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Caterina Davinio - Alieni in safari

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Caterina Davinio - Alieni in safari - Robin edizioni 2016Caterina Davinio - Alieni in safari - Robin edizioni 2016 (con testo inglese a fronte a cura di David W. Seaman e 42 fotografie scattate dall'autrice)

Forse in certi luoghi della Terra dovrebbero averci fatto l'abitudine, ormai. L'abitudine cioè a quegli "alieni" di cui parla Caterina Davinio nel suo ultimo libro. Fotografie e versi, scatti e impressioni poetiche dal mondo esotico frequentato da occidentali che però non sono più Pierre Loti, né Bruce Chatwin, ma nemmeno (o almeno si illudono di non essere) i turisti charter frustati dal tempo e "pacchettizzati". Alieni perché, come dice l'autrice in una nota, perché siamo "stranieri senza radici, che amiamo perderci per imparare qualcosa di noi che non sapevamo, atterrati da un'astronave in paesi ignoti", ma - aggiunge Francesco Muzzioli nella prefazione - "restando inevitabilmente 'intrusi', 'estranei' e 'illegittimi' in un contesto che non ci prevede e che la vacanza non basta ad approcciare". E allora a che serve il viaggio, magari ritornando negli stessi posti? Io mi fermerei qui, a questa interessante contraddizione tra il cercare (forse) qualcosa e l'essere intrusi, estranei e illegittimi (forse anche a sé stessi). Se si pensa a questo, forse allora il viaggio non diventa altro che un transfert dell'immaginazione, un vedere il mondo come lo si immagina che sia, anche magari dal punto di vista di una"cultura" di cui ci si è imbevuti; oppure un "divertimento" nell'etimo del termine, cioè un deviare dal percorso usuale, e allora, alla fin fine, ti viene il sospetto che equivalga a un "voyage autour de ma chambre", cioè a vedere il tuo mondo da un'altra prospettiva, cercare di vedere te stesso meno alieno di quel che ti senti.



Io credo che nel libro di Caterina ci sia anche questa consapevolezza, a conti fatti, di una impossibilità, in un mondo globale, di delocalizzare la propria identità, di spostare i problemi, di essere diversi da quello che siamo (e del resto Caterina dice ne La mia nascita: "Fin da allora fui io" e "Dove fui sarò"). L'"altrove" è ovunque e l'"altro", rimbaudiano che sia o meno (cosa più probabile), è sempre più uguale a noi. Il pittoresco locale porta i Ray Ban, il leghista nonsiammicarazzisti e aiutarlincasaloro te lo ritrovi in Kenya. Viene meno il mondo diverso,"innocente" e parallelo della cultura alternativa, rimane un sentimento profondo, forse un po' melanconico e nostalgico, rimane il conforto prezioso della vastità della natura, dell'oceano, del mondo che puoi ancora contemplare popolandolo di pensieri, di dei benevoli e laici, di poesia. O anche un mondo visto dal di fuori, dall'alto, come farebbe appunto un alieno a bordo di un'astronave, ma non in arrivo bensì che si sta allontanando dopo una fuga precipitosa da una catastrofe, come avviene in testi come Il pianeta o L'Italia vista dallo spazio. Caterina è brava a rendere questi sentimenti basici, fondamentali. O quelli di un ritorno, forse non meno "alienato", a casa, ai luoghi natii, alle città nostrane (Roma, Lecco, Heidelberg, Novoli in Sicilia), luoghi dell'affetto e della decantazione di un percorso ellittico che poi, in finale, riporta irresistibilmente alle spiagge di Goa e Bombay, come riflessi abbaglianti di una vita precedente. Come pure è brava ad accendere autentiche visioni del cosmo come nella rutilanteUna finestra e una storia infinita o a rinnovare affettuosamente cadenze beat venate di divertenti echi futuristi e palazzeschiani come in Goa (Goa trance).




