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Elia Malagò, due plaquettes - Addendum a Lalange

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Per espresso desiderio dell'autrice, che ringrazio, pubblico conElia Malagò grande piacere, in aggiunta al post del 6 gennaio dedicato a Elia Malagò, il testo completo della plaquette lalange da cui avevo estratto solo due poesie, con la prefazione di Antonio Prete, seguito dall'altra breve raccolta pubblicata sempre da Fuocofuochino nel 2015, dal titolo del disamore, con prefazione di Zena Roncada. Entrambe le plaquettes dovrebbero rientrare, insieme a diversi altri testi, nel prossimo libro a cui Elia sta lavorando con impegno da qualche tempo, un lavoro che personalmente attendo con grande interesse. Con l'occasione ringrazio anche l'editore Afro Somenzari per la sua amichevole disponibilità.


lalange


La poesia di Elia Malagò è resto di una lingua cancellata. Un restoche prende respiro e energia, e sale verso la libertà dell’immagine e verso la parola essenziale e necessaria. In questo movimento, aspro e dolce insieme, la lingua porta con sé un sentire che conosce la ferita, il limite, lo scacco del desiderio. Un sentire che sa sporgersi
sul vuoto di senso, sul dolore del mondo, su quel “pianto disseminato” che è poi la storia degli uomini. Con questa nuova lingua – la riconoscibilità del poeta è proprio nell’edificazione di una nuova lingua, quella “langue nouvelle” di cui diceva Rimbaud – la poesia di Elia Malagò può farsi interrogazione del visibile, e allo stesso tempo dialogo con il visibile, con il suo mostrarsi e il suo nascondersi, con il suo distendersi nel paesaggio fluviale e il suo ritrarsi nell’aridità. Un universo stranito, opaco, doloroso prende campo: parvenze di quel che è assente, frammenti di una memoria d’infanzia che non lascia detriti ma corpi e gesti e luoghi vividi nella loro lontananza, sguardo sulle ferite e sulla cenere che il sapere della civiltà ricopre di indifferenza. Il desiderio non cessa di confrontarsi con i suoi orizzonti occlusi o offuscati. Ma in una natura che mostra la sua potenza e talvolta il suo patto con l’apocalissi, si aprono a tratti cieli liberi e fluttuano immagini di forte presenza, di cui “l’estate che correva per mare e scollinava” è quasi emblema. Che sia fosca o limpida la scena, i versi collocano
ogni volta il lettore di colpo nel mezzo dell’accadere. Ma tutto accade nella lingua, nel suo prendere luce e vento, suono e respiro, senso e dolore, libertà e vigore. Questo accadere nella lingua è la poesia.
Antonio Prete


lalange

1

ho dimenticato la lingua del pianto

e non so più
i sapori che a cascata stanziano sotto il naso
insalano le labbra guazzano il mento
sbriciolano il silenzio e
idioti
mescolano muco e arcani
vergognandosi

mi vergogno di queste parole
liberate
sconosciute
                                           forsanche blasfeme

2

dico te ma sento me

non ho lingua e preghiera tua
che trapassi scorticata
e venga fuori a brani
gutturi
inson
miei

3

so che non c’è lingua

cantilena forse
di passi d’altri
contati in sonni non sognati
in notti di prima
che il tempo ha sottratto

so che di quella lingua
cancellata

da qualche parte
resta un chiodo
una polvere
                                       bluastro il barlume

Nota. lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla


soglie

ma quante ce ne sono prima che l’oltraggio basti

limiti che la verità buca con una sfrombolata
e viaggiano e viaggiano
viaggiano findove si spacca la terra
si sfalda il muro di tufo
precipitano gambe e braccia

i piedi ancora nella sabbia
gli occhi già inghiottiti dal sale

quando tutta quest’acqua finirà di sole
e vento, comincerà la conta


il margine

non lo aggiusti come ti pare la mattina
che s’è placata la tramontana

non è la siepe che togli il dissuasore
si apre nonostante le spine

il margine è maestro che si prende corrente
garbino piene e rottami
conta i passi e le infamità
confida nei due gradoni del sottobanca
raccoglie confidenze e segreti
mulina l’aria di colma e si gonfia di collere indicibili

ma non lo aggiusti
non si aggiusta

ti ci devi mettere davanti
senza socchiudere gli occhi
spegnere


libera

solleva questo piombo di cielo

contro la quarta parete che cade fitta
di nubi a frastorno d’aria fogliame
e rabbiume

- diciotto anni prima che ancora la luna
s’avvicini tanto
misure e percentuali calibrate
il faccione di matto fisso
lì che ci guarda

da qui a diciotto fanno un mazzo di steli
l’erica svasata l’estate appena scorsa

l’estate che correva per mare e scollinava
senza campo a cercare menta e rosmarino
avvitata lì
a una menzogna che rabbiosa e cattiva
si urlava dentro la sete

la fame

che ha traversato il deserto
e succhia le ossa che trova


ogni desiderio spento

te la figuri la notte che non s’accende
quando lo scuro incappa il cielo in un sacco di plastica
e lo tiene stretto tra stelle scariche e antichi lallalli
spersi nel deserto?

che calenda di tempo e sperpero
che splendore d’occhi

                                   tutto questo pianto disseminato




del disamore

La poesia di Elia Malagò si nutre di silenzi e lunghi scavi: attraversa cavità carsiche, poi erompe e trova voce per un’interna necessità. Quando vince la resistenza del riserbo e dell’indicibile, diventa un urto di immagini e parole, potente nella sua verità.

