel Lun est vêtu en officier Lun est vêtu en cuisinier Et les autres chantent
Bel officier couleur du ciel Le doux printemps longtemps après Noël Te médaillera dun beau soleil Dun beau soleil
Le cuisinier plume les oies Ah! tombe neige Tombe et que nai-je Ma bien-aimée entre mes bras
Une femme qui pleurait Eh ! Oh ! Ha ! Des soldats qui passaient Eh ! Oh ! Ha ! Un éclusier qui pêchait Eh ! Oh ! Ha ! Les tranchées qui blanchissaient Eh ! Oh ! Ha ! Des obus qui pétaient Eh ! Oh ! Ha ! Des allumettes qui ne prenaient pas Et tout A tant changé En moi Tout Sauf mon Amour Eh ! Oh ! Ha !
Image may be NSFW. Clik here to view.Antonio Bux - Kevlar Società Editrice Fiorentina, 2016
La raccolta poetica Kevlar di Antonio Bux, divisa in due sezioni: Capitanata e altre poesie e Loppio di Barba, ci rimanda
immediatamente alla musicalità, al suono di un controcanto tra luogo e significato, tra disposizione strofica e ricongiunzione de la chose envolée
spostando continuamente il baricentro dalla dottrina ontologica e purgatoriale del mondo ai luoghi fisici e metafisici della coscienza.
Musicalità, struttura e spazio (la musique avant toute chose, la musica prima di ogni altra cosa, Verlaine) concedono il suono del senso, o il
senso del suono in cui significante e significato sono in continua corrispondenza come compito primario e necessario del poeta. Attraverso luso
consapevole della metafora, a volte drammatica e sigillata nella sua misteriosa propaggine, si realizza latto creativo in cui terrestre e immaginazione
offrono un tono privilegiato allosservazione/celebrazione del reale. La sensibilità dellautore non si esprime sic et simpliciter per se
stesso, ma a nome di tutti gli altri che sono esseri pensanti e viventi nel mondo. Dunque, lio lirico, la voce parlante di Valéry, supera la
consuetudine del linguaggio abitudinario: non un individualismo per fervore creativo, ma unacutezza di ingegnosa creatività che porta lindividuo-poeta a
fondersi indissolubilmente con lumanità intera. Cè, dunque, una chiara e dinamica consapevolezza della prevaricazione degli oggetti sulle creature, quasi
ad accostarsi alla corrente poetica del realismo terminale di Guido Oldani. A tratti la versificazione, mai scontata o abusata, ci persuade,
infatti, a concepire luomo singolo succube della vicenda cosmica del consumismo (materiale e intellettuale) venendone sopraffatto, inibito. Il simbolismo,
come mezzo poetico, stabilisce un rapporto intimo e conciliante con la quotidianità creando una esperienza sensitiva e onirica come maniera di generare,
riscrivere in abbondanza i tratti della modernità. Tempo (tempo tra composizione e ispirazione; tempo che smentisce la staticità delle cose e la continuità
degli accadimenti), spazio (viaggi e spostamenti geografici tra la Catalogna e la Puglia e il luogo intimo della poesia, il suo paesaggio), vita (coscienza
del sé e ruolo immaginario, interiore, incontro/scontro con il quotidiano), morte (i dialoghi con i poeti defunti e la resistenza alla fine grazie
allallegoria del kevlar), memoria (ricordi e sedimentazioni scrupolose della forma) rimangono le tematiche portanti della scrittura di Antonio Bux che
sfida con audacia le forme nuove di espressione provocando la piacevole polemica tra etica ed estetica, tra premeditazione e dignità poetica. (Rita Pacilio)
dalla prima sezione Capitanata e altre poesie
Ricordo centrale (Marina di Lesina)
Nella tua ombra passa la mano il bambino. Passa la mano come un adulto finito. Ma la tua ombra vive il miracolo, se sei tu bambino a rompere il giorno come ogni volta se torni a scalare la tua infanzia o se è vecchio perdono un crescere cieco distrugge noi vivi.
Presso un lido qualunque lì sulla spiaggia distrutta Marina di Lesina pareva una nube. I tuoi occhi erano la spiaggia. Nella spiaggia vi erano persone distanti e bambini giocavano sul molo aspettando il ritorno in superficie della biscia. La biscia erano i tuoi capelli. Così i tuoi capelli nel lago di Lesina, sulla spiaggia arsa di bimbi e di magie nei voli di aironi stanchi. E le mie gambe sottili anguille, e le braccia ranocchie. Eravamo piccini, diventati granelli. Poi ti ho vista rinascere battigia adulta nel boschetto anni dopo quercia a metà dun polmone di vento. Eri diventata dellaria, di tutto il silenzio. E io tornato a quel lido, spiaggia qualunque.
Vico del Gargano
Noi che disabitiamo i paesi, ignoriamo la stirpe del borgo una volta valicati, lintralcio salatissimo. La sottospecie vivente mai umana, è lavviso: i muri sintetici il nostro sonoro, di branchi e di grigi ascoltati allunisono. Non è uneco sostenibile. In paesi come Vico, dove il bianco è del sole, nasce ogni ora una luce palindroma. E nessuno più è vivo. Qualcosa daldilà respinge. Ma la cinta antica dei morti, costringe a restarci.
Uno sparo ha cambiato la corrente. Non è stato il bosco ma il silenzio scordato dei passi. Così il ranocchio ha sentito laria girare, ed è impazzito. E così tutti, insieme pazzi: la formica più piccola della cava e il fagiano cacciato dal lago e dallultimo cielo e il pipistrello squilibrato nelle onde e poi la volpe e poi il bradipo e poi il serpente rimasto alle squame. Ma una profondità di campo non fa laria, solo giova alla rosa, imputridendo. Eppure, nato il verme, comincia la raccolta. Nato il verme è la pace. Ma uno sparo sconfigge laria e la rosa col verme impazzisce dal botto. Però ora la sera non spara. Ora è severo divieto sparare. A meno che da un rumore invisibile nasca un nuovo cecchino. Forse luomo, sbagliando bersaglio.
Dialoghi con Rio (prima parte)
Vedi, Rio, il peschereccio è sdraiato sul mare. In bilico, con la fune a torcicollo. Siamo chiusi come quello. Dalla luce dellacqua filtra una murena muovendosi fa venire fitte alla visione. Cè odore di cancrena, arriva dal rivolo di un rovo spento. Passiamo ore al mattino, negli occhi diradando sulla battigia come vuoti, alghe fetali. Tu non sai di essere finito ed io non so la fine come arrivi se da un profondo mal di schiena o da un sorriso avvolto nel piombo. So che farà male, che sarà come fumarsi una stagnola, tradendo gli altri cresciuti a pasticche. Dentro il mare barcheggia il rifiuto, la storia svanita e altri stupidi esseri facendosi a gara, ma non si salverà il porto, solo una riva. Rio, tutta questa fatica, lo sguardo incagliato alle navi, è per una sponda. È per una sponda morta, che si erode.
Dalla seconda sezione "L'oppio di Barna"
La Pedrera
Oggi è il palmo grezzo, con il mortaio a coprire la calce. Tempo fa avevano smesso, cerano due mani a tagliare, non solo foglie di cedro, ma viti e ramagli. Tra tre inverni torneranno. Come di neve, quando il tempo è la luce del mostro.
Era seduto con me Gabriel Ferrater accanto un cordone di imbecilli. Erano per lo più americani, oh yeah, pronti a gettarsi di sotto dal cornicetto della Pedrera. Io non ero tra questi, ero più morto, mentre laltro, Gabriel, spingeva laria davanti a sé e ripeteva: non voglio puzzare di città, no quiero oler a ciudad. Andò giù. Gli imbecilli presero a piangere, tornarono scheletri. Io pensai allaria spinta in avanti, a me e al mio odore italiano. Me ne andai. Le mura sono laltro specchio, una cecità più sotto, demolita.
Casa Batlló
a Pere Gimferrer
Vorrei volare nel ricordo di quando ero felice ed essere felice di non ricordare
se non so volare ma solo ho fastidio dei molti esseri che mi sorvolano senza di me che non so vivere alto
come loro perché vedo corto in me attaccato dai troppi ricordi che non mi fanno felice volando.
Pere Gimferrer non lho mai visto, però mi ha detto una volta che Casa Batlló non esiste. È un'immagine di rose cadute, un giardino tradito. Gli risposi che da qui laria è una vertigine misteriosa, soggiorna e fa luce più sotto. E questa casa, casa morta, volta a un emisfero di crani rimedia il paesaggio come un gatto miracolato. La mia risposta non gli piacque, e scomparve dietro la mia giacca. Però ho tradotto cinque poesie di Gimferrer. Una proprio davanti a questa casa. Ne ricordo ancora la chiusa: Al vertice dellaria vivrà laria, nel cerchio a cupole del vento.
Antonio Bux
(Foggia, 1982) vive tra la Spagna e lItalia. Suoi lavori e recensioni sono apparsi in numerose antologie (tra le quali: InVerse 2014/15 - Italian poets intranslation; a cura di Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, Roma, John Cabot
University Press, 2015) e sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali (come Corriere della sera e LUnita) oltre che in diverse riviste
(tra le quali Poesia, Italian Poetry Review, La manzana poetica) e lit-blog (come Nazione Indiana, Poesia 2.0, Vallejo&Co.) sia nazionali che
internazionali, dato che molti suoi testi sono stati tradotti in varie lingue. Ha curato la traduzione del libro Finestre su nessuna parte (Roma,
Gattomerlino Superstripes, 2015) dellautore spagnolo Javier Vicedo Alos, oltre che la traduzione di testi scelti di numerosi autori, tra i quali Leopoldo
Maria Panero e Julio Cortazar. Ha pubblicato vari libri (Disgrafie [poesie 2000-2007]; Trilogia dellozero; Turritopsis
; 23 [fragmentos de alguien]; Sistemi didisordine quotidiano; Un luogo neutrale; Sativi; El hombrecomido), due dei quali, scritti direttamente in spagnolo, sono usciti in Argentina. E risultato finalista e vincitore di alcuni premi, tra i quali
il premio Iris di Firenze, il premio Minturnae, il premio Lorenzo Montano e il premio Piero Alinari 2014. Dirige, per le Marco Saya Edizioni di Milano,
la collana Sottotraccia, e cura il blog Disgrafie (antoniobux.wordpress.com).
Su "Trasversale", il blog/rivista di Rosa Pierno, alcuni miei inediti tratti da una raccoltaImage may be NSFW. Clik here to view. dal titolo provvisorio di "Luoghi scarsamente popolati", con una acuta e articolata nota critica di Mario Fresa. Ringrazio di cuore Mario e Rosa Pierno per l'attenzione e l'ospitalità.
Ritrarsi e narrare di Mario Fresa
Cè il senso di unobliqua alterità e la sensibile eco di una lucida, raffinata sprezzatura in questi nuovi testi poetici di Giacomo Cerrai: essi appaiono immersi in unatmosfera tutta brumosa e anfibia, nella quale gareggiano, alternandosi o convivendo, unattitudine alla descrizione pura degli eventi e una prospettiva divagante ed enimmatica, tesa al nascondimento e allelusione del soggetto che pazientemente registra lo schiudersi della realtà osservata. La narrazione-descrizione si fa essa stessa, allora, straniante e sospesa, nel segno di una continua trasfigurazione, misteriosa e mercuriale, di colui che guarda e di ciò che è guardato: una trasfigurazione nella quale, tuttavia, lepicentro dellosservazione digrada a poco a poco, e poi sfugge e si ritrae, infine moltiplicandosi e disperdendosi in una dimensione plurima, fitta di specchi e di rifrangenze che spingono locchio ad avanzare con movimenti liquidi e ingannevoli. (continua a leggere QUI)
Image may be NSFW. Clik here to view.Claudio Salvi - Album - Arcipelago Itaca, 2016
Un libro, questo qui di Claudio Salvi, che insieme coinvolge (anche a
livello concettuale) e un po' perplime. Il che è molto di più di quanto
si possa dire di tanta poesia, cioè sostanzialmente un successo. Questa
estrema sintesi (e vengo a spiegarmi) si ritrova in parte in quanto
scrive Giulio Mozzi nella postfazione, che poi vedremo. Intanto il
titolo, Album. Album di che cosa? Mi pare che sia
contemporaneamente di foto, nel senso di immagini, scatti, attimi o
inquadrature non sequenziali raccolte con un medium (in questo caso la scrittura); e di schizzi, ciò che gli inglesi chiamano sketches, appunti lineari di una realtà che c'è, e in un dato momento appare pur non essendo evocata, e che viene registrata a futura memoria, cioè per spostare a dopo la
realizzazione di qualcosa. L'idea della foto è presente anche
esplicitamente, essendo citata nei testi, con i suoi correlativi, almeno
una ventina di volte. Come pure è presente un concetto, forse meno
esplicito, di inquadratura brevissima, veloce, poco più di un frame,
all'interno del quale l'autore è spesso mimetizzato. La brevità, in
parecchi dei testi (non tutti), è infatti uno di tratti salienti, direi
stilistici, e io credo che lo sia in relazione a quanto abbiamo appena
detto, ma anche a una convinzione dell'autore che mi pare di
intravedere, ovvero che la realtà sia afferrabile per lampi fenomenici,
presenze, leggi del caso, qui e ora di pura combinazione. In
questo senso mi pare che gli schizzi di cui parlavo possano essere
l'espressione - anche - di una speranza, di afferrare il lampo
(fotografico?) ora per capirlo dopo. Che poi la speranza si dimostri
vana o accantonata o volutamente rimossa, questo è un altro discorso. Lo
sguardo è qui essenziale e funzionale, ma è una risorsa che potremmo
definire non strumentale, accessoria, uno sguardo che non ritorna veramente indietro. Un rivolgere lo sguardo, un gesto di
indicare, dice Mozzi. E' la presenza ontologica dell'autore,
l'essere-nel-mondo di uno che c'è e scrive, un esserci tuttavia non
proprio impersonale, non solo perché a volte dice "io", ma anche perché,
se proprio vogliamo fare i pignoli e parlando per metafore, cerca di
assumere in sé tutte le categorie barthesiane, facendo la parte di operator (chi "scatta"), di spectator (chi guarda) e di spectrum (il
soggetto, anche se di riflesso, anche quando fa finta di non esserci,
aleggia). Quindi, in un certo senso, tutto fagocitando. Se la prima
sezione è intitolata Album come il libro, la seconda, diciannove testi brevissimi che direi - come forma - sono prosa in prosa, si chiama Polaroid. Continua la metafora fotografica, ancora la messa a fuoco one shot (tentata, fallita, o ininfluente), ancora l'idea di una realtà colta sul fatto, senza
prima né dopo e quindi senza prodromi né conseguenze. Non un diario,
come Warhol amava definire la sua Polaroid, poiché in effetti in molti
casi non c'è niente di esistenziale da registrare, questi schizzi non
sono studi preparatori di alcunché. Non dissimile la sezione Sogno,
tredici frammenti anch'essi in prosa di due tre righe, anch'essi quindi
brevi ma costipati di cose, di microeventi o microazioni. Già, azioni.