Certo Caterina non è come scrittrice un "viaggiatore immobile" o "sedentario", come diceva X. De Maistre, tanto che sono dell'idea che dovrebbe essere letta in contesto, come un unico libro o diversi libri uno accanto all'altro, trasversalmente o parallelamente, poiché la sua scrittura tende ad essere così legata all'esperienza diretta (quindi poco simbolica, poco metaforica in senso stretto) che in realtà ha scritto e sta scrivendo un unico libro, nel quale da una parte si parla d'amore, dall'altra di malattia dell'anima e di esperienze estreme, dall'altra ancora di attraversamenti e riattraversamenti di confini alla ricerca di chissà cosa o di sé stessa (v. anche, per assonanze e consonanze, Aspettando la fine del mondo, QUI). Ma mi pare che ci sia una patente pacificazione in questa poesia, un appeasement anche generazionale, un segno della variazione dei tempi e di un clima complessivo o anche di una realizzazione se vogliamo. E' naturale che sia così, direi. La lontananza dalle lacerazioni drammatiche e coraggiose di libri come Il libro dell'oppio (v. QUI) o anche come Fenomenologie seriali (v. QUI), è evidente. Là lo sguardo e la scrittura erano rovesciati in un incolmabile vaso interiore, qui c'è uno sguardo meno affamato, spesso lirico/malinconico, a volte contemplativo e libero da inquietudini, espresso in testi anche molto belli (v. ad es. qui sotto titolo), uno sguardo rivolto ad un orizzonte lontano sull'oceano, come se gli alieni in fondo avessero visto quasi tutto quello che c'era da vedere, prendendo coscienza di sé non tanto come soggetti di una sociologia del turismo, quanto come uomini e donne che, a Goa come sul balcone di casa, devono alla fine fare i conti col tempo ("Oggi che il tempo / ha reso sagge le membra ma non la pietà"). Ma da Caterina c'è da aspettarsi di tutto. Per fortuna. (g. cerrai).


da AI VENTI DELL'EQUATORE

Goa (Goa Trance)

Festa
al centro del mondo-fiore
tuttointorno
a cerchio
universo e le stelle.

La piccola figlia
vesticolore
profilata sul lungoceano nell'onda che batte la riva
come una lingua
(slap
slaap)
ispirata da precettori dei
a ginniche destrezze d'eros
e fluttuante
in etilica trance
di chiara pelle discinta prosciolta
si snoda su per il cosmo
- in agguato il nulla dietro forme tremanti -
svincolata estesa
e di sottile caviglia
fragile e azzurra
lì dove il mare risucchia sabbia preziosa
scritta per la penna di un dio
da un dio più mansueto
che slitta rasente terra alle caviglie
negre scansioni di tempo.

Ritmi e timbri crogiuoli cimbalìi
gorgògli ribòlli elettrònici
in ellittica fusione
schizzi e spruzzi di maremoto
emateriaelettronica-a-sprazzi
tecno-sciacquìo di cimbèrli rìtmici agàin
e sciabordìo rollìo
crepitìo
e stridobàttito
stridobattìo
scalpìccio-e-muvemènt-o
lento-Tramest-st-st
-stìo
strèpito-sciacquìo
sciacquàio e sciac-conquàsso
strobotuòni
et eterni ritorni dinamici
martellocosmico-cacatapùlta onirica
oscillazione psiche-edelica
tumb-ciuf sdrang ciulf-fìu
rolllliìo trillo vibròtromo
bassocontinuo ossexionato
e via, su astronavi siderali,
fino all'a-pice, alla punta del cosmico disordine
della stellare anarchia
dell'universale eccezione
della totale celeste s-freccia scoccata
su in alto, più
de-lospaziocelèste
de la volta di psycotronìe
che sciaborda (splic-splock)
come catino pieno
rubinetto ubriaco
(plock, plo-plockk...) sintonizzzz-zzzz-zzscrscrrshhhzz
-arsi
sul canale scrzzz del rivo corrosivo d'energia
spiovìggia-vìa scorre liquida disciòlta
trasmigrando paese e corpo
la vigorosa svolta angolocàmbio-auménto
curva sterzata giro dis-viràta
dis-ancoràta
dis-ancòra-ménto
decollo
(atleti del caos)

