
Segnacoli di Marina
Conosco la poesia di Marina Pizzi da un po', almeno dal 2006, quando
pubblicai una prima piccola nota sul blog "Imperfetta Ellisse". Dovrei
averne una certa dimestichezza, quindi. Ma con Marina non si può mai
sapere. Perché, non ostante la sostanziale invarianza nel tempo della sua
scrittura, come stile e come "forma" delle sue parole, c'è qualcosa nei
suoi versi che ogni volta apostrofa il lettore, richiamandone l'attenzione.
Credo però che sia qualcosa che interpella lei per prima, qualcosa
di necessitante che non ha trovato riposo in tutti questi anni. Perché è
potenzialmente incessante, un flusso che trova la sua prima evidenza nella
numerazione seriale dei suoi testi, e poi una sistemazione con la
pubblicazione su carta, in diversi libri, una sistemazione che tuttavia
sospetto essere inquieta, in teoria suscettibile di essere rimessa in
discussione. Il suo lavoro mi è sempre parso, forse a torto, un unico work in progress, con un nocciolo tematico duro che riguarda
soprattutto la domanda di una ragione, o una giustificazione se volete,
della vita e dei suoi accidenti, cioè del suo perché. Una
questione tutt'altro che generica, credetemi, tanto vasta quanto
sufficiente ad innescare quel flusso necessitato di cui si diceva.
Sufficiente cioè a generare quella pressione che si scarica da ultimo sulla
lingua, ma prima ancora, per usare una metafora, nel cranio e sui denti
dell'autrice. Una pressione fortissima che ha bisogno di essere
verbalizzata, ma che prima ha bisogno di essere selezionata, di essere
filtrata tra quei denti serrati. L'angoscia di Marina è, in fondo, che per
questo scopo non ci sia altro mezzo che le parole. Quali parole? Scelte
come? E' questo, secondo me, l'atto doloroso della scrittura di Pizzi,
l'emergenza creativa che nasce magari da una semplice scheggia,
un'assenza, una domanda d'amore.
Pizzi rientra a buon titolo nel novero degli autori "difficili", come
Amelia Rosselli (forse suo nume tutelare), come in parte Antonio Porta,
come Marco Ceriani o l'enorme ma poco noto Augusto Blotto, o come altri,
alcuni dei quali per un po' della loro carriera hanno "sperimentato",
approdando poi ad altri lidi. Marina non è così, è invariante,
come ho detto prima, non sperimenta. La pressione, raffreddandosi,
non può che solidificare così, in queste forme. Nel tempo mi è parso di
rilevare alcuni snodi, che soprattutto con la lingua/parafulmine hanno a
che fare. Se è vero che per Marina non c'è altro mezzo che le parole, mi
pare anche vero che in lei c'è una sostanziale e contemporanea sfiducia nel
mezzo, nella intrinseca ordinarietà della lingua. Che pertanto
deve essere sottoposta, nell'atto di poetare, non tanto ad una torsione,
termine quanto mai abusato, ma ad una lacerazione, una disarticolazione nei
suoi tessuti connettivi, per andare a vedere se al di sotto di essi c'è
un'anima, un significato coerente. Significato di che? Di quella vita che a
Pizzi appare pesante, e forse poco felicemente abitabile, ma anche di una
morte che viene costantemente "contemplata". La lingua a volte sembra
esserne mero epifenomeno, di una realtà che è troppo sfuggente per essere
amata o compresa o rispetto alla quale ci si sente inadeguati; o sembra
essere il rumore di fondo, l'"ambiente sonoro" (G. Lucini) di una
lontanissima galassia. Da questo punto di vista in passato avevo scritto
che "la poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore, la
sua scrittura e' ego-centrata e in quanto tale e' pura rappresentazione del
mondo (o della sua non riproducibilità) cosi' come lo vede l'autrice" e che"da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo
supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri
riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella
propria psiche. E' una specie di viaggio esoterico, di riconquista di
codici". Codici che riguardano soprattutto quello che chiamavo il
particolare sistema metaforico (o metonimico) di Pizzi, nel quale non vige
tanto l'accostamento, la (vero)simiglianza, quanto la distanza siderale, e
dove non cè niente da confrontare perché le cose si sustanziano alla sua
sensibilità di poeta di ben altre qualità, sono letteralmente
qualcosaltro, qualcosa più concettuale o cognitivo che meramente retorico
("mia madre è stata un piatto / da schianto sulla terra / una leccornia di
vita", Plettro di compieta, 2015; "Arazzo di comete fu la fine /
Del rantolo finalmente alato / Lì giù mio padre che chiama ancora / E la
madre che dimprovviso si fa / Poliglotta. Miracolo dandarsene / Cortesi
oltre il cimiteriale corso", inedito). Un linguaggio, come si
vede, in larga misura economico, perché veicola molto con poco,
pur dissipando in quel poco molta energia, un linguaggio molto vicino alla
"sorgente" del pensiero, ma anche ad una percezione quasi nervosa del
dolore e della "privazione" (intendendo questo termine in senso ampio).
Paradossalmente, tuttavia, quella lingua "limitata", tanto da doverla in
qualche modo riformare, diventa materiale plastico, elastico, anche col
ricorso a metri non proprio canonici (per quanto spesso si affacci
l'endecasillabo) ma senz'altro fonici, e anche con una certa liricità
connaturata ai temi più intimi, quando emergono ("essere in vita è un
criterio sperduto / un alunno senza lavagna né voce / di maestro", Segnacoli di mendicità, 2014, ma gli esempi possono essere
molteplici). In definitiva ciò che serve nell'affrontare la poesia di Pizzi
non è tanto una cocciuta richiesta di senso, o di comunicazione immediata,
quanto essere disposti a quello sforzo supplementare di cui parlavo.
Leggere, rileggere, individuare i temi, che invece sono chiari. Farsi
domande. Queste domande, alle quali una risposta forse arriverà forse no,
sono il senso della lettura della poesia di Marina Pizzi. (g. cerrai)
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