Perché, a ben vedere, non di rado il fotogramma si dilata, slitta,
appare "mosso" da un movimento rattratto a cui concorre anche l'uso dei
tempi verbali (presente, imperfetto, passato prossimo), come avviene in
questo testo (completo), che assomiglia anche molto (cosa interessante)
ad un appunto di sceneggiatura:
ci sono delle persone con gli ombrelli. un uomo correva.
allora è cominciato a piovere, ma non lo vedo. è diventato più freddo.
oppure come in questo altro testo, tratto da Album:
il venditore di cocomeri si è fermato sotto la casa della ragazza.
le tremano le mani quando lui le consegna il resto.
Nell'ultima sezione, Altri scritti, l'atteggiamento è invece
ancor più prosastico, con anche al suo interno alcune affermazioni che
potremmo definire di poetica o visione del fare poesia col mondo,
le immagini che presento non hanno niente di umano. a me piace
guardare un buco per la forma che ha, non per quello che di umano porta.
come pure, più avanti,
in fondo non si fa altro che ripetere quello che cè. le cose
cambiano però quando qualcuno mette la copia in mezzo a un numero di
originali tra cui non si può distinguere.
atteggiamento che più si avvicina alla sensazione che registra
Giulio Mozzi nello scritto conclusivo e cioè che "leggendo i testi di
Salvi [ci si abitua] a uno sguardo che è insieme molto assertivo (la
forma del buco!) e per niente assertivo". Sul dibattito, a volte fondato
a volte specioso, tra poesia assertiva e non assertiva il discorso è
tutto aperto e qui lo lasciamo perdere. Ma la cosa è interessante,
senza dubbio. Mi diverte pensare (e questo certo fa parte del fascino
del libro) che Salvi scrivendo avesse in mente Duchamp che per
vent'anni ha lavorato a costruire un buco, la sua opera segreta (Étant donnés: 1. La chute d'eau, 2. Le gaz d'éclairage),
una porta massiccia con uno o due pertugi da cui si può gettare lo
sguardo su una rappresentazione misteriosa. Certo, magari in sottofondo
c'è Benjamin (la copia in mezzo agli originali) o ancora Barthes, con la
sua idea che la foto (qui la poesia) possa essere riprodotta (letta)
all'infinito mentre quel che è stato còlto è - da un punto di vista
esistenziale - irripetibile. Ma è il dato di realtà (il donné)
che è intrigante, anzi perturbante, è questo sguardo un po' voyeuristico
(che a volte osserva il pleonastico: "in inverno nevica. i pesci girano
nella vasca."; "piove in un verso poi cambia inclinazione. dipende da
dove arriva il vento.") che dà da pensare. Forse ha ragione Mozzi quando
scrive: "Non vedo niente (niente di particolare, niente di attraente),
quando leggo Salvi, ma vedo". Il dato (il donné) è lì, si
tratta di vedere, anche se poi per quali conclusioni trarne è difficile
capire, se non forse la realizzazione di una contemporaneità irrelata
dell'immagine ("penso che questi sono i miei contemporanei", scrive
l'autore), di un vuoto totale che finalmente conquista quei "non luoghi"
che ci hanno ammorbato in poesia per anni ("territori senza luce.
stazioni illuminate. / luoghi vuoti. / luoghi parati a festa senza
uomini e donne. / tempio vuoto. case vuote. stazioni vuote. / luoghi in
attesa. o soltanto vuoti"). Ma il punto è che questo sguardo può essere
gettato ovunque, ad libitum. E' questa una poesia ad libitum? E' forse
la poesia di chiunque altro si metta davanti alla finestra e annoti quel
che vede o gli viene in mente? Una poesia modulare, una poesia che potrei-farla-anch'io? Uhm, non è così facile, è un po' più problematica la faccenda. Leggere per credere. (g. cerrai)
da Album
è andata così.
a. prende un succo di arancia − esami a breve − in abito da morte.
nessuno incontra una maschera affine.
il seminudo sta in posa.
costumato salta a ogni foto.
g. ha pitturato la bocca (in sé la cosa è niente). è poco un abito di velluto.
un cane la annusa. io conosco il suo odore.
è caduta un po di pioggia.
il neon illumina i muri.
più tardi un grassone che ha sudato ride.
***
questa mattina cera movimento nellappartamento di fronte. f
due uomini in calzoncini e scarponi attraversavano il soggiorno.
uno di loro ha fatto finta di non notarmi, nudo a prendere
le mutande. più tardi nel pomeriggio un grassone spazzava il
davanzale con le dita di una mano. adesso le finestre sono chiuse
e viene sera.
***
comprano la casa.
un primo piano con una bella luce.
qui è la nostra stanza, qui il bagno, dice.
le fotografie sono scure. è così in questi casi.
guarda il pavimento, dice, in rilievo.
i vecchi cessi in balcone lui pensa che sono brutti.
non ti sembra unoccasione buona.
viene una pioggia leggerissima.
in corridoio si volta indietro, è buio quasi.
***
non ci vuole tanto.
un prato di erba finta ecco tutto.
e luci a forma di papavero.
un corridoio di legno dove qualcuno passa accanto a banchi schierati.
un uomo firma certi libretti.
in angolo una lampadina.
questa stinge le pareti.
poi la fila indiana di ragazzi e ragazze.
più niente da vedere.
eccetto la ragazza che corre avanti altri due passi e che tengo per il braccio.
non tenermi, ride, che faccio come il cane - e tira.
***
«quasi ogni giorno compro pane che consumo a fatica». «costa un tanto a chilo, sono poche le cose che non dimentico».
dice il vicino. «non esiste un orecchio disponibile al momento».
intanto un uccellino prende le briciole.
per i giardini nessuno si è visto.
forse il miraggio di un acquazzone.
il vicino tende le mani. «ecco è finito».
da Polaroid
*
sono seduto in una stanza che non è quella in cui ti trovi - di sera.
confronta i due ambienti.
*
non è cosa metto in foto - questo non so che cosa è. sta lì davanti
il ragazzo che guarda.
*
1.interno 2.in camere.
1.il tale - a una rete tiene le mani su. là mastica un animale.
2.sezione - in camere. in queste va uno, di là uno cade.
*
questo sono io che vado a casa - i cani camminano così piano che
sono quasi fermi.
da Sogno
misurare una cosa non vuol dire forse regolarla. non è
una regola che richiedo adesso. è una misura.
come in geometria.
* così ho fatto la foto ai ragazzi arabi che giocavano a
pallone con il muro di una chiesa.
*
ho fotografato un albero dal basso con la macchina
fotografica. era pieno di fiori. poi sono caduti.
* bisogna fare ecc. - diceva. io ho detto unaltra cosa, non
mi ricordo. poi siamo andati fuori, era buio. ho detto unaltra
cosa, avevo fame.
da Altri scritti
le immagini che presento non hanno niente di umano. a me piace
guardare un buco per la forma che ha, non per quello che di
umano porta.
per esempio: vedo un tale che fa un palloncino a forma di animale
per dei bambini. ma quelli vogliono vedere una sfera che è
capace di volare.
in una stanza cè uno schermo bucato. in questo caso fare un
buco è come predire la fine di uno spazio e linizio di uno che
non si vede.
lo schermo contiene forme integrate, disegni. è un quadrato e ha
una forma proprio come le cose che contiene.
anche lo spazio contiene forme integrate, me per esempio. per
questo si stabilisce un rapporto tra me, spazio e schermo.
cosa succede quando il rapporto si rompe?
in pratica non si può fare niente. non si può correggere. bisogna
adattarsi a un ambiente imperfetto in cui un insuccesso è quello
che è.
ma lo schermo bucato a filo del soffitto è in grado di liberarsi dalle
costrizioni materiali che ha in sé − pittura, tela, cornice, buco − e diventare la forma che può andare verso lalto.
Sonia Caporossi - Erotomaculae - Algra Editore, 2016Image may be NSFW. Clik here to view.
L'amore non è più paegnia, giocattoli, figure, non oggi, non
di questi tempi, non in certe condizioni sociali e politiche e culturali
in cui tutto è da ri-conquistare, mai definitivamente acquisito, anche
in termini di identità personale, di libertà di. Non è più un
giocattolo, se mai lo è stato, una primazia del corpo in cui l'anima
abitava, era ospite nobile, ma non - come poi è stato - effigie a
somiglianza di, e quindi Sua messaggera e ambasciatrice. O forse non lo è
ancora, ancora non è tornato ad esserlo. Nel frattempo l'amore è una macula,
una traccia dai diversi contorni che si proietta sulla vita, ne invade
lo sguardo e che si tenta ossessivamente di mettere a fuoco. Nel
frattempo l'amore diventa identità e specchio. Entrambi molto fisici, molto corporei.
Questo ultimo libro di Sonia Caporossi è un canzoniere d'amore,
d'amore erotico o omoerotico per essere precisi, in cui l'autrice si
ritrova e si riconosce (lei è questa poesia, questo amore), ne individua le tracce, le evidenze materiali, le maculae, le psichedelie, e
lo definisce come elemento costitutivo della sua poesia, un elemento di
una grana fitta e di un peso specifico non indifferente. Un amore
descritto non come una serie diaristica di esperienze, ma come un unicum esistenziale
che trova la sua descrizione (e la sua estetica, che spesso il tipografismo nasconde) in un flusso compatto di sensazioni,
sensi, pelle, passaggi dall'epidermide al cuore e viceversa, fuso in un
impasto linguistico abile, colto, molto icastico, spesso sinestetico, e
da un punto di vista del lettore niente affatto epidermico.
La forma, in questo libro diviso in sei sezioni più un epilogo che
ripercorrono una storia (o forse più) amorosa, ha una sua invadente
preponderanza. Per forma non si intende niente di comunemente riferito
alla poesia, se non in precisi, limitati (e pressoché desueti) momenti
della sua storia. Come è possibile vedere nei testi che ho scelto, il
primo impatto che se ne riceve è totalmente tipografico, visivo, un
campo lungo che l'occhio, molto prima della mente, deve abbracciare.
Viene in mente, certo, Marinetti (che Giovanna Frene cita nella sua
prefazione), ma anche Apollinaire (ma senza "figure"), o il Luciano
Folgore di Magnesio, o certe cose di Giulia Niccolai o di
Liliana Ebalginelli. Gli esempi, vecchi e nuovi, non mancano. E' una
scrittura ardua da leggere, sulla quale ci si deve "arrampicare", come
dice Frene, ma mi pare che non voglia (o non pretenda di) avere una
particolare funzione visiva o grafica. Sebbene sembri provocare un urto
tra tradizione e innovazione, come afferma Frene, in realtà mi pare si
tratti di una poesia lineare, persino in molti punti decisamente lirica,
non meno di quanto lo sia un carme di Saffo (e anche qui sono d'accordo
con la prefatrice), con la dovuta distanza naturalmente. Una linearità,
anche sintattica e lessicale, en travesti, in un certo senso, con una veste cioè opposta alla voce, tanto che a volte ti chiedi se sia funzionale davvero. Ma in cui il grassetto, il bold,
le lettere grosse non hanno solo una funzione di enfasi o di esplosione
grafica, ma anche - come sanno i vecchi frequentatori di newsgroup -
sono segnale di un urlo, di una rabbia, di un alzare la voce per farsi
intendere, di una incazzatura. O di una forte passione. E certo è la
passione amorosa il motore principale di questo libro, espressa in una
concretezza di carne, di fluidi, di gesti erotici, di parole in
evidenza, a volte forse esibite, che alla fine costituiscono un'onda
lunga, una massa essa stessa corpo ("e sembra di attraversarlo, questo
corpo", cito ancora Frene), abbastanza vischiosa da non poter essere
semplicemente letta, da richiedere anche un confronto intellettuale,
forse razionale più che emotivo o empatico. Corpo che è segnale e
simbolo, come ho scritto altre volte, un topos della poesia femminile,
soprattutto in termini di riappropriazione ma anche, generalmente
parlando, come luogo di incrocio e snodo di problematiche diverse non
sempre ricomposte. Quindi anche corpo politico, di cui la poesia di
Caporossi vuole a mio avviso farsi interprete e voce, essere
poesia-bandiera, riconoscendo a sé stessa, come dice Sonia nella nota in
cui ringrazia l'editore per il suo "coraggio", di essere poesia forte.
Almeno quanto basta per colpire il lettore o per essere "perturbante",
come scrive ancora Frene con un termine scientificamente esatto. E
probabilmente per il lettore la cosa migliore è lasciarsene investire,
rimandando alla fine del libro ogni considerazione, ogni meditazione,
senza opporre ingiustificate resistenze agli attriti che questa poesia, a
differenza di tante altre, certo può generare. Gli attriti si dice generino calore e luce. (g. cerrai)
Estratto da "Sonia Caporossi - Erotomaculae" (nota: tutti i caratteri, comprese le cancellazioni, sono originali)
Image may be NSFW. Clik here to view.Sperimentazioni visive e poetiche: partendo da "Bologna dopo Morandi 1945-2015" (a Palazzo Fava a Bologna)
Dodici stazioni da percorrere come attraverso una serie di tappe o soste obbligate di riflessione e visione nel tragitto stilistico e temporale che segue e
traccia levoluzione dellarte bolognese dal dopoguerra ai giorni nostri nella mostra attualmente in corso a Palazzo Fava, Bologna dopo Morandi 1945-2015
curata dal noto critico darte Renato Barilli. Una settantina di artisti, lepicentro di una città o meglio di una zona geografica intorno alla quale
prendono forma differenti esperienze pittoriche e artistiche dal 45 al contemporaneo , infine una personalità indiscussa e catalizzatrice, quella di
Giorgio Morandi, dalla quale inevitabilmente dover partire per ridisegnare loltre, il post o il dialogo con quel passato. Morandi spartiacque in ogni caso
tra larte moderna e contemporanea nel panorama bolognese, limite inglobante da dover oltrepassare o bypassare per andare allincontro con altre modalità
espressive e personalità artistiche forse meno note, ma anche, punto focale del cammino aperto dallavanguardia fino ad abbracciare tutte le possibili
evoluzioni e involuzioni del post-moderno per approdare al panorama variegato dell'arte contemporanea.
Cronologicamente si parte dallinfluenza post-cubista degli anni 30, al cui vertice resta la pittura di Sergio Romiti- nature morte dalleredità
morandiana che sfociano in una forte ispirazione analitica e compositiva- cui fa seguito limpetuosa ondata, la rivoluzione stilistica attuata
dallInformale in Italia alla fine degli anni 50. La voce del critico più noto allepoca in questambito, Francesco Arcangeli, accompagna la transizione
rilevando criticamente il passaggio dal limite estremo dell ultimo naturalismo alla nuovo esubero di giovani artisti informali come Ennio Morlotti,
Mattia Moreni, Alberto Burri e Mandelli. Linevitabile via duscita dalla sperimentazione estrema e univoca dellinformale sarà segnata da una nuova
ricerca della relazione raccontata da artisti come Concetto Pozzati i cui lavori confluiscono nel clima della pop art e del new-Dada degli anni 60.