Goa!-Festa!
al cuore del mondo-fiore
tuttointornoacerchio
l'universo e le stelle.
***Infinito***




Calcutta

e brulichio festoso
di biciclette, di stracci
ossa nude e occhi raggianti
di vecchi santi
divertiti
dalla diversità
nostra,
barocci e
sorrisi pazienti di
madonne
dal velo policromo
screziato
tra banchi di frutta
e scranni di colore,
carri cigolanti e
marci chiodi ritorti;

rotolò nelle cose
animate
e in quelle inerti
con il suo fuoco
il grande uno.

Stracciandoci tutta
l'anima bianca,
quell'animella
da niente
desiderosa di stare al mondo,
di rallegrarsi
al senso
di una lunghissima
fine,
in quella capitale
d'impero
squassata
da un madore rosa
da pensieri rosa
da un infinito sudiciume rosa
dall'infinito tutto
rosa.




Mercato dei fiori (Calcutta)

Non so dirti le onde,
marosi avviluppanti di scapole
schiene
turbanti
gomiti
zigomi
e fiori;
non so dirti gli stracci
le corde
le traiettorie
le tettoie e le scimmie,
e non so
l'odore marcescente
e il riflesso iridescente
il colore lancinante
l'arancio e il giallo
e la calca
la forza e il caldo
la fatica e l'allegrezza
delle lunghe foglie
d'immensi fagotti in
precario equilibrio
su teste vaganti
in moto perpetuo,
e dei fiori.
Quintali di fiori
corolle e ghirlande
stracci e ghirlande
sorrisi e ghirlande
ricami e ghirlande
da perdersi,
pezzetti di cielo tra baracche
e corolle
cumuli di corolle
strati e piramidi di corolle
aulenti, possenti
onnipresenti esalanti;
e non so dirti
la mia lunga fuga, la mischia
i rigagnoli e il fango,
inciampando nella verzura
multicolore
scandalosa e urlante.




L'Africa sognata dal Brasile

L'Africa
sulla costa
lontana
annuì
con il collo
delle giraffe
oltre le onde
selvagge spumose
d'Atlantico
conturbanti
agitatoci
oltre la sabbia
d'oro e vetro
e falesie a picco sulla rabbia del mare
in successione infinita,
troppo grandi
per abbracciarle.
L'Africa attende
silente
colma di profumi
e coloratissime vesti,
immaginazione
e nausee,
danze tribali
e monili saltanti
su neri décolletés
come il colore vivo
del buio
quando brilla
sulla notte
lucente.




Alieni in safari

La savana
Si sfilaccia
Ai lati,
Sfrecciamo
Nella terra di altri.
Intrusi,
Estranei,
Illegittimi
Ladri di vento
E di erbacce,
Furfanti
Ingordi
Di nuvoloni bianchi
Sull'azzurro
Più intenso,
Della terra grassa
Di zolla fangosa
Sull'orlo di pozzanghere
Come spicchi di cielo
Caduti,
Di polvere rodente
Sulle palpebre,
Calpestata
Da orme inquiete
Di predatori,
Dal lungo solco concavo
Del serpente,
E penetriamo avidi
Lo stagno
D'ippopotami sdegnosi
L'acqua rosa
E il cielo rosa
E il verde rosa,
Quasi rosa,
L'aquila attenta
E il babbuino rissoso,
Un bufalo accaldato
E la famiglia del cinghiale
Che s'infratta nella boscaglia.
Noi, rapitori immorali
Degli occhi dolci dell'elefantessa
Sinuosi
E schivi
Come le ragazze
Del luogo.

