Qualche considerazione sparsa partendo da uno spunto. Ho scritto qualche
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fa su FB: "La parola deve essere decisa". Ora, dei pochi che
hanno commentato, nessuno ha colto un paio di cose essenziali. La prima
riguarda il vocabolo "decisa", la sua intima ambiguità: decisa come
aggettivo qualificativo?, o decisa come participio passato di una forma
riflessiva? Tralasciando il fatto che la frase è nel primo caso
assertiva e imperativa, nel secondo sibillina e sciamanica, l'altra cosaè che, con ogni evidenza, in entrambi i casi qualcuno deve pur...
decidere, su questa parola: o riguardo al suo carattere (anche le parole
ne hanno), o riguardo alla sua scelta o selezione. Comunque sia il
problema è tutt'altro che marginale, specie in ambito artistico. Siamo
nel campo del paradigma, per dirla con Jakobson (e prima di lui De Saussure), e cioè là dove chi comunica deve selezionare le sue brave parole. Dopodichè deve decidere (appunto) che farne. Deve scendere cioè sul terreno della combinazione delle parole medesime, per farne una frase (sintagma),
un verso o quel che vi pare. Fin qui tutto regolare: in prima battuta
si fa una scelta "sulla base dellequivalenza, della similarità e della
dissimilarità, della sinonimia e dellantinomia" (Jakobson), poi si
costruisce la frase sulla base della "contiguità", cioè della
"accostabilità" delle parole, ad esempio in termini sintattici o di
contesto o logici oppure, in ultima analisi e meglio ancora, di
metonimia. Ma Jakobson aggiunge una cosa interessante, in relazione alla"funzione poetica" del linguaggio: che essa proietta il principio
dequivalenza dallasse della selezione allasse della combinazione.
Lequivalenza è promossa al grado di elemento costitutivo della
sequenza. D'accordo, ma che significa? Intanto, cos'è la funzione
poetica? In parole povere si ha una funzione "poetica" del linguaggio
quando l'attenzione, la cura, l'accento riposti nella selezione (delle
parole) vengono spostati in maniera rilevante - rispetto al messaggio in
sé, al cosa dire - sulla modalità di
comunicazione, quando cioè "nella concreta esecuzione del linguaggio
poetico lequivalenza, la similarità degli (tra gli) elementi (parole,
sintagmi ecc.) prevalgono sulla loro contiguità e cioè sulle regole
stesse della successione" (V. Coletti, voce "Lingua poetica", in "Treccani.it"). Quindi, in parole povere, la funzione poetica del
linguaggio si prende la briga di ricombinare, di rompere o sostituire la
norma, di scegliere ad esempio sulla base del suono invece che della
logica, di deviare. Ovvero si prende la briga di come dire.
E' ovvio che la poesia non sta tutta lì (è uno dei limiti delle tesi di
Jakobson e dello strutturalismo in genere), c'è naturalmente
dell'altro, e lo dimostra il fatto che la "funzione poetica" è lo
strumento principe per l'invenzione di quegli slogan politici o
pubblicitari, così poco poetici, che ci rompono l'anima tutti i giorni
(del resto lo stesso Jakobson avverte che "ogni tentativo di ridurre la
sfera della funzione poetica alla poesia, o di limitare la poesia alla
funzione poetica sarebbe soltanto una ipersemplificazione ingannevole").
Ma alla fine e in estrema sintesi tutto questo discorso vuol dire che è
il poeta a decidere non solo se una parola "equivale" a
un'altra, ma anche se un costrutto, un suono, un azzardato accostamento
semantico hanno diritto di cittadinanza nel testo, se sono equivalenti
quanto e più di una struttura ordinaria. E' il poeta a decidere il suo
personale linguaggio sregolato.
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Perchè questo lungo sproloquio intorno a cose note? Solo un discorso
ellittico (poteva essere diversamente?) per tornare alla nostra parola
che abbiamo detto deve essere decisa. Il problema di molte cose che leggo (e che probabilmente scrivo anch'io) è un difetto appunto di decisione.
Che non sta tanto nella selezione di cui si diceva prima, anche se
(fattore che forse Jakobson ha tralasciato) per scegliere bisognerebbe
pure avere un'idea di quello che il menu della lingua offre, cioè avere
un ventaglio di opzioni lessicali che invece molti indizi fanno supporre
che si stia drammaticamente restringendo. Questo certo è un fatto, una
questione eminentemente culturale, che riguarda non solo chi non sa, ma
anche chi preferisce non sapere, chi sceglie la via più semplice (penso
ad esempio all'impoverimento del linguaggio giornalistico e dei media,
all'ipersemplificazione). No, questa è solo una parte del problema, dato
che si può fare eccellente poesia anche con un vocabolario tanto
ristretto da essere iperselettivo. Un breve esempio, tra i tanti:
Sono donne che sanno(G. Caproni)
così bene il mare
che all'arietta che fanno
a te accanto al passare
senti sulla tua pelle
fresco aprirsi di vele
e alle labbra d'arselle
deliziose querele.