Altre stazioni di rilevo nella mostra sono la Scuola di Palazzo Bentivoglio con i due poli di Arte Povera (Pier Paolo Calzolari) e ribaltamento della
medesima in un clima post-moderno e citazionista con Luigi Ontani. Una sala è ancora dedicata ai fumettisti incentrati attorno alla personalità di Andrea
Pazienza e unaltra sala allesperienza fotografica sperimentale e solitaria di Nino Migliori. Infine la Nuova Officina Bolognese apre uno spazio di
ricerca nellambito della video-arte, dei nuovi media, del digitale e dellinstallazione video cui è lasciato il secondo piano della mostra come il punto
più estremo, lapprodo ultimo in cui confluisce il post-post della metafisica morandiana.
Improvvisazioni poetiche attraverso il visivo dallimmagine alla parola
Punto focale dal quale partire per tracciare nuove cammini stilistici e formali, contraffare o rovesciare i presupposti nelle sperimentazioni successive
resta, al centro della prima sala, una delle nature morta di Giorgio Morandi nellimmediato dopoguerra (1948). Pochissimi oggetti, perlopiù bottiglie
viste su uno sfondo neutrale e ricondotte a una forma assoluta, essenziale, alla purezza di percezione morandiana. Lì lasciate in una sorta di meditazione
visiva o meglio nella contemplazione silenziosa delle medesime per giorni e ore fissati nella solitudine di uno sguardo. Quasi Morandi intendesse lasciar
parlare le cose, la loro presenza imperante, il loro prendere spazio nelleco duna percezione espansa, intima e insieme impersonale.
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Dipingere diviene qui il gesto di lasciare essereo parlare le cose e insieme permettere loro di assorbirci, assimilarci dentro la loro magnetica presenza
o in una imperscrutabile atmosfera di silenzio e sospensione . In quella luce particolare gli oggetti inanimati divengono animati e lartista come lo
spettatore arrendendosi allesperienza solitaria del proprio sguardo si trova di fronte a un mondo di oggetti famigliari che, come presenze stranianti, lo
conducono allapertura e allascolto dellaltro: l assoluto ritrovato attraverso il mondo delle cose nella metafisica duno spazio condiviso.
Giovanni Ciangottini
Lastrazione pittorica ampia e distesa sulle tonalità del blu si ricongiunge a quelle del grigio mercurio,del bianco e dellazzurro slavato o tendente al
cobalto nelle sue progressive gradazioni e degradazioni. Guazzi di colore si compongono in montaggio libero sulla tela tra il blu e i suoi sfumati come
collage di mattoncini colorati, pezzi di puzzle in una giocosa astrazione dalla vibrazione calma e pacificante del bianco dominante al centro. Macchie
bluastre, invasive saturanti scivolano ai suoi lati fin quasi a toccare le tonalità argentee spente, azzurrognole e saturnine del grigio.
Sergio Romiti
Un cosmo di oggetti famigliari, perlopiù in interni borghesi, assume la lucidità implacabile, le sembianze sottilmente inquietanti, kafkiane quasi nella
visione di forte ispirazione post-cubista di Sergio Romiti. La percezione di realtà nella scomposizione primordiale delle forme, nellesasperazione dei
colori in primissimo piano supera il naturalismo dando adito a una visione astratta e insieme incisiva, lucida e devastante. In interno di macelleria la
scomposizione primordiale delle forme domina sulla tela là dove si ripercuotono esasperanti linee spigolose, acute piuttosto che circolari nella forma
degli strumenti di lavoro della macelleria e le masse divengono abitate, espanse oltre ogni prospettiva fino ad anticipare la dissoluzione formale del
Romiti successivo.
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Loro, gli oggetti come in Morandi appaiono lucidamente presenti davanti a noi, ma ora visti a distanza ravvicinata, quasi al microscopio, scomposti in
linee primarie, morbosamente abitati e dunque sottoposti a una scansione mentale e strutturale dallocchio analitico post-cubista: dissociati, esasperati,
resi presenza di pure linee e masse circolari ritagliate e sospese in primissimo piano. Sono nel Romiti di questo periodo interni di cucine, di macellerie,
visioni di oggetti o strumenti di lavoro come dei ferri chirurgici che il padre utilizzava nella professione di medico. Strumenti di lavoro o di tortura
sembrerebbe, visti in modo ravvicinato dallinterno allesterno attraverso una luce fredda, riflettente di cromature metalliche che non lascia adito ad
alcun respiro. Ancora, sono i verdi-blu tentacolari degli interni kafkiani che come meccanismi di persecuzione appaiono freddamente analizzati in unaltra
tela dove gli oggetti come tali scompaiono mettendo a nudo la loro primaria struttura per divenire pretesti o metafore della dimensione mentale e numenica
cui sottendono.
Dalla seconda metà degli anni 50 è il pieno esubero nella giovane generazione dellarte informale in Italia superata la barriera di quello che Arcangeli,
il critico più influente dellepoca definiva lultimo naturalismo. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, dopo il lancio dellatomica, le ideologie
politiche e le poetiche moderniste, i precedenti equilibri mondiali appaiono liquidati mentre si assiste alla progressiva virata verso il post-moderno. La
ricerca dellarte è volta alla natura profonda della realtà, non già sua imitazione o astrazione essenziale là dove si rifiuta ogni concetto formale e
limpatto materico assume il sopravvento: il ritorno allaspetto primordiale e innato della materia, del segno o del gesto che sottende la medesima,
lenfasi sullazione spesso istintiva alla base della realizzazione pittorica, infine il ruolo fondamentale assunto dal corpo e dallo spazio performativo
Ennio Morlotti, studio di nudi, 1954
Nellesubero di materia e colore i filamenti rossicci e vermigli, su fondo verde fresco e boschivo si confondono tra presenze di fibre vegetali e scie di
figure alla deriva. Linee ondulate e vibranti fanno pensare ai corpi nella danza, filiformi e in movimento su una pasta densa e materica: rosso vermiglio
sulle tonalità verdi e brune che evocano la terra, la presenza degli arbusti, il fondo boschivo. Ancora evocano il sostrato autunnale impregnato di melma e
fango e le foglie mischiate allocra e al rossiccio del sottosuolo.
Sala Carracci: su un lato della parete le evanescenti liquidazioni dei volti in Bendini. Le
figure sono ricondotte progressivamente da un contorno ancora riconoscibile alla sostanza primaria dellinformale materico per trasformarsi in macchie
spumose, impronte aeree del bianco, sindoni e contorni di corpi impressi su quelle, infine nuvole galleggianti in un marea di nebbia opaca che svapora a
poco a poco per lasciar posto alla bufera del rosso.
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Al lato opposto della sala, a sua volta affrescata di magnificenti figure barocche nellesaltazione della carne e della grazia seicentesca, si instaurano
in un arduo dialogo le figure grevi e massicce di Mario Nanni dal tratto corposo e pieno. In entrambi gli artisti, pur negli opposti dei loro stili,
emerge la diluizione dogni concetto formale a favore del segno, della traccia o del sostrato materico di colore in primo luogo contro lidea di figura
come unità e soggettività al centro della pittura. In entrambi i casi il processo messo in atto dallinformale trasforma per stadi successivi il volto
portandolo sempre più lontano per riconfigurarlo sulla via del segno e della materia. In una prima versione di Nanni il tronco e il bacino unicamente
restano al centro della tela, in primissimo piano là dove la figura è amputata, tagliata e posta in evidenza nel solo settore del busto, sviscerata con
lente di ingrandimento per fasce muscolari scavate nella pasta pittorica, tagliata a vivo in volumetria sul fondo grigio opaco, vivisezionata quasi in
linee corpose al centro del quadro.
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In una evoluzione successiva quelle stesse forme e masse grevi di presenza esplodono al centro della tela là dove ogni traccia di figura è scomparsa per
lasciar spazio unicamente a brani o pezzi di corpi dal segno violento e trasgressivo, nel loro punto più estremo a insorgenze improvvise di colore grigio
opaco o nero. Guazzi di fango sulla tela e corpi smembrati, tagliati a vivo quasi in un ammasso di pezzi galleggianti nella marea calma di un dopo la
tempesta. Sul grande mare del grigio denso e avvolgente masse di corpi si spostano alla deriva, in primo luogo la deriva del continente-figura ormai
giunto alla sua liquidazione e riconversione nel magma informe di colore cui sottende.
Rosalba e Romana Spinelli: gli opposti si ricongiungono.
Il foglio è bianco, la tela è vuota, nitida si direbbe, oppure svuotata di ogni presenza. Poi lieve compare questa volo di airone ad ali dispiegate in
lontananza, un frammento di infinito appenninico, la linea appena tracciata a distanza lontanissima come lutopia di una qualche altra esistenza, la punta
di un iceberg che leggera diviene volo di creatura alata attraverso allorizzonte, tuffandosi nel suo infinito.
Verde su bianco del foglio, una colatura a china appena visibile, cime di colline si delineano come il contorno di orizzonti chiari molto più lontano, di
linee nette e frastagliate, irradianti se viste dal mare, a distanza, in una giornata chiara e luminosa.
Ora, al contrario, (in Romana Spinelli) la tela è cumulazione di presenza, ammasso vegetale, accumulo o proliferazione clorofilliana di piante
forse per leffetto del sole che a contatto con laria genera crescita, rigoglio di vita, riproduzione. Qui la vita diviene esubero di presenza, eccesso
quasi e riempimento luminoso delle forme,
un troppo-pieno dellabbondanza, della prosperità fertile dalla terra e dei suoi frutti, i colori gioiosi duna chioma rossiccia e crespa con spiragli o
sentieri aperti dal vento tra le sue trame. Sentieri aerei appaiono tracciati in mezzo ai campi di grano come duna scrittura simbolica, una voce dall'alto
espressa attraverso l'elemento invisibile del vento: messaggero divino in parole criptate inviate dall'universo soltanto a chi sia in grado di riceverle.
In Germano Sartelli un grande ovale è accumulo nuovamente di presenza, magma materico, se vogliamo magma di vita espressa nelle sue energie o
forme primarie ma concentrata e compressa dentro questo piccolo contenitore bidimensionale sulla tela. Simile a un collage-montaggio di pigmenti colorati e
carta crespa, stropicciata, trattata, decolorata accartocciata e re-incollata insieme alla vernice. Lo spaccato di un piccolo mondo prende forma, s'impone
in trompe-l'oeil quasi uscendo dalla tela con le sue forme primitive, simile un mondo in sé, un universo rinchiuso dentro la forma ovoidale forse di un
cranio o di un simbolico contenitore di storie e immagini celate nei suoi anditi; tra le pieghe della sua carta e dietro le multiple stratificazioni di
pittura.
Oltrepassare l'informale,
proseguendo al piano successivo della mostra, significa per Concetto Pozzati abbracciare la via della pop art in Italia verso la fine degli anni '60,
sperimentando con i più svariati materiali provenienti dal mondo industriale o da quello della produzione di massa e, soprattutto, citare ironicamente,
rileggere, entrare in un dialogo paradossale con i predecessori fino al punto di liquidarli come nell'opera suicidio di Grosz, artista dell'avanguardia
tedesca nel primo '900.
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Un pannello enorme, immenso, riempito di figure citate o ripetute e dai più svariati oggetti in una serie di teche successive in vetro occupa l'intera
parete della sala: voluminosa, invadente asserzione di presenza venendo verso di noi visivamente con il suo carico di oggetti e simboli dal mondo
contemporaneo. La medesima figura cui il titolo allude, Grosz probabilmente nel suo improvviso collasso al suolo in una sorta di auto-eliminazione voluta
da Pozzati con tratto incisivo e caricaturale, si ripete in ogni vetrina con la variante di oggetti estranei aggiunti intrusivamente sperimentando con i
più svariati materiali. Dunque, la scena ritorna ogni volta identica e la figura è travolta al suolo, barrata, ricoperta o schermata da altri oggetti
installati direttamente nel riquadro mentre la luce a neon percuotente della sala la illumina a pieno giorno quasi dissacrando o rovesciando con giocosa
ironia l'atto di una morte annunciata della quale ci si dimentica. E noi spettatori non possiamo che restare attratti o meglio sopraffatti dalla miriade di
oggetti, intrusioni e citazioni del quotidiano, esubero di materiali aggiunti in un ritorno alla realtà del mondo industriale e consumistico. La fine
annunciata dell'artista, ironica e dissacratoria, è anche quella di un mondo o di modo di pensare e fare arte nelle avanguardie in tutta la prima metà del
900 cui il quadro allude mentre la svolta di Pozzati verso la pop art sancisce già il superamento dellondata predominante dell'informale in Italia negli
anni 50. Allo stesso modo, le allegorie politiche, grottesche e macabre di Grosz sorte alla luce della storia tragica europea negli anni '30 , in primo
luogo il suo ritratto, appaiono immolate, estinte e insieme riviste ironicamente alla luce di una nuova società dei consumi. E' il mondo industriale ora là
al centro della scena la cui proliferazione di oggetti e residui, prodotti e loro rifiuti, materiali e loro scorie pare prendere il sopravvento e investire
fino a far soccombere il disegno grottesco e caricaturale dell'artista dalla generazione precedente.
Un mondo di cose si impone, di oggetti trovati intrusioni dalla realtà della non-arte, dalla produzione di massa ( agli antipodi per assurdo della
poetica delle cose di Morandi ma pur sempre lasciando spazio alle medesime) mentre Pozzati sperimenta con materiali di tutti i tipi e con una tavolozza
esuberante di colori.
Sono gocce di pioggia o lacrime artificiali in cristalli di vetro, ingessature o bende in una delle figure, quadretto in plastica dentro il riquadro, veri
e propri sassi, fasce da ardere e cannucce, nuvole di nylon o di cotone sporgenti oltre il piano, pagnotte vere e proprie o frutti finti in plastica. E,
ancora, una linea di corrente elettrica, una luce a neon, inserzioni di finte piante o vegetali. Una figura barrata sopra da un nastro adesivo nero è vista
a specchio, poi intrusioni dal quotidiano come pantofole, orologi, ventagli, fiori di carta dipinti sulle pareti, carta da parati, tappi di sughero, e
ancora, grandi orecchi sferici in plastica, bandoli di fili attorcigliati insieme senza potersi districare, cornici dentro altri cornici, quadri nel
riquadro, specchi, frecce e indicatori di direzione. Chiudono la serie lampadine accese, impronte di piedi in cammino, ritagli di vetri o di specchi,
collage infine di scatole chiuse da aprire o decriptare ognuna con dentro una storia, un mondo di risorse per scrivere, riscrivere e insieme contraffare il
senso dell'originale.
I nuovi artisti e larte contemporanea bolognese
Marcello Jori
Diamanti sfaccettati in giacimenti del sogno e tizzoni incandescenti animano le scene notturne di Marcello Jori. Espansi e magnificenti in un bagno di
colore e di luce, immensi dalla tela alle pareti, i suoi giacimenti di pietre preziose si intercalano e si compongono in mille intagli geometrici e nella
sfaccettatura di infinite vibrazioni colorate. Giacimenti sotterranei vengono alla luce in fiumi di blu oltremare e correnti doltre-oceano, in pietre e
scorrimenti dacqua, in verdi smeraldi e lapislazzuli trasparenti e bluastri, in rubini e aranci splendenti fino a toccare la solarità del mezzogiorno,
infine in montagne di cristalli intagliati in rossi coralli sporgendo fuori della tela in esuberante presenza.