Essi, costoro, noi,
Intendi?
Di nuovo lì, in pista, e il crepitio
Dell'obiettivo;
Venivamo in parecchi
E non ne potevate
Dei sorrisi,
E dell'amor
Sconsiderato,
Delle grosse ruote
Che vi ferivano la terra,
Squassavano le zolle grasse,
Vi mettevano in fuga le prede,
Di noi gesticolatori
In lingua aliena e fuori posto
Festosi
Con gli inutili giocattoli
Dalle bizzarre forme:
Pneumatici,
Cerchioni,
Camionetta,
Binocolo,
Obiettivo-cannone
E radio frusciante,
Cose di ferro
Che non odorano di buono,
Che valevano una capanna
Un ettaro, un fiume;
Corteggiatori poco attenti
Ardenti di provetto
Amore,
Non vi concedemmo tuttavia
Di scampare il
Maniaco attaccamento
E, nell'intervallo di un click,
Subito guizzammo via
Come demoni
Invasati di caccia,
Per l'universo
Di nascoste voci,
Tutto intorno per l'azzurro
Delle lontananze.




Una finestra e una storia infinita
(Ai venti dell'Equatore)


Su te non scriverò
una poesia:
le striature rosa
mi sorpresero dopo
un notte estesa,
stremante;
le ginocchia
molli,
il cappotto come una vela,
lì dove l'aria volteggiò docile,
dentro cui s'infilò la latitudine
come l'abbraccio
di un amante giovane.

Soperchiando dirompeva
il sonno,
umoriva il corpo di ore,
segregazione,
legami
e chiusi le tende per non vedere
l'alba.

Ma d'improvviso,
lacerando,
s'aprì.

E vidi
quel roteare di meccanismi
invisibili
che emanano il vento.
Mulinavano palme
sul rosa della creazione
e l'oceano disse:
guardami;
e membra esauste risposero:
muoio.

La mente arresa
come uno specchio
concavo,
ospitale
e riflettente

(io non ho reverenza,
amo quando l'effimero mi cattura
con tutti i sensi
e sono ingegnosa
di delizie fuggenti
di amari paradisi, di tempo perduto,
di buio,
di ciò che si vende e si compra:
io non credo nella felicità).

Eppure ricevetti in dono
un istante di rosa;

non disse,
farneticante,
segreti ultimi,
non m'inginocchiai.

Solo bellezza,
quel mostro violento
senza nume
mi abbracciò
con riflessi argentei senza pace,
col giorno,
rialzandomi come una frusta;

fu la striatura tra le palme
cui giunsi fuggendo dall'inverno
come un naufrago
come un uccello
come un povero diavolo.

Ecco,
potrei storie infinite
dalla stanza sola
ove attendo messaggi dal cosmo,
da scrutatori dei,
e guardo fuori dallo spiraglio tra i venti,
e nulla mai disse dio
di più imperativo
della propria non necessità:
il rosa
fiammeggiante
e il tuono sulla scogliera,
l'incessante propulsore in movimento,
le pale d'aria rotanti
ferivano l'eternità.

E se la voluttà ha un nome,
se la malattia della felicità
ha un nome,
se mai natura
ebbe per noi una carezza
e mai fummo acqua nell'acqua,
pesci,
onda delirata nell'onda,
se mai fummo vita,
amebe e plancton,
alghe e microrganismi industriosi,
se mai fummo scienza
e venature lattiginose primordiali,
se mai fummo uomini,
lo seppi,
la potenza di un meccanismo di venti
e la fatica di restare svegli.

Sguazzante come un girino nello stagno,
come la ninfea sullo specchio dell'acqua,
come una mosca felice,
come l'universo intero,
richiusi allora la tenda.

