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Elia Malagò - Lalange



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Elia Malagò - Lalange
Elia Malagò - Lalange - Ed. Fuocofuochino, 2017

Eccolo qua, un altro libriccino artigianale, quasi fatto a mano, un'esile creatura di cinque fogli A4 piegati in due e spillati, stampati dalla "più povera casa editrice del mondo", messa su da Afro Somenzari in quel di Viadana ( www.fuocofuochino.it ), con un catalogo che, insomma, mica male. Se nel caso di Viola Amarelli la tiratura si attestava su 120 esemplari numerati (v. post precedente), qui siamo all'edizione speciale numerata in venti copie, tutte autenticate da "un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova l’originalità". Ma non siamo al minimalismo, né allo snobismo, né al samizdat. Sono "solo" entità poetiche che amano manifestarsi così ai nostri occhi.

Di Elia Malagò  ho già parlato qualche volta (v. QUI), sebbene non quanto avrei voluto e dovuto sia per il suo valore sia per l'amicizia che mi ha sempre dimostrato. Valore che questo libretto non smentisce, nella estrema sintesi delle sue sette poesie, nella raffinatezza del versificare, nella trasparenza della scrittura, sempre costante da molti libri a questa parte. "Lalange  è un refuso della memoria di lalangue  con cui ciascuno si parla", scrive Elia in una nota. Sappiamo a cosa allude: in primis, al di là del rimando culturale, a quel "resto di una lingua cancellata" di cui parla Antonio Prete nella brevissima introduzione. Cioè qualcosa che va (come solo poeticamente è possibile fare) oltre il neologismo di conio lacaniano che, come altre idee dello psicanalista francese, si presta a interpretazioni ed equivoci che qui non ci interessano. Il refuso/lapsus in questo contesto prende la sua rivincita, guarda caso freudianamente verrebbe da dire, sulla "tecnica" lacaniana (cioè qualcosa che è interno alla disciplina), perché viene da qualcosa di più profondo e personale che nemmeno avrebbe bisogno di definizioni, dalla memoria. Niente è per caso. Se lalangue  è la lingua preverbale, quella abitata dal corpo e con cui il corpo si parla, se è l'aspetto primevo e materno della comunicazione, il refuso ci dice che la poesia ha già agito su di essa, raddolcendola e riportandola al livello simbolico che è proprio del linguaggio. Qui lallazioni, incertezze, regressioni non ce ne sono, o almeno non servono come idoli sperimentali. Ci sono eventualmente invenzioni/restauro di parole dai molti echi (frastorno, rabbiume, sfrombolata, calenda, garbino, verbi come guazzano, insalano), cioè - mi pare - recuperi di "antichi lallalli spersi nel deserto". C'è ancora quello che avevo scritto a proposito di Golena, "è certo che in quanto a parole Elia lascia poco o nulla al caso, la sua è una scrittura esatta", senza nessun tipo di compiacimento. C'è ancora la limpidezza dello sguardo con cui Elia osserva le cose, la sua pianura, sempre presente anche quando non espressamente evocata, e le idee. E tuttavia la riflessione sulla lingua c'è ed è l'oggetto principale di questi versi. Ma, a differenza di altri esempi rinvenibili nella poesia contemporanea, Elia non ne fa metapoesia, cioè non pensa alla sua lingua concettualmente. È semmai una riflessione radicale, proprio nel senso di una "liberazione" alla radice della parola, di un suo "etimo" implicito, perfino di una sua "blasfemia", ovvero di una rottura violenta del canone. Il punto è che Elia sa, o si domanda, se da qualche parte c'è una lingua cancellata, un idioma di cui rimane qualche segno, qualche "chiodo". Se scrive "ho dimenticato la lingua del pianto" non vuole dire che non sa più descrivere il dolore col linguaggio ma che il linguaggio del pianto non risuona più a dovere in lei, e c'è necessità di qualcosa che potremmo definire empatia del sé. La lalangue  lacaniana? Forse, ma qui si tratta se permettete del primato della poesia, come linguaggio specifico. Non si tratta di sciogliere un nodo psicoanalitico, si tratta di attingere a profondità diverse da quelle meramente psichiche, scendere al di sotto di certe superfici, recuperare un livello di comunicazione senza orpelli salvandone nel contempo la carica poetica. La ricreazione di una nuova lingua "esatta", ciò che ha tutta l'aria di essere un'evoluzione. (g. cerrai)


lalange

1

ho dimenticato la lingua del pianto

e non so più
i sapori che a cascata stanziano sotto il naso
insalano le labbra guazzano il mento
sbríciolano il silenzio e
idioti
mescolano muco e arcani
vergognandosi

mi vergogno di queste parole
liberate
sconosciute
                                               forsanche blasfeme






soglie

ma quante ce ne sono prima che l'oltraggio basti

limiti che la verità buca con una sfrombolata
e viaggiano e viaggiano
viaggiano findove si spacca la terra
si sfalda il muro di tufo
precipitano gambe e braccia

ì piedi ancora nella sabbia
gli occhi già ínghiottiti dal sale

quando tutta quest'acqua finirà di sole
e vento, comincerà la conta



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