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Sono giacimenti di idee, di creatività o di bellezza insperata, pietre dure e granitiche divenute dun tratto gemme preziose, cristalli di roccia raffinati
fino a diventare della brillantezza rara dei diamanti. Sono liquidi segreti sgorgati fuori da fonti sotterranee, e giacimenti di risorse insospettate
trovati per caso scavando più in basso. Sono città sepolte o ricoperte da tempeste di sabbia e polvere antica riportate alla luce trasformando la loro
oscurità in questa pioggia doro vibrante di colore. La città ora è vista dallalto in ripresa aerea notturna; scenario apocalittico e futurista appare
come una distesa satellitare di brillanti pianeti, un reticolo stellato su un cielo ricoperto di diamanti quando si atterra nella quasi totale oscurità
della notte.
Nelle fotografie di Nino Migliori
Sui tavolini di marmo e i ripiani in pietra dei caffè parigini i simboli, le tracce i segni grafici o le firme incise dai clienti occasionali, dai passanti
o dagli avventori abituali di quei locali hanno trasformato le anomale superfici in diagrammi di segni, in graffiti e linee di mani simili a cartografie di
vite lì rimaste incise, come un destino, insieme alla luce in riflessi e loro sdoppiamenti. Più tardi quei graffiti sono divenuti con Nino Migliori
ingrandimenti fotografici, stampe o immagini trasferite dai ripiani ai supporti sui muri . Lidea di metamorfosi, di traccia appare così espansa in primo
piano sottoposta a sperimentazioni di filtri colorati in camera oscura fino a trasformarsi in altro e altro ancora. Apre la visione a mondi immaginari,
evoca lidea di un universo popolato da pianeti fuori dalla sfera terrestre, visualizza mappamondi, forme di vita allo stato nascente, ecografie di pianeti
o di grembi materni, sfere concentriche e celesti, paesaggi astratti pullulanti di vita nella vibrazione del rosso, del rosato o del carminio. (elisa castagnoli)
Image may be NSFW. Clik here to view.La strada dei più alti desideri
passa spesso per lindesiderabile
R. D.
René Daumalnacque a Boulzicourt, una piccola località nel dipartimento delle Ardenne, nella Francia settentrionale, ai confini con i Paesi Bassi, il 16 marzo del
1908. Il padre esercitava la carica di funzionario presso il ministero delle Finanze ed era votato ai principi del socialismo e profondamente
anticlericale. Daumal frequentò gli studi secondari a Reims, nel dipartimento della Marna, dove fondò il gruppo dei «Phrères simplistes», composto da altri
tre intellettuali, ispirati alla poetica e agli eccessi di Alfred Jarry, Arthur Rimbaud e al paradigma dei surrealisti di Breton, Il gruppo era composto,
oltre che da Daumal, da Roger Vailland, Roger Gilbert-Lecomte e Robert Meyrat. Come Rimbaud, anchessi cercavano quel dérèglement de tous les sens (irregolarità di tutti i sensi) attraverso luso di oppio, etere, assenzio e praticando il gioco della roulette russa. Intorno al 1924, Daumal cominciò ad
ingerire con una certa regolarità anche il tetracloruro di carbonio, più noto con il nome di freon 10, che utilizzava per uccidere i coleotteri che
collezionava, con lintento di delineare e scandagliare un mondo parallelo alla realtà, immergendosi volontariamente in un coma prossimo allesperienza
della morte apparente. Dal 1925 al 1927 preparò a Parigi il concorso per entrare nel liceo Henry IV, dove divenne alunno del filosofo e saggista
Émile-Auguste Chartier. Negli stessi anni conobbe la poetessa e filosofa Simone Weil. Nel 1928 fondò e diresse insieme ai vecchi amici, RogerImage may be NSFW. Clik here to view.
Gilbert-Lecomte e Roger Vaillard, e insieme al pittore Joseph Sima la rivista Le Grand Jeu, in cui apparvero i suoi primi componimenti poetici. La
rivista ebbe soltanto tre numeri e cessò nel 1931. In questi anni conobbe Hendrik Cramer, poeta olandese, che collaborò ai primi due numeri della rivista,
marito di Véra Milanova, che sarebbe diventata la futura compagna di Daumal. Iniziò un crescente interesse per la cultura e la filosofia orientale e
cominciò a studiare il sanscrito.
In seguito Daumal conobbe il ballerino indù Uday Shankar e si unì alla sua compagnia teatrale per una tournée negli Stati Uniti durante gli anni 1932-1933.
Ritornato a Parigi, il poeta piombò in una profonda crisi finanziaria, restando a volte anche senza una dimora stabile. Si trasferì a Image may be NSFW. Clik here to view.Ginevra con la
compagna, Véra Milanova, e iniziò la stesura della sua prima opera in prosa: La Grande Beuverie (La Grande Orgia) che pubblicherà a Parigi solo
nel 1937. In questo periodo, nella rivista: La Nouvelle Revue Française, pubblicò uno studio filosofico su Spinoza e a partire dal 1934, pubblicò alcune
traduzioni dal sanscrito. Nel 1936 pubblicò la sua prima raccolta poetica: Le Contre-Ciel. Nel 1939 venne a sapere di essere affetto da una grave
forma di tubercolosi polmonare. Proseguì senza sosta la sua attività di scrittore e traduttore di frammenti di grandi testi indù. In questo stesso periodo,
durante un soggiorno a Pelvoux, sulle Alpi, iniziò la stesura della sua più importante opera in prosa, rimasta incompiuta: Mont Analogue (Il Monte
Analogo). Si tratta di un romanzo di avventura sullalpinismo, visto in unottica metafisica come viaggio per raggiungere la vetta, raccordo tra terra e
cielo, sulla quale ognuno compie e trova le ragioni della propria esistenza. Lopera doveva prevedere sette capitoli, ma Daumal ebbe il tempo di scriverne
solo cinque prima di morire. Nel 1940 collaborò con la rivista Fontaine e pubblicò la raccolta poetica: Poésie noire et poésie blanche. In
questi anni le sue condizioni di salute peggiorarono precipitosamente. Morì a Parigi il 21 maggio del 1944. Aveva trentasei anni.
Articolo e traduzione a cura di Emilio Capaccio
Foto: due immagini di René
Daumal e Il gruppo dei «Phrères simplistes» (fonte web)
Triste petit train de vie
Celle qui pourrit dans mon coeur
cest la lueur qui se nourrit des peurs
qui rôdent chantant le malheur,
en haut, en bas, toujours.
Nuit sur la nuit, cest fête, enfonçons-la
détresse
sous louate dune joie épaisse;
nuit sur la nuit, cest la faiblesse
du coeur brisé.
La pourriture est dans mon souffle et ce
vent
cest le siffleur fascinant, cest la dent,
cest le goût de saumure de ce gouffre avant
la fuite en bas.
Plaie du jour à mon flanc!
la nuit, cest mon sang
qui senfuit par ce trou blanc,
soleil qui me baigne jusquau petit matin,
môte la faim
au petit matin de ma fin,
personne nentend, personne,
personne ne tend la main,
je suis laiguille,
laiguille dans le tas de foin,
le foin sans fin, létouffeur à la fin ...
personne ne vient, personne ne pleure,
sauf toujours la même, la terreur.
Triste piccolo modo di vivere
Quello che marcisce dentro il mio cuore
è il chiarore che si nutre delle paure
che vagano cantando la sventura,
in alto, in basso, per sempre.
Notte sulla notte, è festa, soffochiamo
lo sconforto
sotto lovatta di una gioia addensata;
notte sulla notte, è la debolezza
del cuore spezzato.
La putrefazione è nel mio soffio e questo
vento
è il fischiatore affascinante, è il dente,
è il gusto di salamoia di questo baratro prima
dello scolo verso il basso.
Piaga del giorno al mio fianco!
la notte, è il mio sangue
che scende per questo buco bianco,
sole che mi bagna già dallalba,
mi toglie la fame
allalba della mia fine,
nessuno sente, nessuno,
nessuno tende la mano,
sono lago,
lago nel mucchio di paglia,
la paglia senza fine, la soffocatrice nella fine ...
nessuno viene, nessuno piange,
eccetto sempre lo stesso, il terrore.
Après
Je vais renaître sans coeur,
toujours dans le même univers,
toujours portant la même tête,
les mêmes mains,
peut-être changées de couleurs,
mais cela même ne me consolerait point.
Je serai cruel et seul
et je mangerai des couleuvres et des insectes crus.
Je ne parlerai à personne,
sinon en paroles dinsectes
ou de couleuvres nues,
en mots qui vivront et riront malgré moi.
Dopo
Rinascerò senza cuore,
sempre nello stesso universo,
sempre portando la stessa testa,
le stesse mani,
forse di colore diverso,
ma tutto ciò non potrà consolarmi.
Sarò crudele e solo
e mangerò bisce e insetti crudi.
Non parlerò a nessuno,
se non con parole dinsetti
o di bisce nude,
con parole che mio malgrado vivranno e rideranno.
Il suffit dun mot
Nomme si tu peux ton ombre, ta peur
et montre-lui le tour de sa tête,
le tour de ton monde et si tu peux
prononce-le, le mot des catastrophes,
si tu oses rompre ce silence
tissé de rires muets, si tu oses
sans complices casser la boule,
déchirer la trame,
tout seul, tout seul, et plante là tes yeux
et viens aveugle vers la nuit,
viens vers ta mort qui ne te voit pas,
seul si tu oses rompre la nuit
pavée de prunelles mortes,
sans complices si tu oses
seul venir nu vers la mère des morts
dans le coeur de son coeur ta prunelle repose
écoute-la tappeler: mon enfant,
écoute-la tappeler par ton nom.
Basta una parola
Chiama se puoi la tua ombra, la tua paura
e mostragli il viaggio della sua testa,
il viaggio del tuo mondo e se puoi
pronuncia la parola delle catastrofi,
se osi rompere questo silenzio
tessuto di risa mute, se osi senza complice
rompere la sfera,
strappare la trama,
solo, tutto solo, e pianta là i tuoi occhi
e vieni cieco verso la notte,
vieni verso la tua morte che non ti vede,
solo se osi rompere la notte
lastricata da pupille morte,
senza complici se osi
solo venire nudo verso la madre dei morti
nel cuore del suo cuore la tua pupilla riposa
ascoltala chiamarti: bambino mio,
ascoltala chiamarti per nome.
La désillusion
Blanc et noir et blanc et noir,
attention, je vais vous apprendre à mourir,
fermez les yeux, serrez les dents,
clac! vous voyez, ce nest pas difficile,
il ny a là rien détonnant.
Je vous parle sans passion,
noir et blanc et noir et blanc,
clac! vous voyez quon sy fait vite,
je vous parle sans amour,
et pourtant vous savez bien ...
il faut être évident jusquà labsurde
Blanc et noir et blanc et noir et noir et blanc,
si nos âmes échangeaient leurs corps,
il ny aurait rien de changé,
alors ne parlez plus de corps ni dâmes.
Blanc, noir, clac! cest la seule chose
quensemble nous pouvons comprendre,
(mais nest-ce pas quil ny a là rien de tragique?)
Je vous parle sans passion
blanc, noir, blanc, noir, clac,
et cest mon éternel cri de mourant,
ce cri blanc, ce trou noir ...
Oh! Vous nentendez pas,
vous nexistez pas,
je suis seul à mourir.
La disillusione
Bianco e nero, bianco e nero,
attenzione, vi insegnerò a morire,
chiudete gli occhi, stringete i denti,
clac! vedete, non è difficile,
non cè niente di stupefacente.
Vi parlo senza passione,
nero e bianco, nero e bianco,
clac! vedete come si fa presto,
vi parlo senza amore,
eppure sapete bene ... bisogna che sia evidente fin allassurdo
Bianco e nero, bianco e nero, e nero e bianco,
se le nostre anime scambiassero i loro corpi,
non ci sarebbe nulla di cambiato,
non parlate allora di corpi né di anime.
Bianco, nero, clac! è la sola cosa
che insieme possiamo comprendere,
(non è che vi sia qualcosa di tragico?)
Vi parlo senza passione
bianco, nero, bianco, nero, clac,
è il mio eterno grido di morente,
questo grido bianco, questo buco nero ...
Oh! Voi non sentite,
voi non esistete,
sono solo a morire.
La peau du monde
Je vis et je vais minterrogeant de la vie,
et limage méconnaissable de moi-même,
ce monde dair, de roc, de maisons, de lumières,
de millions de visages sans lois, sans voix
ce cuivre, ce bois verni, ces souffles, ces cris,
tournent, couleurs à fleur de peau,
formes touchées, mangées, où suis-je?
(non, non, ce nest pas une devinette,
hélas, ce nest pas une devinette,
que ce soit ici ou ailleurs
je ne me reconnais plus.)
Ordre si fragile de la géométrie,
ne me prodigue plus les consolations de ton coeur de fer.
Ces jours, je vais dans les couleurs et les sons mêlés,
et je vois la nuit dans les plus vives lumières,
monde, monstrueux fantôme,
ton jour est la plus vide des nuits.
Une voix dit: où suis-je? qui suis-je?
Est-ce ma voix dans ce désert?
La surface de chaque chose
est tendue par la nuit qui la gonfle, − Oh! cette nuit en voiles de soleil!
Oui, cette parole dans la bulle dillusion,
cette parole perdue,
ce nest jamais que la mienne.
La pelle del mondo
Vivo e mi interrogo sulla vita,
e limmagine irriconoscibile di me stesso,
questo mondo daria, di roccia, di case, di luci,
di milioni di facce senza leggi, senza voce
questo rame, questo bosco dipinto, questi soffi, queste grida,
fanno ruotare, colori a fior di pelle,
forme sfiorate, mangiate, dove io mi trovo?
(no, no, non è un indovinello,
ahimè, non è un indovinello
che io sia qui o altrove
non mi riconosco.)
Ordine così fragile della geometria,
non prodigarmi più le consolazioni del tuo cuore di ferro.
Questi giorni, io vado nei colori e nei suoni mescolati,
Gianluca Spitalieri - Racconti di un'assenza - Transeuropa, 2016Image may be NSFW. Clik here to view.
Che fare, si diceva qualche giorno fa con un amico, quando di un autore
non sappiamo niente, non conosciamo nemmeno la faccia, non abbiamo la
minima idea della sua vita o di come si sia costruito il suo bagaglio,
la sua "ispirazione"? Non ci rimane che il testo. Per capire, ad
esempio, di quale assenza voglia raccontare Spitalieri in questo libro
abbastanza scarno (sono venticinque poesie) ma compatto nei suoi
intendimenti e nel tema. Che è quello dell'amore, con i suoi immancabili
dispiaceri, con la sue mancanze e lacerazioni, partenze e ritorni e
patemi d'animo. L'assenza è dunque quella di chi non c'è, se ne è
andato, manca all'appello, si fa aspettare. Ma è anche quella di tutti
gli atti mancati, di appuntamenti andati a vuoto, e non solo quelli
amorosi, del fallimento del confronto anche comunicativo con l'altro,
chiunque esso sia. Dunque assenze molteplici e diverse, di cui l'amore,
inteso sia come sentimento sia come densità corporea, finisce per
diventare un grosso correlativo oggettivo, di qualcosa d'altro. E
inoltre assenza come vuoto difficilmente risarcibile, poiché - come
scrive Spitalieri - "chi parte non lascia niente".
