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Greta Rosso - Manuale di insolubilità

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Greta Rosso - MANUALE DI INSOLUBILITÀGreta Rosso - MANUALE DI INSOLUBILITÀ - Lietocolle, 2015 (collana Pordenonelegge)

E' passato qualche anno da quando, nel 2010, ho pubblicato su questo blog una piccola silloge di Greta Rosso, intitolata con una certa ambizionePoesie a Dio (v. QUI). Nel frattempo Greta ha scritto diverse altre cose, compresa una raccolta inedita, La tormenta, finalista al Premio Montano di quest'anno. Se nel 2010 avevo segnalato qualche incertezza e qualche testo di indubbio valore, questa raccolta dello scorso anno mi pare, almeno dal numero dei testi che ho annotato e che meriterebbero di essere riproposti, un notevole passo avanti, soprattutto nel senso di una maggiore consapevolezza di obbiettivi e di modalità espressive.

Articolata in tre sezioni (un complesso sistema di eventi intempestivi; fingemmo di scaricare le unghie, scriverci in petto; il nostro amore al di fuori della legge) anche questa raccolta esplora uno spazio personale e intimo, un altro di quelli che io chiamo "universi ristretti", nel quale Greta si muove bene, registrando sollecitazioni antiche e nuove. Lo spazio è ristretto anche fisicamente, sostanzialmente domestico, custode di momenti o visioni o accadimenti che essendo domestici dovrebbero portare in sé qualcosa di familiarmente confortante e invece spesso - e questo fa parte della poesia come linguaggio di relazioni - fungono da agganci o trampolini per salti di riflessione, per diversioni centrifughe su toni nostalgici o di rimpianto, o diventano scenari per un soliloquio interiore. Il passaggio spesso avviene per intenderci dal concreto, dalla nominazione del reale ad una articolazione astratta del pensiero, come una sfocatura dello sguardo che si ritrae nel pensiero stesso, perdendo di vista l'oggettualità (e del resto le cose sono "impilate in mucchi a dissolvere"). Altre volte avviene un percorso inverso, dalla riflessione malinconica o dal rimpianto verso un oggetto, visto però in funzione simbolica o metaforica, in una specie di trapasso dal ricordo - per esempio - a qualcosa che non solo è concreto ma è anche costante o ciclico, cioè qualcosa che segnala il tempo, in qualche modo lo misura (la neve, spesso presente, tanto per dirne una), quel tempo che, per capire, "mi tolse il padre e mi diede il temporale a / tuonare fra le mani". O ancora il paesaggio come topos esistenziale da trascendere emblematicamente ("malauguratamente non siamo una / spiaggia in inverno nella quale uomini / col berretto calato sulla fronte cerchino / monetine"). Naturalmente questi passaggi sono il terreno privilegiato del linguaggio, una lingua poetica puntuale che Greta utilizza in genere molto bene, nella quale a volte - raramente - si perde, specie quando scivola su un côté simbolista e involuto, dal riflesso esistenziale però intimo a tal punto che il lettore rischia di rimanere fuori della porta (es. in un dolore riparato ad aghi, un divenire); ma comunque una lingua che serve essenzialmente a far bene il suo lavoro, quello cioè di legare, annodare, contenere in una rete di lunghi filamenti l'insolubile, per definizione ciò che non può essere disciolto o slegato, sia esso un legame chimico o sentimentale o qualcosa da cui, alla fin fine, non si vuole davvero essere liberati, come "un prurito dell'arto amputato". In effetti il ricordo è, nella maggior parte dei casi, qualcosa di irrinunciabile, che non ci abbandona non ostante gli sforzi, e l'obliare per un poeta credo sia il peggiore dei mali perché significa tra le altre cose obliare una lingua madre, quella emotivo/affettiva che nel caso di Rosso è elemento base, mi pare, della sua poetica in fondo  nostalgico/romantica, e della sua scrittura. Al di là del tecnicismoà la mode  del titolo, qui non c'è niente di pratico, dipronto all'uso,   anzi - come suggeriscono i titoli delle sezioni, molto più eloquenti - il tema è quello della varianza, della aleatorietà, della "finzione" (anzi"un'ipotesi di finzione", come scrive Greta), del caos o "disordine" che si voglia, degli inciampi (skàndala) che sregolano i rapporti, per lo più variamente sentimentali (che sia il padre scomparso o un uomo), che incappano nella vita, spesso dolorosamente. A ciò che "accade", sopravviene o viceversa nelle aspirazioni non arriva mai (come quel "amore mio ancora fatto in un’altra / maniera che non mi sogno nemmeno"), il linguaggio selezionato, asciutto, controllato ma fluido di Greta tende ad opporre il  suo   ordine, la sua linearità, la sua  soluzione,  anche nel senso di "legami", di patti riscritti con quell'io non arrendevole, non disposto a defilarsi che è costante in tutto il volume. Nella consapevolezza (o speranza, o obbiettivo) che la scrittura sia un ricondursi, un ricongiungersi "al nucleo (in cui / eravamo infine irrimediabilmente / uniti)".  (g. cerrai)