Cos'era l'universo
io non oso,
cosa d'ignoto, lo ignoro:
sono molecola sensitiva
dotata di artigli
e so di un poeta che muore,
so che bellezza gli incrina il cuore stanco,
so di un poeta di fronte all'alba straziata dalla luce
e chiedo
pietà d'una parola
degna della vita che mi prende,
che mi perse,

quando il tempo
sta racchiuso tutto nell'istante,
ci dice il suo uragano segreto
e io lo accolgo, paziente
e spaurita.




da LUCE DALL'INFERNO

Beach Boys (Kenya)

Mi chiedesti qualcosa
Due scellini
Ti furono pochi
E fummo amici.
Eri esperto
Della cerca subdola
E fosti consumato avventuriero
Di passeggiate su coralli puntuti
Attento conoscitore
D'italiche showgirl
E portavi in tasca
Il tuo granchio
Dalla lunga chela
Per mostralo al turista
Inflaccidito
E pallido
Sofferente e trafitto
Dal sole assassino
E dall'aguzza barriera madreperla.
Egli, il buana, si congedò regalandoti
Scellini e vacanziera
Promiscuità, immemore
E smemorato
Del campanile
Subalpino e pascolare
Ove difese l'usanza avita
I simboli e il focolare
Chiamandoti straniero
Nonsiammicarazzìsti
Padronincasanostra
(egli - la sua di lui -
onde il vappensiero)
E aiutarlincasaloro
In quelli remoti lidi
Donde il vento mendico li sospinge
Verso la patria (nostra)
Bella e confusa.

E tu ti congedasti
Da professionista
Cerimonioso della questua
Sulla spiaggia diamantina
Promettesti cacce
Manufatti, circumnavigazioni mitiche
Tesori e pesche magiche.
Sotto la visiera,
Il brillio dei Rayban.




Kathmandu

Monti come un ventaglio
di lance
e mondi dall'aria delicata
che porta intorno a noi
commossi
spiriti
un alito immateriale
illusioni d'aria e indefinita
santità.
Così veleggiamo, colti
all'improvviso
dalla meraviglia,
lievi sulla strada di terra battuta,
lievi come passi
divenuti celesti,
come il nostro soffio vitale liberato
dalle forme;
e pregammo a mani giunte
ognuno a suo modo,
col sorriso
e con il pensiero,
con la corsa
e il lento andare,
con la carezza
onorammo gli dei,
con la stretta di mano
e il ricordo;
un umile segreto
ci raccoglieva intorno
come amico fraterno
e noi fummo accoglienti verso
la muta nostra
evanescenza,
rarefazione,
pieni di luce.




Lecco

La notte scende lentamente
Un'auto ogni tanto
E così pago il mio tempo
Nella piccola città silenziosa
Dove la perfezione
Ha il sapore del momento
Dove ho odiato
E non posso odiare
Dove la parola non può
Oltre il suo ufficio
La materia della vita si dispiega
Raggiante e compiuta
Come ogni disegno
Ogni pietra
Ogni cosa
Il pino
E la casa laggiù
La nuvola e la montagna rosa nel sole
La voce di ubriachi in strada
E il silenzio di Dio.




Heidelberg

Udimmo potenti carmina
La musica vibrò nobile
Sul largo parquet
Mentre neve sui rami,
Stalattiti di luce;
Pregammo come neri monaci
Nella neve
Lunghe file di oranti medioevali
E l'incanto del gelo mirabile
Orchestravano una sublime ouverture,
Solenne
Germania.
Tu mi dicesti dai rami intirizziti
Che nascondevano gemme e i fiori
Le novelle di Hoffmann
I lievi orrori
Il patto di Faust
E il preludio del Lohengrin
Le dita magre di un demone romantico
Sulla tastiera del pianoforte
Le campane della torre
Il sognatore cinerino
Tra i tetti spioventi raccolti.

Nulla accolse l'anima mia inesperta
Di più ineffabile dei violini senza fine
Dei tuoi castelli severi,
Degli inflessibili assalti del tuo lungo inverno.



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