Dunque il tema c'è, ed è noto, universale, antico come l'uomo. In ciò
rischioso, nel senso che parlare d'amore è possibile solo se lo si fa
in un modo che consenta al lettore di scoprire qualcosa di nuovo
sull'argomento, anche se fosse soltanto una diversa nuance di
dire una cosa nota. Di scoprire, come diceva qualcuno, qualcosa che sa
già. Qui ci sono intanto almeno due prospettive: una di chi parla
d'amore parlando di qualcosa d'altro, foss'anche un melograno o bolle di
sapone, con uno sguardo apparentemente ondivago che però nasconde un
chiodo emotivo; l'altra esattamente contraria, in cui l'amore è
esplicitato, e magari corporeo, ma è specchio di un mondo più vasto non
sempre semplice da comprendere o da controllare (come l'amore stesso, del resto).
Il metodo di Spitalieri di affrontare la sua materia poetica è di
distenderla in pennellate con almeno un paio di caratteristiche: sono
lunghe, versi liberi ad andamento narrativo ma generalmente chiusi, cioè
composti da frasi pressoché complete, che trovano il loro senso
compiuto nell'ambito del verso stesso (ed essendo lunghe hanno lo scopo -
o tentano - di dire più cose); e sono spesso contrapposte, di
materiali, colori, registri, consistenze diverse (e talvolta anche di
contenuti diversi, come un volontario saltare di palo in frasca - vedi
ad esempio, qui sotto, in Attese, lo scarto tra la prima e la
seconda strofa). L'effetto di questa stesura è la composizione di un
testo (parlando in senso lato) che generi da una parte una attesa di
qualcosa che gli accidenti della vita hanno momentaneamente sospeso ma
che certo avrà un suo esito naturale, buono o cattivo che sia (una
storia, un amore, una visione, un'idea ecc.); dall'altra una frustrazione di quella attesa, non tanto come risultato poetico quanto come negazione di un continuum,
come affermazione del fatto che le cose vanno come vanno e sono sempre
più complicate e meno lineari di quanto ci si possa aspettare. E' in
questo senso che dicevo che il tema, amore o altro, poi veicola una
visione del mondo più ampia, vestita di un pessimismo consapevole, di
una aspettativa esistenziale liquida e insieme legata ad un hic et nunc, un
certo qual "lascio fare al caso che poche volte invece / ha reagito
bene alle insistenze del corpo". Il modo relativamente nuovo di parlare
d'amore è quindi dire che l'amore è un accidente (un caso, appunto)
della vita, qualcosa di intruso in quel magma ma con uno statuto
speciale, che càpita, a volte è un incontro fortuito (anche, specie nel
suo coté meramente erotico più che affettivo), ma incide, lascia un
segno di cui ci si può illudere che sia una chiave di lettura
dell'esistenza, a sua volta scarsamente proiettata verso il futuro,
visto comunque come "un domani precario che si consuma / fra zuccheri e
caramelle".
Poi naturalmente c'è altro, o forse ci sarà, qualcosa che si intravede
nei due bei testi che chiudono il libro, qui riportati. Sono in fondo e
lasciano in bocca un sapore diverso, come la promessa di un nuovo tema o
addirittura di un nuovo stile, qualcosa che verrà. Più compatti, più
limpidi, più comunicativi e, se posso dirlo, più importanti del resto
dei testi qui presenti, perché diversamente orientati all'esterno, ad
una riflessione sul mondo da un punto di vista meno egoisticamente (si
fa per dire) soggettivo, più engagé, più maturo (per quanto questo aggettivo nasconda sempre un'insidia), e se vogliamo più lirico (ma
lo dico come pura constatazione). E' un'impressione che ho avuto, non
so dire se sia il preludio di qualcosa di diverso, non so nemmeno se siagiusto aspettarselo. Ma certo Spitalieri ha i mezzi, se vuole. Staremo a vedere. (g. cerrai)
Assilli
I mille sguardi dei morti lasciano un paese a pezzi
e rimangono solitarie le strade di notte senza asfalto.
Hai forse trovato riposo in uno dei tanti letti presi in affitto
in quel luogo desolato?
Ho gettato semi nel water questa notte, raccolti in contenitori di cellulosa
serbo speranze nelluomo.
Riuscirebbe a ritrovare un figlio perduto in quelle strade solo dallo sguardo.
Serbare speranze gettare seme e raccogliere sguardi
sembrano propositi alti per un paese di morti.
Ti ho lasciato anche questa notte con un abbraccio forte
e mi mancava il fiato per la presa. Così lascio i miei amanti
mentre stringo le palle alla luna illudendomi.
Avresti preferito un lavoro decente e mille prestiti in banca
invece di una notte passata con me. Posso capirlo.
Sono un precario anchio. Ma di amori. Quelli che restano in gola
e che non vanno giù nemmeno a morire.
Questa notte quel letto lo paghi tu però.
After a long trip to a shrine
Anche se i doni sfuggono agli occhi con poche parole e intanto respiri
lo stesso e non smetti più,
non ha più sonno il mondo e non basto più a dare nomi alle cose, ad ogni cosa
che è altro alle ore destate e alle luci del maggio che luccica
come macchia di bosco allombra come siepe che nasconde.
E questo non basta nemmeno a ficcarti dentro alla testa che è finito.
Stanchi occhi rossi e una pausa pranzo in più.
Già... sembra assenza di dio che non dovesse mai arrivare quel giorno.
Abbandono? Come lo chiamò il poeta che vide scivolare
lamore in un bicchiere
di sangue!
Ora lasciami il numero... anzi lasciami
after a long trip to a shrine.
Granada
Non sarebbe il primo viaggio pieno di vittorie
senza marmitta truccata in moto chi lascia la propria terra.
Al mattino con un grumo di cavallette in testa e quello che resta dun giorno
ci si affida al ricordo della madre coi capelli lunghi
e a quella sepolta dietro un sorriso.
Lascio le vittorie agli altri, mamma, e vado.
Anche se riuscissi a togliere mille denti in un solo colpo
so che a nulla servirebbe. Se non a lasciarsi senza dolore
come se tu fossi priva di quella ridicola calzamaglia che ti ostini ad indossare.
Tutte le sere.
Le stesse sere in cui tornava a casa e pisciava sul letto
e diceva che era colpa dellacqua fredda.
Abbandono la memoria del corpo una volta per tutte e vado.
Abbandono la memoria della casa, quella degli spiriti veri e fasulli
con cui si gioca da piccoli e si cresce anche.
E intanto raggiungo il melograno.
Attese
Si fa presto a godersi dietro langolo
duna strada,
quando invece uno sguardo sta ancora riposando
sul davanzale duna finestra.
Dallalto si sente poco e sembra più strano il gioco
se a mancare è il desiderio.
Questa mattina ho spedito tutti gli auguri di Natale.
Un quotidiano impegno di resistenza al tempo.
Dallaltra finestra si segue il passo di chi vuol perdersi
ed io lascio fare al caso che poche volte invece
ha reagito bene alle insistenze del corpo.
Si può mostrare di essere a casa in attesa
anche per un paio dore
col fiato strangolato da un colpo di mano
ma io non sono quel tipo lì...
Tra zuccheri e caramelle
Lei si guardava distratta in quel buco dombre
la notte come facevano tutte in piedi tra gli sguardi
del Metrò.
Pochi attimi e sarebbe ritornata quella strana luce
cobalto ad illuminare il pavimento e
finalmente si sarebbero riconosciute nello spazio
chiuso dun colore che un po in verità soffocava... avevano fatto lamore con gli occhi mille volte
quella sera e nulla confessavano ora gli ultimi sguardi
che si perdevano prima di andar via da quel tocco di bicchieri.
Tutto si lascia alle spalle in quelle circostanze
ad un domani precario che si consuma tra zuccheri e caramelle.
Alla fiera imbonitora
Quando dissi che quel letto vischioso forse andava buttato
pensavo alla mia memoria che fa acqua da tutte le parti
un intoppo fuori dalle cose che puzza di vita di cinguettii notturni che si riconoscono dal ballatoio di casa mia.
La chiami processione di corpi quella che nessuno ama e nessuno tocca
perché argillosa
e dovresti saperlo tu che vomiti sesso e che inzuppi briciole nel vino
quelle sere quando ci si sente soli e ti scappa una parola sporca
perché Così Fan Tutte
nel termitaio dove maschi e femmine si fecondano nutrendosi.
Cera amore vero sul davanzale che strizzava
sottane per uomini:
ce ne è per tutti i gusti alla fiera imbonitora.
Perché so che cammini e non ti curi di essere guardato?
malato il corpo
malato il frutto
malato il sogno
ieri ho rovistato tra gli armadi di casa mia se domani avrai voglia tu basta una botta.
La rosa di montagna
Non cè alcun vantaggio
nel fare strada a piedi dove laria
spezza la lingua
e si sente dischiusa a tratti una parte del cielo più chiaro,
con laltra fitta di rose rugose dai margini seghettati e incompiuti,
lasciando che muti il colore la rosa di montagna
dal verde al giallo dal rosso allarancione
alla fine di un inverno che non risparmia coltre dovatta
e saffloscia bavoso sul sentiero.
Dal basso tutto appare più difficile
e sallunga ledera che ricopre muri a specchio:
non ceri quando raccoglievano le bombe dimenticate sul campo
e nemmeno quando filtrava una nuova stagione che spegneva
la precedente.
Non ci sono vantaggi nel ricercare buoni motivi fottendo la vita in nome della poesia.
Luoghi di afa
Inabissa il peso dellacqua in mezzo alle terre
che da Zaura solleva fra le palme suoi edifici
fra una folla di corpi di donne e bambini e gli uomini
anziani sono muraglie di fango in quelle terre di guerra.
Si scivola via sopra i letti del mare e non cè nulla da sognare
dove la storia non ammette futuro in quel mondo dOccidente
ove silente nasconde colpe ed essicca memoria.
Vorrei trovare un luogo che non sia solo luogo
una terra che non sia solo terra. Vorrei attraversare un mare che non sia solo mare
e vorrei aggrapparmi sui fianchi della terra
e risalire dove le spighe raggiungono il cielo.
Ora dove il buio è leco della storia dei popoli del mare
labisso racconta le nostre storie e dove brilla la resina
si inabissano popoli di città ormai sommerse.
Mesi di dormienza
Strattonano le gemme di faggio purpureo
durante i mesi di dormienza.
Una stagione anomala che ispessisce i tronchi
delle latifoglie. Che ritarda il gelo sulle foglie
che scava sulle cortecce ridotte e che sfronda
allessenziale. È una stagione che delimita lo spazio
e che ci separa e ci definisce e ci avvantaggia
nella cernita in un inverno fittizio ed effimero.
E nellillusione che basti il caldo alla crescita
portiamo anche noi
le nostre sacche di sementi, bacche rosse
esposti al cimento della vita.
E come le piante senza riposo invernale
affidiamo alle stagioni la fiducia
di una nuova corsa
tra le colline del moscato.
In anticipo corre la stagione dei ciliegi.
Alcuni testi di Guillaume Apollinaire, tratti da Calligrammes, nella traduzione di NorImage may be NSFW. Clik here to view.ma Stramucci (G. Apollinaire - Da Calligrammes - Poèmes de la paix et de la guerre, 1913-1916 - Ed Arcipelago Itaca, 2016), traduzione che Giovanni Raboni, in una lettera del 2002 a Stramucci, aveva trovato "...decisamente un buon lavoro, motivato da un atteggiamento di fondo giustamente non esibizionistico (capita molto spesso a chi traduce ed è poeta in proprio..), ma non privo di soluzioni coraggiose [...]", ma che in me suscita qualche sommesso motivo di perplessità. Tuttavia sono sempre interessanti sia la lettura di Apollinaire, sia il confronto con altre interpretazioni, e ringrazio l'amico Danilo Mandolini, patron di Arcipelago Itaca, di avermi inviato questo libro. A voi la lettura.