del padre non volevo saperne, non mi
tangeva e restava una piaga nel fegato,
una somma disumana priva di addendi.
ero incarnata e disincantata, soprattutto
era: evaporati i pianti da anni, il dolore,
restava il prurito dell’arto amputato, ma
non più di una coda – che stava dietro,
seguiva, non ne vidi mai l’ombra. l’odore.

del padre sapevo nulla e tutto, non sapevo
più il viso, era: lo lasciai essere ogni
mattina di aprile, ancora fresca l’aria
delle colline, stornarmi il cuore dagli
occhi.





è la crisi dei volti, lo scomparire
della bocca in favore degli zigomi, a rivangare
notti bianche di denti serrati, scompostezze
solo evocate: io che sentivo l’arco dolce
della tua schiena come un’isola dimenticata,
il respiro pulito come un’idea –
ma poi tornavo al mio volto, l’asprezza
delle nove di mattina, con le rondini sole
a portare a parlare a stare vicine e io
spazzare seria il marciapiede, evitare.





i tesori devastati dall’imbroglio dell’estate
come un còrdolo di abbracci recitati, molto
compatti ed elementari – nel sole, nel cielo
molto blu delle sette e trenta di mattino,
un’ipotesi di finzione che smantella rapida
il calore, sbaraglia i gradi, riporta una fitta
dolorosa di nevi – mi mancano le mattine
di silenzi e trascinamento dove tesoro era
un vento gentile, dove io ero ancora giugno.





atti colmi di logica e privi di spiegazione
come i lividi bluastri sulle cosce in estate
l’ansia feroce dei pomeriggi, lunghi al capo
dolente, col sonno che pressa e non passa
– partorì, in agosto, un’idea di tempo instabile
mi tolse il padre e mi diede il temporale a
tuonare fra le mani –
tratteggio una mappa della mia pelle.

la galassia non conviene, resto analitica,
coerente e impraticata.





ci metto molta neve ad attraversare la sera.
a grandi bracciate esaspero il terreno e la
neve si sposta, portandomi avanti. non so
altro che le persone sole alle 19.30, con il
televisore acceso e una tazza di cibo poco
vero. la sera avanza di poco, è stillicidio e
io mi preoccupo di preoccuparmi. ancora
altre bracciate, altri passi e ancora dura e
non termina, letti freddi e brusii dalle case
non mie. getto neve sui passi, livello, copro
e torno al mio. quando si fa notte non ho più
tempo.