Qui, nei cinque ‘respiri’ del componimento, la poesia restituisce l’ecografia del disamore, costruendo un ponte fra la superficie (l’evidenza di una vita e di un tempo ormai a pezzi) e il lavorio occulto di talpe, larve e formiche, che ne ha logorato le radici e ne ha costruito le ombre e la fragilità.
Se il disamore, infatti, si rivela all’improvviso e incrina la quieta “lastra” del non vedere, del non ascoltare, del non dire, prima del suo affacciarsi/spalancarsi ha, però, già camminato dentro la vita, ha inquinato le ragioni dello stare insieme, ha seminato spine e intermittenze stonate.
Per questo nel prefisso dis- Elia non riassume soltanto il difetto, l’anomalia, la negazione, la diserzione d’amore, ma condensa la suggestione di un processo di lenta, insinuante, impercettibile macerazione: un inagrirsi del sentire.
Non dà, dunque, definizioni che fisserebbero quanto è mobile e progressivo, per ripercorrerne, invece, la vena sotterranea: sonda l’invisibile, la “ragione equivoca e livorosa”, scioglie (in verbi di cova e di sfaldamento) la sostanza imprendibile del sentimento, sospesa fra il vapore, il pulviscolo e le scaglie senza forma del pietrisco.
Ci lascia con la sensazione di una muta, inarrestabile colonizzazione: il disamore, nel suo farsi, non conserva niente d’intatto, neppure la memoria dei giorni buoni. Annebbia e svela, consuma pure le orme e i ricordi: “le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta”.

Zena Roncada


del disamore

I

lo scopri per ultimo e per caso

il disamore

sotto una lastra sottile di foglie
un poco macere d’acqua di riporto
o una grandinata di mezza estate
su uno sgrondo non curato

s’impasticca di larve e frutti che cadono acerbi
- forse metteranno manti di tigre o
magari faranno nido
in un brusìo -

al riparo svolterà il solito autunno

Lì covano fiele e arsura
il pianto raggelato e
nel fondo
deposita silenzioso
il formicaio del rancore

II

il disamore è talpa insonne che inebria nelle caverne di tufo
smotta e cumula insonora
la cova
dissigilla segreti e sfarina
pulviscolo senza impronte
Poi un giorno di luce né forte né piana
un giorno di questi
bassi su meridiano polso e mediastino
un giorno ordinario che scorre sul binario
e dietro risucchia l’orma di conserva

un giorno che fa somma e non si dispiace

quel giorno lì

spalanca le fauci rapido mostra

III

Cova come tutto il resto

cova figlia e s’invola
foss’anche in cabina guardaroba a sventolo
sulle stagioni e il disordine che tanto

cchessarrammai

doppiare consonanti
abbassare le vocali

spingere l’acceleratore spegnere i fari andare a manetta

a manetta
la manetta della scarpa che morbida calza
- vedi se conta la marca - sfrega il tappeto
e tornisce duro il valgo nell’impronta

IV

e il tempo frantuma in scaglie e pietrisco
un deserto di rose spinate crescono senza mostrarsi
ci sono e lo sai
perché gli occhi anche spinano

la vita va in pezzi piano piano come una cataratta
che si riprende le fughe del pavimento

lentamente le hai perse
fino a non cercarle più

intermittenze senza sussulto

V

tra l’una e l’altra vago il fruscìo

quello che sfonda l’uscio forse più liberato
le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta

nessun rendiconto
ché nessuno l’ha tenuto

il disamore è ragione equivoca e livorosa
trova un incaglio e depone
come il vapore sui fossi all’alba d’agosto
il deposito dell’ invisibile

                                                  come quando hai il nome nella mente
                                                  ma la linea che scorre sotto le palpebre

                                                  circumnaviga il viso ombra le labbra

                                                  e lì sul luminare lascia leggera
                                                  la striatura
                                                  della lumachella notturna
                                                  che insegue l’aura di una goccia
                                                  di sete


Elia Malagò (Felonica Po, 1948) si è laureata in Letteratura Italiana con Ezio Raimondi. È scrittrice e promotrice di attività didattiche legate alla poesia e alla scrittura creativa. Ha lavorato per la Forum - Quinta generazione e curato testi e antologie poetiche. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia tra le quali Ci dev'essere un posto (Firenze, 1967), Saranno gli altri a testimoniare (Forlì, 1968), I discorsi di sempre (1970) con cui ha ottenuto il Premio Cervia, Buffa sonagliera (1978), Pita pitela (1982), Maree (1986), Incauta solitudine (Passigli, 2010),  Golena (2014). In prosa, L’ombra ripresa (Sabatelli 1988, TreLune, 1999; dal 2007 ufficialmente libero da ogni
contratto editoriale). Per FUOCOfuochino ha pubblicato del disamore (2015) e lalange (2017). Vive a Mantova.



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