LUNEDÌ RUE CHRISTINE
Faranno fìnta di niente la portinaia e sua madre
Questa sera mi accompagnerai se sei un uomo
Sarà sufficiente che uno faccia la guardia al portone
Mentre l'altro sale
Sono accesi tre fornelli a gas
La padrona soffre di tubercolosi
Faremo una partita a tric-trac quando avrai finito
Ha mal di gola un direttore d'orchestra
Ti offrirò hashish da fumare quando verrai a Tunisi
Sembrano parole in rima
Una fila di piattini fiori e un calendario
Pim pam pim
Quasi 300 franchi devo dare d'affitto alla mia padrona
Preferirei tagliarmelo piuttosto che pagarla
Alle 20 e 27 partirò
In continuazione sei specchi si fissano
Mi sembra che stiamo a complicarci sempre di più
Caro signore
Siete un uomo che non vale due soldi
A un verme solitario assomiglia il naso di quella donna
Luisa ha dimenticato la pelliccia
I0 non la indosso e non ho freddo
Il Danese fuma e controlla l'orario
Il gatto nero passa per la birreria
Erano buone queste frittelle
La fontana gocciola
Nero il vestito come le unghie
Non è concepibile
Ecco signore
L'anello di malachite
C'è segatura per terra
E ciò dimostra che è vero
Un libraio ha rapito la cameriera rossa
Un giornalista che conosco del resto molto poco
Jacques attento ti dirò cose essenziali
Compagnia di navigazione mista
Mi disse guardi signore che cosa so fare in acqueforti e quadri
Io però ho solo una servetta
Dopo pranzo al caffè del Luxemburg
Una volta là mi fa incontrare un uomo grande e grosso
Che mi dice
Mi stia a sentire è divertente
A Smirne a Napoli in Tunisia
Ma dove mio Dio
Sono trascorsi otto o nove anni
Da quando sono stato l'ultima volta in Cina
L'Onore sta spesso nell'ora che segna il pendolo
La quinta maggiore
VERSO IL SUD
Zenit Tutti questi rimpianti Questi giardini senza fine Dove il rospo canta un tenero grido d'azzurro La cerva del silenzio sperduto passa in poco tempo Un usignolo in strazio d'amore canta Sul roseto del tuo corpo dal quale ho colto le rose I nostri cuori pendono insieme dallo stesso melograno E i fiori del melograno nei nostri sguardi schiusi Cadendo uno alla volta hanno ammantato il sentiero
NEL RIFUGIO-CAVERNA
Mi getto verso di te e mi sembra che tu ti getti verso di me Parte da noi una forza fuoco solido che ci scalda Si aggiunge la contraddizione per cui non possiamo rendercene conto Di fronte a me si sbriciola la parete di creta Vi sono screpolature Tracce di arnesi lunghe e lisce tali da sembrare fatte nella stearina Pezzi di crepe sono staccati dal passaggio dei soldati che si occupano del mio pezzo di artiglieria Mi è un'anima stasera svuotata vuota Si direbbe di cadervi senza fine e senza mai toccare il fondo Mancano appigli di qualsiasi tipo Quel che vi cade e vive è una sorta di esseri immondi che mi fanno male e che vi giungono da chissà dove Sì io credo che vengano dalla vita da una specie di vita che è nell'avvenire in quel futuro bruto che ancora non si è potuto coltivare o elevare o umanizzare In questo grande vuoto della mia anima manca un sole manca ciò che dà luce E oggi è stasera non la vita intera Per fortuna è solo stasera Gli altri giorni mi aggrappo a te Gli altri giorni mi consolo della solitudine e di tutti gli orrori Fingendomi la tua bellezza Per innalzarla al di sopra dell'universo estasiato Poi penso di immaginarla inutilmente E ignota a ciascuno dei miei sensi Non la conosco neppure attraverso le parole E allora è vano anche il mio piacere della bellezza Tu esisti amore mio O non sei che una entità che ho creato senza volerlo Per popolare la solitudine Sei tu simile ad una di quelle dee inventate dai greci per annoiarsi meno Ti adoro o mia dea squisita anche se esisti solo nella mia mente
RAZZO
Hai in testa un ricciolo nero che è il mio tesoro Il mio pensiero ti raggiunge ed incontra il tuo I tuoi seni sono i soli proiettili che amo II tuo ricordo è la luce che ci serve agli avvistamenti della notte
Vedendo la larga groppa del mio cavallo ho pensato alle tue anche
Ecco i fantaccini che se ne vanno in retrovia leggendo un giornale
Il cane del portaferiti torna con una pipa in bocca
Un barbagianni ali fulve occhi sbiaditi gola di micetto e zampe di gatto
Un topolino verde fila in mezzo al muschio
Il riso si è bruciato nella marmitta da campo Questo vuol dire che bisogna considerare molte cose con attenzione e bene
Il megafono grida Allungate il tiro
Allunga amore il tiro delle tue batterie
Bilancia delle batterie cimbali pesanti Che scuotono i cherubini pazzi d'amore In onore del Dio degli Eserciti
Un albero nudo sulla collina
Il rumore dei traini che si arrampicano nella valle
O vecchio mondo del XIX secolo pieno di così belle e pure alte ciminiere
Virilità del secolo in cui stiamo O cannoni
Bossoli strepitosi dei 75 Scampanate religiosamente
OCEANO DI TERRA
A G. de Chirico
Nel mezzo dell'Oceano mi sono fatto una casa Le sue finestre sono ì fiumi che mi scorrono dagli occhi In ogni luogo dei muri brulicano i polipi Ascoltatene battere il triplo cuore e il becco coprire i vetri Casa umida Casa ardente Stagione rapida Stagione canterina Gli aeroplani depongono le uova Attenzione si getta l'ancora Attenzione all'inchiostro che si getta Sarebbe bene che veniste dal cielo Il caprifoglio del cielo si arrampica Palpitano i polipi terrestri E poi noi sempre più diventiamo di noi stessi i becchini Pallidi polipi delle onde terree o polipi dai pallidi becchi Circonda la casa questo oceano che conosci E che mai riposa
LA PARTENZA
E i loro volti erano imbiancati Rotti i singhiozzi
Come la neve dai petali immacolati O le tue mani sui miei baci Cadevano le foglie autunnali
RICORDI
Due laghi negri Tra una foresta E una camicia che asciuga
Bocca schiusa sull'armonium Era una voce fatta di occhi A trascinare la piccola gente
Una vecchietta minuta dal naso a punta Ammiro lo scaldino smaltato di blu Ma il ratto penetra nel morto e ci resta
Un signore in maniche di camicia Si rade vicino alla finestra Cantando un'aria che non conosce bene Fa molto opera
Tu che ti volti al re Quasi che Dio volesse ancora morire
TESTI ORIGINALI
LUNDI RUE CHRISTINE
La mère de la concierge et la concierge laisseront tout passer Si tu es un homme tu m'accompagneras ce soir Il suffirait qu'un type maintînt la porte cochère Pendant que l'autre monterait
Trois becs de gaz allumés La patronne est poitrinaire Quand tu auras fini nous jouerons une partie de jacquet Un chef d'orchestre qui a mal à la gorge Quand tu viendras à Tunis je te ferai fumer du kief
Ça a l'air de rimer
Des piles de soucoupes des fleurs un calendrier Pim pam pim Je dois fiche près de 300 francs à ma probloque Je préférerais me couper le parfaitement que de les lui donner
Je partirai à 20 h. 27 Six glaces s'y dévisagent toujours Je crois que nous allons nous embrouiller encore davantage Cher monsieur Vous êtes un mec à la mie de pain Cette dame a le nez comme un ver solitaire Louise a oublié sa fourrure Moi je n'ai pas de fourrure et je n'ai pas froid Le Danois fume sa cigarette en consultant l'horaire Le chat noir traverse la brasserie
Ces crêpes étaient exquises La fontaine coule
Robe noire comme ses ongles C'est complètement impossible Voici monsieur La bague en malachite Le sol est semé de sciure Alors c'est vrai La serveuse rousse a été enlevée par un libraire
Un journaliste que je connais d'ailleurs très vaguement
Ecoute Jacques c'est très sérieux ce que je vais te dire
Compagnie de navigation mixte
Il me dit monsieur voulez-vous voir ce que je peux faire d'eaux-fortes et de tableaux Je n'ai qu'une petite bonne
Après déjeuner café du Luxembourg Une fois là il me présente un gros bonhomme Qui me dit Écoutez c'est charmant A Smyrne à Naples en Tunisie Mais nom de Dieu où est-ce La dernière fois que j'ai été en Chine C'est il y a huit ou neuf ans L'Honneur tient souvent à l'heure que marque la pendule La quinte major
VERS LE SUD
Zénith Tous ces regrets Ces jardins sans limite Où le crapaud module un tendre cri d'azur La biche du silence éperdu passe vite Un rossignol meurtri par l'amour chante sur Le rosier de ton corps dont j'ai cueilli les roses Nos coeurs pendent ensemble au même grenadier Et les fleurs de grenade en nos regards écloses En tombant tour à tour ont jonché le sentier
DANS L'ABRI-CAVERNE
Je me jette vers toi et il me semble aussi que tu te jettes vers moi Une force part de nous qui est un feu solide qui nous soude Et puis il y a aussi une contradiction qui fait que nous ne pouvons nous apercevoir En face de moi la paroi de craie s'effrite Il y a des cassures De longues traces d'outils traces lisses et qui semblent être faites dans de la stéarine Des coins de cassures sont arrachés par le passage des types de ma pièce Moi j'ai ce soir une âme qui s'est creusée qui est vide On dirait qu'on y tombe sans cesse et sans trouver de fond Et qu'il n'y a rien pour se raccrocher Ce qui y tombe et qui vit c'est une sorte d'êtres laids qui me font mal et qui viennent de je ne sais où Oui je crois qu'ils viennent de la vie d'une sorte de vie qui est [dans l'avenir dans l'avenir brut qu'on n'a pu encore cultiver ou élever ou humaniser Dans ce grand vide de mon âme il manque un soleil il manque ce qui éclaire C'est aujourd'hui c'est ce soir et non toujours Heureusement que ce n'est que ce soir Les autres jours je me rattache à toi Les autres jours je me console de la solitude et de toutes les horreurs En imaginant ta beauté Pour l'élever au-dessus de l'univers extasié Puis je pense que je l'imagine en vain Je ne la connais par aucun sens Ni même par les mots Et mon goût de la beauté est-il donc aussi vain Existes-tu mon amour Ou n'es-tu qu'une entité que j'ai créée sans le vouloir Pour peupler la solitude Es-tu une de ces déesses comme celles que les Grecs avaient douées pour moins s'ennuyer Je t'adore ô ma déesse exquise même si tu n'es que dans mon imagination
FUSÉE
La boucle des cheveux noirs de ta nuque est mon trésor Ma pensée te rejoint et la tienne la croise Tes seins sont les seuls obus que j'aime Ton souvenir est la lanterne de repérage qui nous sert à pointer la nuit
En voyant la large croupe de mon cheval j'ai pensé à tes hanches
Voici les fantassins qui s'en vont à l'arrière en lisant un journal
Le chien du brancardier revient avec une pipe dans sa gueule
Un chat-huant ailes fauves yeux ternes gueule de petit chat et pattes de chat
Une souris verte file parmi la mousse
Le riz a brûlé dans la marmite de campement Ça signifie qu'il faut prendre garde à bien des choses
Le mégaphone crie Allongez le tir
Allongez le tir amour de vos batteries
Balance des batteries lourdes cymbales Qu'agitent les chérubins fous d'amour En l'honneur du Dieu des Armées
Un arbre dépouillé sur une butte
Le bruit des tracteurs qui grimpent dans la vallée
O vieux monde du XIXe siècle plein de hautes cheminées si belles et si pures
Virilités du siècle où nous sommes O canons
Douilles éclatantes des obus de 75 Carillonnez pieusement
OCÉAN DE TERRE
A G. de Chirico
J'ai bâti une maison au milieu de l'Océan Ses fenêtres sont les fleuves qui s'écoulent de mes yeux Des poulpes grouillent partout où se tiennent les murailles Entendez battre leur triple coeur et leur bec cogner aux vitres Maison humide Maison ardente Saison rapide Saison qui chante Les avions pondent des oeufs Attention on va jeter l'ancre Attention à l'encre que l'on jette Il serait bon que vous vinssiez du ciel Le chèvrefeuille du ciel grimpe Les poulpes terrestres palpitent Et puis nous sommes tant et tant à être nos propres fossoyeurs Pâles poulpes des vagues crayeuses ô poulpes aux becs pâles Autour de la maison il y a cet océan que tu connais Et qui ne repose jamais
LE DÉPART
Et leurs visages étaient pâles Et leurs sanglots s'étaient brisés
Comme la neige aux purs pétales Ou bien tes mains sur mes baisers Tombaient les feuilles automnales
SOUVENIRS
Deux lacs nègres Entre une forêt Et une chemise qui sèche
Bouche ouverte sur un harmonium C'était une voix faite d'yeux Tandis qu'il traîne de petites gens
Une toute petite vieille au nez pointu J'admire la bouillotte d'émail bleu Mais le rat pénètre dans le cadavre et y demeure
Un monsieur en bras de chemise Se rase près de la fenêtre En chantant un petit air qu'il ne sait pas très bien Ça fait tout un opéra
Toi qui te tournes vers le roi Est-ce que Dieu voudrait mourir encore
Image may be NSFW. Clik here to view.Uninfluenza senza angoscia: lombra lunga di Emilio Villa nei testi di Corrado Costa
[da un intervento al Convegno che ha avuto luogo nelle giornate del 24 e 25 novembre 2016 presso la Scuola Normale Superiore, dal titolo «I Verbovisionari.
L altra avanguardia tra sperimentazione visiva e sonora»]
Il parallelismo critico tra le figure di Corrado Costa ed Emilio Villa, oltre a poggiare su una solida amicizia personale (testimoniata dal nutrito
carteggio conservato presso lArchivio «Emilio Villa» di Ivrea), ha prodotto uninteressante collaborazione artistico-letteraria, particolarmente operativa
tra gli anni Sessanta e Ottanta. Ricordo, sinteticamente, tra i testi più noti, ll mignottauro. Phrenodiae quinque de coitu mirabili (scritto a
quattro mani e pubblicato nel 1980) e The Flippant ball-feel (un testo di Emilio Villa composto ad accompagnamento dei tre poemi-flippers di
Corrado Costa e William Xerra, presentati alla Mostra del Mana Market, a Roma, nel 1973).
Per fornire un inquadramento generale dellapproccio di Costa ai testi villiani, occorre partire da alcune specificazioni preliminari: per quanto Villa sia
stato un referente delezione per il giovane poeta, Costa è riuscito ad emanciparsi piuttosto brillantemente dal modello villiano, smontandolo nelle sue
componenti fondamentali ed isolando quelle caratteristiche tecniche più utili a fondare una propria avventura sperimentale, felicemente autonoma. Per
questo motivo, si potrebbe parlare di un caso critico-clinico di «influenza senza angoscia», cercando, nel parafrasare e distorcere letichetta di Bloom,
di conservare intatto il valore dellinfluenza, da cui Costa si svincola ma soltanto dopo aver compiuto un pedinamento serrato dei testi villiani, e
operando una scelta ragionata di prelievi stilistici cui mescolare altre sollecitazioni culturali o apporti personali. Dal canto suo, Emilio Villa ha
labitudine di rivolgersi a grandi modelli del passato (dai filosofi presocratici ad Artaud, da Esenin a Eliot), scansando il dialogo diretto con i poeti
contemporanei; pertanto la figura di Costa verrà accettata in veste di compagno di strada (a volte coadiutore in opere a quattro mani), ma senza che la
collaborazione lasci tracce stilistiche o suggestioni tematiche evidenti.
Soprattutto nei testi di Costa elaborati allinterno dellarco cronologico citato allinizio (anni sessanta-ottanta), il basso-continuo villiano si impone
come referente preferenziale e quasi seconda voce argomentativa nella riflessione del poeta. Se prendiamo, ad esempio, Inferno provvisorio
(uscito nel 1970), oltre a svariate allusioni e citazioni dirette sparse nel corpus testuale, troviamo un sottoparagrafo intitolato proprio «Emilio Villa»,
una sorta di digressione dedicata alla figura-chiave nel percorso di formazione del poeta:
Emilio Villa
. Tutte le tecniche dellallusione, delleufemismo, della sostituzione si assommano. Fanno divenire il testo un GRANDE LAPSUS in una lingua intermedia fra
francese e italiano, che non è né luna né laltra, ma conserva di entrambe lenorme bagaglio culturale, il suono latino, lo spaventoso senso del sacro!
Oltraggiando se stessa la lingua diventa lepifania dellOltraggio, e qualsiasi nome si forma nel suo flusso si corrompe, si guasta, si sfregia
definitivamente. Villa, a bella posta, verifica loltraggio fuori dalla poesia per oltraggiare meglio la poesia: presentazioni per pittori, lettere,
telegrammi e altri pretesti. La (d)eclaration, contro la Dea Madre, è dedicata alle opere del pittore Giuseppe Desiato, che a sua volta ha combinato
fotografie di donne nude, abbronzate e bianche nei punti chiave dellerotismo e su questi ventri, aperti come un libro, ha intercalato violentemente la
scrittura
[C. Costa, Inferno provvisorio, Feltrinelli, Milano 1970, p. 50].
Se analizziamo questa breve parentesi monografica, notiamo in primo luogo linteresse di Costa per lordito plurilinguistico delle sperimentazioni
villiane, non nel senso di un mero collage giustapposto di lingue eterogenee (un verso in italiano, uno in francese, uno in inglese e così via),
ma come riappropriazione dellorigine linguistica e della tradizione etimologica che ripercorre la catena semantica di ciascun idioma. Costa parla di una
«lingua intermedia fra francese e italiano, che non è né luna né laltra, ma conserva di entrambe lenorme bagaglio culturale [la cronologia storica della
sua trasmissione], il suono latino, lo spaventoso senso del sacro [lorigine sacra della prima Parola]». Se la prepotente originalità dellimpalcatura
linguistica è stata più volte notata da critici e altri scrittori (tra cui Andrea Zanzotto, in un acuto intervento comparso sul numero monografico del
Verri nel 1998), il secondo focus riguarda, invece, limportanza del «fuori», secondo un paradigma filosofico di area francese che Costa adopera
ammiccando a un lessico decostruzionista alla Derrida o alla Foucault, pensatori più volte citati dal poeta. Per Costa, la critica darte, i quadri
degli amici pittori, le lettere, gli apparati extratestuali, insomma, costituiscono un innesco imprescindibile della poetica villiana, che Costa
ricostruisce nei termini di una letteratura-sfregio, per analogia con il paradigma di Artaud (la cui lettura è stata probabilmente suggerita allamico
proprio da Villa). Il pretesto, il paratesto, lextratesto agiscono, quindi, come vettori di «anarchia» (per rimanere nellarea semantica di Artaud), ossia
come principi di ordinamento alternativi allOrdine stabilito. La centralità degli apporti esterni e i prestiti (lessicali e di concreta impalcatura
visiva) provenienti dal settore artistico giocano effettivamente un ruolo fondamentale nella presentazione di unopzione sperimentale originale e autonoma
rispetto alla coeva Neoavanguardia.