sono binari polverosi siti
nell’ombra dei tuoi occhi,
imprecisi come tuo padre
sull’orlo di un sogno, chino
sul parquet di una stanza
sconosciuta, a impacchettare
un oggetto. ogni notte preghi
perché il sogno arrivi, con
l’unico risultato di spingerlo
sempre più lontano, insonne
e inappagata, compressa e
decimata nell’istante interminabile
in cui lui ti dice non ero morto,
solo ti eri dimenticata di me
e le pareti dell’esistenza
mi sono crollate addosso.
ora tormenti quei binari
ispessiti e scuri, ci sfreghi
sopra le dita stanche e nervose,
muovi la pelle e ne tormenti
i percorsi tortuosi. siamo
stanchi di ricevere mezze
risposte alle domande che
nemmeno sognavamo
di porre. ogni sogno è una
tortura imposta sui corpi
senza vita di un passato remoto.





non mi puoi guardare come un puntale
o un angolo sonoro, non va bene, non
sono fatta per illuminare, generare, dare
spazio all’ordine e ordine allo spazio,
mi accascio agli angoli delle genti o
ristagno, breve e nemmeno sussurrata,
dentro mani indaffarate, resto, oppure
fuggo, non arrivo affatto, magari
non mi vedi proprio.





sessant’anni fa ti avrei scritto un film con
un titolo epico e scultoreo, tipo al cielo non
importa, o che le mani tremano in questi
giorni di freddo e prati tendenti al verde –
quello che versiamo nelle coppe non è sangue
e non rapprende, non lo puoi fermare, cosa
che non disseta né sazia. ma ora non è
sessant’anni fa e io non ti scrivo nessun
film, solo una lettera atipica che non posso
più spedire, e al cielo comunque non importa.





malauguratamente non siamo una
spiaggia in inverno nella quale uomini
col berretto calato sulla fronte cerchino
monetine, non siamo una stagione dai
precisi connotati, come vento o pioggia
o ghiaccio sui vetri – malauguratamente
ascoltiamo gli stessi dischi alle stesse
ore aspettando un’identità che non ci
piove dal cielo, noi soli dissennati e in
coscienti, noi figuranti senza copione.





chi mi darà il bambino o la bambina
le grinze, i patelli, un orologio costoso
chi mi comprerà le vestine e monterà
una culla a dondolo, di vimini magari,
o di vecchio legno lucidato, sarebbe
perfetta se avesse la zanzariera come
in un film e i colori pastello, chi mi
infilerà il dito in un anello luccicante
con gli occhi magari un po’ lucidi, chi
mi porterà in riviera in bassa stagione
a incazzarmi con la sabbia e sorridere
a quel bambino o bambina a questo
punto cresciutello di cui sopra, chi fumerà
le sigarette, 15–20–75-una stecca mentre
partorisco con dolore e ostetriche, chi
mi dirà in quale scuola o asilo o passeggino
infernale andrà a finire la storia, chi mi
darà le cose che mi hanno insegnato
come miliari, chi, un amore mio
scapestratissimo o un amore mio
tenero e alla lunga mortalmente noioso
o un amore mio ancora fatto in un’altra
maniera che non mi sogno nemmeno,
chi me le darà le cose se me le darà mai.





intanto la calma comanda alle mani di
stare quiete, di fare inverno, di diminuire il
dosaggio. quando arriva lui e le prende
il viso fra le mani, come se fosse un frutto
o un vetro, uno specchio forse. lui guarda
il viso e gli abiti sono scuri e lunghi.
la chiave della sopravvivenza nelle mani di
ossa e le ossa che non si dichiarano, le mani
costrette a stare quiete, il viso che non rimanda
immagini né trasmette un senso, una calma –
niente, si faceva inverno e la strada era bianca
e patetica, un quadro dipinto male, non avevamo
nulla da dire.





questi ponti che divaricano le acque
in pomeriggi in cui i grigi predominano
e le coperte dovrebbero essere una
pallida idea da accostare alla pelle –
ma poco resta. manca addirittura
la polvere. abbiamo storie da narrare
ma celiamo altro. come un ritornello
proibito che mormoriamo piano, senza
scandirne il testo. così lei si alza e
rassetta, lui alza un poco il volume.
sotto i ponti l’acqua è increspata solo
leggermente, come appena sfiorata da
un vento, senza davvero scorrere.



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