D'accordo, ho fatto un esempio estremo, per molte ragioni (vocabolario
volutamente semplificato, primazia del suono e della forma, anastrofe,
francesismi, una velata metonimia ecc.), di un testo in cui la selezioneè accuratamente asservita alla funzione poetica (degli elementi ad
esempio ritmici e rimici: è evidente che il mare non "si sa", che l'aria
non "si fa" ecc.). Ma non basterebbe tutto ciò. C'è qui (ripeto, è solo
un esempio tra infiniti) un altro paio di cose essenziali al fine
poetico: la messa in scena di un'intera compatta sinestesia, tre robusti
agganci isotopici (mare, vele, arselle), uno strepitoso finale trappola
che ti fulmina, con quel termine inusuale, e ti costringe a fermarti a
immaginare quale sapore senta davvero il poeta sulle labbra. O
quale forse egli sogni di sentire sulle labbra delle ragazze livornesi
che passano cicalando in quel lontano 1938. Ma quel che è più rilevante è
che in questo piccolo testo di un grande poeta, nella sua semplice
leggerezza, c'è molto poco di "contiguo" in senso spaziale, temporale o
logico nella scelta delle parole, poco di "combinato". La contiguità è
quella ben più alta dell'io dell'autore con il momento, un io
molecolare, tanto calato nel momento da scomparire del tutto. Quindi
l'impressione di naturalezza che dà l'aria zampillante e sorgiva di
questi versi è assolutamente vera e contemporaneamente del tutto falsa, come abbiamo appena visto. Qui tutta la selezione è orientata abilmente sulla funzione emotiva ed è tale che, in effetti, senti l'"arietta" attraversare la trasparenza dei versi.
Il problema di molta poesia che si legge e che si scrive oggi è di segno contrario. Se la base principale del linguaggio è la convenzione sociale che lo regola (ciò che De Saussure chiama langue), una delle spinte che funziona di più nella comunicazione ordinaria è, per ovvie ragioni, la consuetudine.
Per quanto sia possibile riscrivere gran parte del corpus poetico
italiano utilizzando (quasi) soltanto le 2500 parole del "Vocabolario ad
alto uso" di cui parla il De Mauro, uno dei punti critici rimane il
meccanismo mentale che ci spinge a stabilire un'equivalenza "minima" o
consuetudinaria tra selezione e combinazione. Cioè, in altre parole ci
porta, magari dopo essersi lambiccati il cervello, a scegliere una
soluzione "facile" o comoda, anzi - come ho avuto modo di dire spesso - confortevole, appagante, sequenziale ("Aspettavo.
/ E mentre aspettavo / ho visto le foglie d'autunno / seguire il corso
del loro declino; / morire nel rosso, / già gialle". Già, in effetti
avrebbe potuto andare diversamente? Forse sì, se la poesia fosse stata
surrealista). C'è quindi, come ho cercato di sottolineare, un difetto di
decisione in questo tipo di scelta. Che, a pensarci bene, non è
dissimile dalla scelta che fa chi scrive qualcosa del tipo "il tuo
in(de)finito amore": diciamo pure che chi pensa di risolvere la
questione in questo modo, cavandosela con poco, sbaglia di grosso (con
una battuta direi che qui più che poetico il problema è sentimentale,
con buona pace dell'autore). E ancora, ma con qualche differenza, tutte
quelle parole composte che ho trovato specie in molta poesia femminile
(sanguelinfahumus, tradiscetrasgredisce, ventretempio ecc.), una specie
di necessità di "gravidanza" delle parole, che però da una parte crea
qualche confusione dall'altra denuncia, ancora, un difetto di
focalizzazione del pensiero, là dove invece starebbe bene, ne sono
convinto, magari una bella similitudine. E', per usare termini
calcistici, un fallo di reazione rispetto a ciò che si diceva poco
prima. C'è infatti almeno un altro punto critico, a mio avviso, quello
che sta all'opposto, sempre in termini di selezione/combinazione: una
ricerca artefatta del discontinuo, del lontano, dello straniante o
dell'urtante (un esempio "antico", anni '70: "sicchè carpeggi
nell'autorimettere donna / franchezza acclamàti per lustra o demanio /
oh pomario, sacchi di menticata senza grugni..." o anche, più recente:
"Lo spettro è divenuto barriera cancerogena / quando sei apparsa
immacolata dalla stiva del tuo cranio / immobili discendenze facciali
altrimenti dette rughe / han preso piede nella morsa dei ricordi dentro
me" (*). Ovviamente stiamo parlando solo di alcuni tra quelli che
potrebbero essere punti critici in un testo poetico.
La poetica del semiasse, come la chiamo scherzosamente, riguarda quindi
soprattutto, dal mio punto di vista di lettore, un elemento
disturbante, un disequilibrio, un appiattimento all'interno del testo,
come se appunto la mancanza di una delle direttrici, dei vettori,
rendesse il testo "monodimensionale", afasico, senza una sostanziale
prospettiva, una profondità. Non so se riferirsi ai vecchi strumenti
citati all'inizio sia ancora utile, è una cosa forse da indagare (in
ogni caso lo è nella misura in cui può concorrere alla comprensione del
valore del testo). Certi strumenti, certo, non rendono mai spiegabile
quel che di indicibile rimane nel linguaggio poetico. E certamente la
parola poetica, se mai avesse un compito e un diritto, ha quello di
essere in primis anti consuetudinaria e anti conservativa. Ma ha anche
quello di essere decisa, almeno nei termini che qui ho cercato di intravedere. (g.c.)
(continua, forse...)
(*) i brani citati sono tutti autentici. Ne ometto gli autori perchè in questo contesto sono solo degli esempi.