Per riassumere, a Costa interessano in primo luogo la disposizione dialogica delle voci (gli idiomi) chiamati a reagire sul foglio, in secondo luogo la
combinazione tra dato artistico e riqualificazione del medesimo in contesto letterario. Qui Costa cita come esempio larticolo villiano dedicato alle opere
del pittore Giuseppe Desiato, intervento nel quale Villa combina a un archetipo universale quello della Grande Madre- le suggestioni plastiche della sua
traduzione pittorica, ritraducendole una seconda volta entro le convenzioni del linguaggio letterario.
Per spiegare le dinamiche di questo parallelismo critico, ho ritenuto istruttivo mettere a confronto due opere (una di Villa dedicata a Costa e,
simmetricamente, una di Costa dedicata a Villa), adoperandole come cartine tornasole del confronto (ben poco biunivoco) tra i due poeti. Partiamo da Emilio
Villa; scartabellando tra le carte del Fondo conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, è possibile rintracciare una cartellina che reca la
titolatura Scegliendo Pel da Pelo. Cristomazia lirico retrospettiva inedita 1944 1970 a cura e hasard del medesimo. Per Corrado Costa [cart.
2]. Questo faldone assembla materiali eterogenei (da un punto di vista cronologico, stilistico e di genere), tra i quali risulta pressoché impossibile
gettare un ponte tematico che ne unifichi le istanze; questa apparente disomogeneità rappresenta una costante di numerosi indici o prospetti villiani, che
spesso rispondono allesigenza primaria di pubblicare e promuovere testi rimasti inediti, attraverso proposte editoriali che compattassero i risultati più
significativi di una determinata fase poetica). I materiali isolati da Villa nellindice ( [Ana]tomie, Cep 1950, Comizio millenovecentocinquanta3, Hepatos) presentano una genesi autonoma e indipendente da qualsiasi implicazione con
Corrado Costa, e la dedica allartista costituisce unappendice posteriore, esterna alla strutturazione dei componimenti stessi. Villa non scrive dei testi
con lintento di ammiccare o ispirarsi a Costa, ma decide in un secondo momento (biografico e artistico) di raccoglierli e dedicarli allamico, apportando
lievi ritocchi e alterando la datazione originaria. Ad esempio, la seconda poesia, CEP 1950, è in realtà una rielaborazione (con scarse e poco
rilevanti variazioni) di una poesia conservata presso lArchivio di Reggio Emilia. Per quanto riguarda la prima poesia, [Ana]tomie, la
collocazione cronologica al 1944 costituisce sicuramente una retrodatazione autoriale, confermata anche dalla differente grafia e tratto di penna
utilizzato per la sigla finale «dicembre 1944». Ancor più esplicito il travaso di unopera come Comizio millenovecentocinquanta3, con una storia
editoriale certificata e autonoma (una prima pubblicazione nel 1959, in unedizione oggi non reperibile ma attestata in tutte le bibliografie villiane, e
una seconda edizione risalente al 1962). I testi citati nellindice, pertanto, non si qualificano come opere in cui il legame con la poesia di Costa
risulti funzionale (come innesco originario oppure, al contrario, come direzionalità finale), ma piuttosto come momento riassuntivo/retrospettivo in cui
Emilio Villa rappresenta, in forma di dialogo con lamico, una sintesi dei propri lavori precedenti, senza lambizione di ricostruire un percorso evolutivo
lineare.
Ancor più evidentemente postuma, per così dire, alla collaborazione con Costa risulta la raccolta The Flippant ball-feel: per quanto
lavvertenza villiana iniziale formalizzasse il testo come «codice di lettura da inocularsi nella Messa in Opera dei Flippers» [foglio n. 1] di Corrado
Costa e Wiliam Xerra (adoperando un termine, come quello di «codice di lettura», che parrebbe sottintendere una funzione direzionata in modo esplicito
alloggetto artistico in questione), tuttavia anche in questo caso il testo risulta un collage di esperimenti precedenti. Questa indicazione
preliminare era significativamente assente dalla versione del testo uscito per «Marcazero» il 22 luglio 1972; inoltre, per rendere il testo meno slegato
rispetto al presunto destinatario finale, Villa inserisce ex abrupto alcuni segnali testuali denotativi (ad esempio, nel foglio n. 8, il periodo
ipotetico retorico che recita «Se trovate qui nei paraggi Corrado Costa ditegli che si dice così»).
Le potenzialità visive e concettuali del gioco del flipper applicato alla letteratura (con il risultato di una scrittura provocatoriamente combinatoria,
che, nel riutilizzare le icone della società dei consumi, allestisce una parodia della Pop art, chiamando i suoi oggetti a reagire con archetipi eterni la
Grande madre, il Logos eracliteo, il principio presocratico del Pneuma, e così via-) erano già state saggiate da Villa negli anni precedenti, come
dimostrano un numero consistente di carte manoscritte dedicate al medesimo tema. Queste pagine testimoniano un accanimento programmatico nel testare
unimmagine (come quella del flipper di poesia) che non si rivela quindi un commento estemporaneo e su commissione per accompagnare le opere di Xerra e
Costa, ma un pretesto per organizzare materiali già meditati e collaudati in precedenza.
Questo esempio sintomatico dimostra come il percorso di Emilio Villa si eserciti serenamente in parallelo rispetto agli artisti con cui sigla una
collaborazione autoriale; spesso, infatti, linfluenza del coadiutore trova soltanto riscontri accidentali (unetichetta nominale, un breve cenno dintesa,
e così via). Questo espediente vale quantomeno per le collaborazioni poetiche, dove Villa persegue un proprio obiettivo direzionale e difficilmente riserva
un margine a compromissioni stilistiche (di mimesi parziale o parodia) dellautore con cui si trova a lavorare. Per quanto concerne il rapporto con i
pittori e artisti, la questione è più spinosa ed è opportuno scindere il discorso in due ramificazioni: da un lato le raccolte poetiche destinate a essere
intervallate da tavole grafiche, dallaltro gli scritti teorici del Villa critico darte. Nel primo caso, il tasso dincidenza dellartista con cui opera
Villa risulta piuttosto basso; ad esempio, le 17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica sono state stampate, con disegni e
pitture di Burri, nel 1955. Tuttavia, non soltanto la presenza del pittore di Città di Castello, a livello testuale, appare nulla (in questo caso non
troviamo neppure una telegrafica citazione o apostrofe nominalistica), ma addirittura esaminando le carte dellarchivio di Reggio Emilia si può dimostrare
come alcune variazioni fossero originariamente destinate a una collaborazione con Corrado Cagli, e poi riconvertite, senza modifiche sostanziali,
per il nuovo progetto artistico. Tale approssimazione cinica allo stile e allo sguardo del collega pittore risulta spesso spiegabile attraverso motivi
strettamente pratici, legati alla maggiore vendibilità del prodotto (si pensi alla collaborazione con Guttuso, di cui pure conosciamo il parere non certo
positivo di Villa). Per quanto Villa accetti apparentemente di inserirsi entro il circuito mercantilistico, lo fa secondo le sue regole e senza tradire una
propria idea di poetica testardamente indipendente dalle sollecitazioni coeve.
Nel secondo caso (ossia per quanto riguarda gli articoli e i contributi di critica darte), invece, Villa dimostra una certa duttilità e capacità plastica
di dare una veste letteraria alle forme visive da lui selezionate. Per quanto rientrino spesso, in alcune pagine teoriche, riflessioni e spunti personali
non direttamente inerenti alla descrizione dellopera in analisi, tuttavia le pagine su Burri, Fontana o Mimmo Rotella dimostrano unacuta capacità di
restituire, in forma poetica, i valori plastici dello stile pittorico dellartista, attraverso unadesione stilistica e immaginativa al ritmo personale di
ogni artista; anche in questo caso, con alcune eccezioni, legate a testi su autori meno noti, scritte rapidamente come esercizi personali di scrittura
piuttosto che come commento alle operazioni figurative menzionate. Daltronde, in una lettera inviata a Tagliaferri e oggi pubblicata in appendice alla
nuova edizione degli Attributi, Villa scrive:
Per me si tratta di documentare una milizia di ragione logonevrotica, una azione di natura strettamente abissale, non di saggi sui nomi indicati. I nomi
che ci sono non sono scelte di valore (in nessuno dei sensi possibili) ma solo cadute, casualità, irritazioni, impennate, scatti, spari. Non centra la
storia dellarte contemporanea e tanto meno la critica. E non è saggistica. In questo magma cè un nome solo, ed è il mio, gli altri sono più o meno
fittizi, come supporti. E la mens generale, il torbido totale, la febbre che scivola dentro, quello che fa il libro. Che sia De Kooning o che sia Desiato
fa lo stesso.
[E. Villa, Attributi dellarte odierna 1947-1967, nuova edizione ampliata a cura di A. Tagliaferri, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 390-391]
Questa precisazione cautelativa è valida per alcune digressioni spiccatamente villiane e magari meno direttamente compromesse con lo specifico
dellartista, ma non è sicuramente operativa nei saggi più importanti (dalle pagine su Burri, in primis, a quelle su Rothko, Sam Francis e così
via). A volte, addirittura, questo accesso fortemente personale agisce come pungolo sullartista oggetto di commento, diventando la base teorica
orientativa per la futura produzione dellautore. Spesso, infatti, gli artisti isolati da Villa non possiedono unautocoscienza critica spiccata, e Villa,
anche villanizzandone i presupposti inaugurali, tuttavia riesce a impartire una direzione positiva e costruttiva di mediazione tra opera e sua
ricollocazione teorica, in quella che il poeta stesso ha definito «una potenza che in parte è parassitaria e in parte generativa dellarte che aggredisce»
[Attributi dellarte odierna, op. cit., p. 379]. Nel parlare attraverso il filtro della propria poetica dirompente, Villa stimola gli artisti ad
incanalare la propria auto-esegesi entro punti di passaggio imprevisti ma che vengono spesso assorbiti nel progetto dellautore; è risaputo che fu Villa,
nel 1953, a esortare Rotella sulla strada dei manifesti lacerati, oppure a spronare Ettore Colla ad adottare legni e metalli scartati per le proprie
sculture, oppure ancora a scoprire per primo e a sostenere in sede critica le potenzialità di Alberto Burri o Piero Manzoni. Come vedremo in seguito, lo
stesso Costa sarà condotto a sperimentare, attraverso lopera fittiziamente dedicata a lui, The Flippant, alcuni espedienti grafici e di sintassi
matematica che probabilmente non avrebbe approfondito senza linnesco villiano.
Per quanto Costa e Villa si muovessero nellambito del medesimo retroterra culturale, tuttavia le rispettive sperimentazioni presentano rari punti di
tangenza, divergendo negli obiettivi e nei presupposti iniziali, nonché negli esiti concreti. Si può significativamente accostare The Flippant ball-feel ai Tre poemi-flippers di Xerra e Costa per quanto concerne il collante (grafico e stilistico) più evidente, vale a
dire il gioco linguistico, il calembour sagace; in entrambe le raccolte, lidea di giocare a smontare il linguaggio e la sintassi tradizionale
(forzata a seguire i percorsi a zig-zag di un ideale flipper poetico) innesca una serie di bisticci lessicali, ma Costa e Xerra rivelano un base comunque
ricostruttiva [foglio n. 1]:
il padre atterra
di sotto se mi va
come voi desiderate in due
legati stanno sotto, insomma
neanche anche non parlo.
VELLO BELVA PALLA tenue
fino al frutto interrato, pallido
sottoterra con le sue labbra miti anche
mano la FUORI conico contro neanche cosa
Desidero RICEVERE LUCE
nella vulnerazione, nella MORTIFICAZIONE
nella mortificAZIONE, svirilizzazione
del VIR ERETTO era CARPONI
[ ]
ORA sabbia lentamente trae
sottrae con 2 mani
il RE di COLLA OSA NIENTE da dire.
Nel testo qui presentato, le parole enfatizzate dal carattere maiuscolo creano, se lette in successione, un canto alternativo che convive con la lettura
ordinaria della poesia, espediente grafico che non annulla ma accresce la fruizione unidirezionale del testo (pur richiedendo sempre una collaborazione e
una sorta di sovrappiù creativo alla fantasia del lettore). Limpressione generale, pertanto, è quella di un compromesso rassicurante tra mancanza di un
significato forte e creazione di controcanti alternativi che guidino il lettore, evidenziando alcuni nuclei portanti da porre e suggerendo comunque un
percorso orientativo in cui il fruitore possa lasciarsi guidare.
Invece, per quanto riguarda Villa, labitudine di separare graficamente le parole in coppie binarie (prefisso più sostantivo) crea spesso un effetto
contrario di spaesamento e deriva del significato, in quanto linserzione di un semplice trattino (o di parentesi tonde) determina unambiguità tra il
significato standard che la parola avrebbe nel suo allineamento consueto e la suggestione determinata dalla segmentazione delle sue componenti. Vediamo ad
esempio, nella già citata raccolta The Flippant ball-feel: «(d)estin(a)zione» [foglio n. 17] (dove la biforcazione destinazione/estinzione sembra
suggerire che ogni traguardo coincide con la sparizione definitiva); oppure «immane(nte)» [foglio n. 14] (in cui il concetto metafisico di immanenza
convive con quello di un ente immane); oppure ancora le coppie «(in)divisibile» e «(in)separabile» [foglio n. 8], in cui i due significati opposti
coesistono nella loro antitesi irrisolta; e così via.
A questo punto, passerei allangolatura prospettica di Costa e alle impronte villiane impresse sulla superficie dei suoi testi. Come abbiamo già ricordato
allinizio, e come osserva Aldo Tagliaferri nel suo contributo al catalogo Il titolo lo mettiamo dopo [Biblioteca Panizzi edizioni, Reggio Emilia
2012], il tasso maggiore dincidenza villiana si registra tra la metà degli Anni Sessanta e la metà degli Anni Ottanta. Andando a consultare linventario
dellArchivio Costa conservato a Reggio Emilia, possiamo notare come proprio al 1967 risalga un testo che riporta, sin dal titolo, il nome del poeta ( Ripetibile. Per Emilio Villa) [cart. 32]. Più che il testo, pubblicato su «Nuova Corrente» nello stesso anno e concepito come montaggio variato
delle stesse tessere lessicali (capelli, denti, vestito, occhi, forbici, e così via), ricomposte e dislocate sulla pagina in sei modalità differenti (dalla
a alla f), a noi interessano le annotazioni manoscritte confluite nel faldone reggiano, che legano direttamente il testo ai temi di Inferno provvisorio (entro cui avevamo già messo in rilievo la digressione su Emilio Villa). La dedica a Villa, a differenza di quanto visto per
il poeta di Affori, non pare affatto una contingenza posticcia, ma anzi accompagna il titolo in tutte le versioni che precedono il dattiloscritto
definitivo, come una componente strutturale nellideazione del testo.
Così come, in Inferno provvisorio, Costa aveva isolato il tema della Grande Madre presente nellintervento sul pittore Giuseppe Desiato, allo
stesso modo il nome di Villa torna qui ad innestarsi su una base psicanalitica-sociologica di ritorno agli archetipi portanti dellinconscio collettivo
junghiano. Villa venne sicuramente a contatto con la psicologia analitica di Jung quando da giovane frequentava il circolo iniziatico-esoterico di Corrado
Cagli (si veda, ad esempio, il catalogo del 1982 a cura di Enrico Crispolti). Un riferimento testuale diretto a Jung compare nell Arte delluomo primordiale, il testo più vicino, assieme allintervento su Desiato, allangolatura prospettica scelta da Costa. In una pagina di
annotazioni allegate alla raccolta, Costa cita una serie di referenti bibliografici (dal Frazer del Ramo doro a modelli letterari come la
poetessa Luisa Giaconi, Gozzano, Licini e così via), accostati a promemoria tematici di area psicanalitica (ad esempio liniziazione, lo svezzamento, la
masturbazione, landrogino, la necrofilia, etc.).
Costa sembra cercare, in questa sede, una combinazione tra il concetto villiano di archetipo (interpretato, da Costa, come emergenza di energie primordiali
che «oltraggiano» il mondo moderno con la propria persistenza sacrale) e il lessico junghiano (che riconnette queste idee a un patrimonio sociale condiviso
e, in generale, a unidea di inconscio cui Villa non fa direttamente riferimento). Questa doppia influenza (villiana e junghiana) interna alla ricerca
simbolica di Costa credo che motivi la compresenza, nel suo complessivo posizionamento teorico, di un eros inteso come potenza primordiale e di un eros
come vincolo di relazioni psicologiche che si instaurano entro un ambiente comunicativo e politico condiviso. Da qui, forse, la necessità iniziale di una
distinzione, scrive Costa, tra «prelinguaggio» e «linguaggio paranoico» [foglio n. 1], che pure arrivano a combinarsi dialetticamente nella riflessione del
poeta. Non ritengo, pertanto, che limpostazione stessa del lavoro di Costa sia casuale; così come per Villa è centrale la natura iterativa del sacrificio,
inteso, in primo luogo, come ripetizione di un gesto che provoca un potenziamento simbolico di se stesso se pensato entro una catena sequenziale (le linee
verticali incise serialmente sulle pietre dai primitivi, su cui Villa si sofferma nel suo saggio dedicato allArte delluomo primordiale), così
Costa sembra voler replicare, in ambito poetico, questa duplicazione rituale delle stesse tessere lessicali, promuovendo a livello stilistico quella che
per Villa doveva porsi come prassi rituale del sacrificio primitivo. Si arriverebbero, così, a comprendere anche i riferimenti bibliografici a testi di
antropologia o studio delle comunità primitive presenti negli appunti di lavoro allegati alla raccolta costiana. A questa altezza cronologica, Costa poteva
essere venuto a contatto con la prospettiva villiana sul contrassegno rituale arcaico soprattutto grazie agli interventi oggi raccolti negli Attributi dellarte odierna, dove compaiono, ad esempio, un riferimento al sistema ideogrammatico (per Sante Monachesi [p. 160]), levocazione dei
lastroni di Monte Bego (per Capogrossi, Basaldella ed Ettore Colla), la «memoria delle palafitte» (per Alberto Burri [p. 44]) e così via. Insomma, negli Attributi Villa sembra tentare un cortocircuito positivo tra la sperimentazione artistica più contemporanea e le tecniche di progettazione
spaziale e di architettura simbolica isolate nelliconografia primordiale, che potrebbero aver avuto qualche ricaduta incantatoria sulloperazione di
Costa; il poeta, infatti, sembra qui mescolare tale iterazione ossessiva e tribale tipica del sacrificio antico a influenze più ludiche e meccaniche
suggerite dal collage dadaista.
Lo zampino villiano è ancora più evidente in unopera inedita intitolata Continuando a parlare in tema di silenzio e datata 1970-1975.
Innanzitutto, il testo ruota attorno ad un tema in sé centrale nella poetica villiana, ossia quello dellafasia come rischio di interruzione terminale
della comunicazione ma anche come componente positiva interna al linguaggio. Scrive significativamente Costa, proprio a proposito di Villa, che «nel vuoto
comincia a essere parlato un parlare senza parlare». Oltre alla prossimità tematica, linfluenza del poeta di Affori è registrabile in alcune scelte
tipografiche, prima fra tutte la predilezione per una formalizzazione matematica adoperata come paradigma poetico, una sorta di nuova figura retorica a
cavallo tra il visivo e il letterario. Lutilizzo di parentesi graffe, di simboli matematici, indici numerici interni al messaggio poetico, che aiutano il
concetto a disporsi sulla pagina incanalando i versi entro un percorso operazionale simile a quello di unequazione, non poteva evitare di guardare in
parte agli esperimenti coevi di Villa. Se ci rivolgiamo proprio alla raccolta The Flippant ball-feel (indirizzata a Xerra e Costa e pertanto, si
può presumere, non sconosciuta a questultimo), possiamo vedere unimpostazione impressionantemente simile: i nuclei poetici vengono immessi entro
strutture algebriche o geometriche che dividono lidea in singolarità essenziali (in parte espresse attraverso il linguaggio ordinario, in parte sostituite
da numeri astratti); spesso lastrazione è sottolineata dal ricorso allo Zero o ad esponenti ennesimi, che allontanano lequazione dallipotesi di un
computo razionalmente quantificabile. Costa sembra esercitarsi a partire dallo schema villiano e anche la riflessione relativa al «senso» viene ad
intersecarsi con una serie di riflessioni analoghe condotte da Villa negli stessi anni. Se prendiamo in considerazione, ad esempio, le Note sul concetto di senso [Biblioteca Panizzi, cart. 17] e le mettiamo in parallelo con alcuni fogli di Costa, scopriamo una sorprendente
reciprocità (anche a livello di impaginazione matematizzante). Costa si interroga qui sull«origine» e sul significato del silenzio, adoperando un lessico
che occhieggia in modo esplicito alluniverso di discorso villiano, ad esempio nel riferirsi al «microsenso», che Villa, nelle Note sul concetto di senso, aveva chiosato nei termini di una «unità di misura infinitamente piccola» che è il «prodotto tra senso e non senso
nella loro unità di misura iniziale» [foglio n. 1]. Nella pagina di Costa questo «microsenso» sembra collocarsi specularmente «tra un silenzio A
intimamente ripetuto dopo un microrumore B»; qui silenzio e rumore sembrano porsi come corrispettivi sinonimici del senso e del non-senso villiani.
Inoltre, il sostrato lessicale di queste pagine rimanda allo stesso retroterra concettuale di un testo, scritto da Villa e M. Diacono per Ettore Innocente
e uscito nel 1970, in cui ritroviamo lespressione adoperata anche da Costa del «nessun senso ciclico» e lidea che sia impossibile catturare la nozione di
senso, giacché essa risulta uneterna tensione tra linfinito dei possibili significati e lassenza radicale di significato; da qui la percezione di una
ciclicità del senso e la proposta di sostituire laccezione rigida di «senso» con quella plastica di «varianza universa» dei significati. Nelle Note sul concetto di senso, leggiamo: «senso è = pura variazione (cioè non è variazione di qualche cosa, ma solo variazione, solo il variare, non
il divenire, ma lesser vario, in atto, in gesto» [foglio n. 1]. Lo stesso meccanismo di variazione perpetua viene applicato da Costa alla nozione di
silenzio («1 2, 3 microsilenzi)n» [foglio n. 2]).
Questopera costituisce, tuttavia, se non uneccezione, una deviazione rispetto alla norma, per quanto concerne lopera di Costa; probabilmente, pertanto,
dobbiamo leggere questi appunti manoscritti come un prospetto, un aggiornamento personale di Costa che prova a replicare alcune modalità di impaginazione
del dettato poetico sbirciate sul tavolo di lavoro villiano.
Per rimanere nello stesso ventaglio di anni, sarebbe interessante disegnare una mappatura generale di temi che potremmo in senso lato definire villiani, e
che sembrano suggestionare Costa in alcune emergenze testuali. Ad esempio, nellopera intitolata Montagna bianca [Biblioteca Panizzi, cart. 42]
(datata 1978), viene il sospetto che leraclitismo di fondo che permea la prima sezione possa essere un portato della frequentazione con Villa (che dedicò
alla scommessa sui presocratici numerosi accenni in sede teorica e poetica-) [foglio n. 1]:
in alto [o
sotto]
[sopra,
sopra] in alto
sopra una linea azzurra
immaginaria
[sopra ] cè
una linea più azzurra
che è impossibile immaginare
] cè
nello spazio destinato a
contenere una impercetti-
bile linea più azzurra
una superficie
in alto [o davanti
Un incipit come «in alto o sotto, sopra, sopra, in alto», che poi verrà a cadere nella stesura definitiva, si legava direttamente al frammento eracliteo
«via in alto via in basso una sola la medesima» che Villa riutilizza spesso, in forme più o meno esplicite, ad esempio nei già citati Attributi dellarte odierna. È difficile pensare che Costa non tenesse conto di quella che prima ho denominato scommessa sui presocratici, che
costituisce un tratto marcatamente originale nel canone villiano rispetto ai modelli spesso evocati dai poeti italiani a lui coevi, avvicinandolo ad
esempio a Eliot, maestro dichiarato di Villa, che aveva scelto di dedicare lepigrafe di The Dry sauvages proprio a Eraclito. La filosofia
presocratica diventa una costante lessicale allinterno degli interventi teorici e, materialmente, nelle poesie di Emilio Villa, contribuendo a conferire
ai versi quella retorica sapienziale che ancora oggi costituisce uno dei tratti più interessanti e originali dello stile villiano, soprattutto se calata
nel contesto secondo-novecentesco (Neoavanguardia, da un lato, e predominio del paradigma montaliano, dallaltro).
In conclusione, vorrei tirare le fila, in modo sintetico, dei vettori preferenziali entro cui sarebbe interessante in futuro tracciare le linee del
rapporto Costa-Villa. Dal raffronto tra la «cristomazia» di Villa (Scegliendo Pel da Pelo) e il testo di Costa ( Ripetibile. Per Emilio Villa), emerge da un lato la spiccata autonomia villiana rispetto al canto delle sirene dellintertestualità contemporanea,
dallaltro, invece, la permeabilità di Costa alle suggestioni villiane. Costa sembra, infatti, saggiare e sottoporre alla prova dellapplicazione concreta
alcune istanze teoriche tipiche della riflessione villiana, al punto che, soprattutto attorno agli Anni Sessanta, credo sia possibile isolare un certo
numero di esercizi di stile e di ritraduzione dal villiano al costiano. Tuttavia, lopera di Costa non si può e non si deve ridurre al lavoro compilativo
di un epigono, anzi il suo merito è quello di aver saputo operare una selezione fortemente personalizzata dei motivi villiani da riprodurre (ad esempio,
leccesso di formalizzazione matematica, dopo lo scartafaccio Continuando a parlare in tema di silenzio, verrà presto abbandonato in quanto troppo
distante dalle forme ordinarie della poesia di Costa), e in secondo luogo dallessere riuscito a non farsi piegare dal carattere inglobante e malioso della
Sibilla villiana, continuando a perseguire alcuni tic (come quello dellossessione modulare e iterativa) non spiegabili soltanto a livello di prestiti
villiani. Anche per quanto riguarda il canone letterario, il ricorso ad autori aggiornati con i tempi (Wittgenstein, Foucault, Derrida), del tutto assenti
nellopera del monolitico Villa, ha contribuito a rendere al tempo stesso radicale e indolore il passaggio da una prima fase di bloomiana influenza (per
quanto tutelata dagli anticorpi di una solida personalità poetica) a una fase di sereno allontanamento dal modello, alla ricerca di nuovi padri speculativi
da emulare. Con un pizzico di malignità si potrebbe dire che Costa ci appare oggi un poeta originale perché, ispirandosi più o meno liberamente a diverse
fonti, ha prodotto un coacervo effettivamente personale e caratterizzante, in cui la singola suggestione viene annullata nel flusso di influenze esterne
(di ambito filosofico, antropologico, poetico, visivo), che egli ha saputo riconvertire in un linguaggio personale e autonomo. Tuttavia, la radiazione
fossile dellinfluenza villiana si manterrà anche quando, a partire dagli anni Ottanta, lasse preferenziale di interesse si sarà spostato da un lato verso
i contenuti filosofici più recenti, dallaltro verso forme di visualità più marcate.
Linfluenza esercitata da Villa, in conclusione, viene a sedimentarsi serenamente in un gioco di interrelazioni tra modelli, che elimina langoscia
bloomiana in unintertestualità spensierata, rendendo la sperimentazione di Costa un gioioso e divertito collage di riferimenti culturali, lontano
dai toni allarmati e apocalittici di tanta avanguardia novecentesca, e incline piuttosto al ludus, al carillon delle forme eterogenee, in un
teatro dinamico di figurazioni visive in cui Villa viene a collocarsi senza dubbio come fondale di scena, di fronte al quale le nuove maschere vengono a
disporsi, nel corso degli anni, senza riuscire mai a coprire del tutto lo sfondo originario. (chiara portesine)
***
Chiara Portesine (Genova, 6 marzo 1994) studia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove svolge ricerche relative alla poesia sperimentale del
secondo Novecento (con unattenzione particolare per il Gruppo 63 e autori come Pier Paolo Pasolini, Edoardo Sanguineti, Emilio Villa e Andrea Zanzotto).
Per quanto riguarda la prosa, si è occupata dello statuto del personaggio allinterno dei romanzi di Carlo Emilio Gadda, dellHilarotragoedia di
Giorgio Manganelli e della trilogia Il dio impossibile di Walter Siti. Si è dedicata, inoltre, alle intersezioni tra discorso filosofico e
letteratura attraverso un seminario sulle influenze di Antonin Artaud interne al pensiero di Jacques Derrida e sui rapporti tra Pasolini e la biopolitica
(in un articolo, in fase di pubblicazione, intitolato Pasolini «biopolitico»? Ipotesi, abiure e cautele critiche per una categoria). Da due anni
si occupa dellopera villiana, con unattenzione rivolta alla sistemazione filologica delle carte manoscritte, a problemi legati alla variantistica e alla
consultazione degli archivi del poeta.
Il 16 novembre è uscito un libro, scritto a quattro mani con Aldo Tagliaferri, intitolato Emilio Villa e i suoi tempi. Finestre per la monade
(Mimesis, 2016). Nello stesso 2016 si è laureata presso lUniversità di Pisa con una tesi triennale dal titolo
Emilio villa e il periodo-finestra degli anni Cinquanta e Sessanta. Appunti per unanalisi filologica e stilistica della
transizione al «visivo».
Le illustrazioni sono tratte da Emilio Villa - The flippant ball-feel, Stampa Gi Bi, Piacenza, 1973