Giacomo Leronni - Scrittura come ciglio - Puntoacapo Ed.
, 2019
Un libro di poesie che ha il titolo di un saggio, questo di Giacomo
Leronni. Scrittura come ciglio, esercizio, lavoro, professione di
un'arte dall'orlo (e come limitare) di un abisso che solo quello stesso
esercizio ha qualche possibilità di sondare. La scrittura dunque come mezzo
di espressione del noto e di indagine del percepito, o almeno questa è
l'aspirazione di chi scrive, ma bisogna affacciarsi parecchio a quell'orlo
(ed è il ciglio a cui allude Cesare Viviani un uno degli eserghi).
Ricordo di aver già parlato di Leronni nel 2012 (v.
QUI
), in occasione dell'uscita del suo Le dimore dello spirito assente (Puntoacapo). E anche allora la
parola "limite" era spuntata fuori più di una volta, anche per definire
qualcosa, in quel caso "nella sua accezione meno eroica. E' quello cioè in
cui sbatti il naso e ti fermi, guardandoti in giro irrelatamente, e NON
quello in cui invece getti il cuore oltre l'ostacolo e scali la montagna
come Messner. E' il limite quindi oltre il quale la parola, come un
diamante su cui si tenta l'ennesima sfaccettatura, perde la sua funzione e
si sbriciola". E' il problema fondamentale di una poesia che si muove in
ambiti elettivi, in ambienti anche culturali che marcano stretta la
scrittura entro certi confini, la "suggeriscono", la sfumano, e con essa
operano una "estrazione dell'essenza" (dicevo allora). Si tratta di un
influsso culturale che l'autore porta con sé, quello letterario francese, e
cioè, mi pare di aggiungere sinteticamente, tutto un areale simbolista in
cui l'oggetto, ma anche l'evento o il dato esperienziale, perdono (anzi
devono perdere) i loro lineamenti, i loro tratti distintivi, in un certo
senso il loro "fuoco". Certo, bisogna fare i conti con un'aria rarefatta,
le altezze simboliche e metafisiche sono considerevoli, l'ossigeno potrebbe
non essere sufficiente se si partisse, come lettori, da un pre-concetto
normativo o canonico (qui comunque il canone c'è ed agisce, stante che,
come ricorda anche il prefatore Daniele Maria Pegorari, i riferimenti, non
solo stilistici, sono a quella cultura) o dalla semplice risultante, di cui
occorre tener conto per capire, di una scrittura "disinteressata nei
confronti dell'oggettività del mondo" che agisce "su un piano di pensiero
puro che lascia del tutto in ombra la realtà" (ancora il prefatore). Sono
d'accordo, ovviamente, ma da qui bisogna ripartire, traendone qualche
conclusione. Certo, il "ciglio" di questo titolo metapoetico può essere
anche quello di uno sguardo celato ma non precluso, filtrato ma non miope,
quello sornione e smagato di chi tenta di superare la realtà oggettuale per
avvicinare quella più intima, ma per l'autore non meno concreta, delle
cose, che, come ci insegna Remo Bodei, sono oggetti materiali o immateriali
caricati delle nostre idee, di contenuti simbolici o affettivi (del resto,
gli "oggetti" comunemente intesi, elementi che denotino una materialità del
mondo o un aggancio ad esempio alla natura, in questi versi sono rari). Il
mondo di Leronni è densamente spirituale, in almeno due accezioni: la prima
sicuramente è quella di uno spirituale rinvenibile all'interno del sé
poetico, quella cioè che Leronni esplora in quasi ogni testo, anche ove non
sembri palese, quasi come se, mi pare, fosse alla ricerca di una conferma
di quella "immagine e somiglianza" con qualcosa di trascendente che l'uomo
accarezza nella mente, ancorché non gli sia stata assegnata fin dalla
creazione, insomma un pensioero "universale"; l'altra è quella di un
confronto non dichiarato (e forse non importante) con il divino di un Dio
raramente nominato, anzi visto con un occhio un po' dubitoso ("l'onda cupa
che tutti chiamano Signore"; "un Cristo di livore") soprattutto perché, mi
pare, c'è sì da qualche parte ma rappresenta una ardua sfida, un tema
troppo impegnativo per le parole, che viceversa sono le cose in cui il
poeta crede maggiormente. Alla fine dobbiamo ammettere che stiamo parlando
più di spirito che di spiritualità, o di una spiritualità tutta laica,
nella quale appunto è la parola, la sua potenzialità evocativa/astratta, ad
officiare. In effetti la lettura di questo libro mette di fronte
all'evidenza di quanto lo stesso Leronni afferma, proprio nella sezione Il ciglio: "Tutto è piegato alla parola", e più avanti, "Tutto è
sedotto dalla parola" (ma anche: "nella luce impervia reclutavo / parole
isolate, topazi"). Siamo al centro, è ora ovvio, di un universo che l'uomo
si è creato da sé, con la parola, e questa "parola" è come se avesse una
maiuscola omessa dall'autore per modestia. Un universo che tuttavia
presenta, come tutti, i propri abissi e i propri margini, non è esplorabile
del tutto. Ma, cosa importante che avevo già sottolineato a proposito de Le dimore dello spirito assente, Leronni non bara sul linguaggio
con cui affronta i suoi temi, non è volutamente oscuro per quanto astratto,
e se talvolta lo è dipende forse dal fatto che, come avviene anche nei
simbolisti ma anche negli ermetici, l'immagine che il poeta persegue è
troppo "privata", come racchiusa in una intima stanza. In altre parole, nonè detto che io e il poeta leggiamo in questi versi le stesse cose,
evochiamo le stesse immagini. In effetti ogni singolo testo presenta un
problema di interpretazione, nello stile di Leronni è arduo già
identificare, nell'astrattezza dei temi, la vaghezza delle "persone"che si
incontrano, a cui talvolta il poeta si indirizza, un "tu" a volte
riflessivo a volte ignoto, altri sfocati destinatari, alcuni "noi"
accomunati nella riflessione su quel nulla (e l'oscuro, e il buio e tutti i
correlati) che si intravede oltre il ciglio e che costituisce forse il tema
principale della visione laica di Leronni. Che sembra sempre, come il
Montale di "Forse un mattino andando in un'aria di vetro", in procinto di
sorprendere una verità sfuggente, cogliendola però non con lo sguardo ma
con la rete di parole che Leronni è assai abile a tessere. E quella verità,
come accennato, è che nel tramaglio delle parole - che alla fine, di tutto
ciò che interseca il vissuto di un uomo, affetti, amori, dolori, raccoglie
soprattutto la convinzione che l'uomo (e il poeta specialmente) è ciò su
cui riesce a riflettere - resta un'idea di impermanenza, o di essere uomo"singolare" che sperimenta il suo essere "libero" di fronte al nulla
(un'idea un po' di marca esistenzialista). In un certo senso, se si
accettano questi presupposti e quel che di apodittico (ma forse dovremmo
parlare di oscura assertività) portano con sé compresa l'"esclusività" dell'esperienza del poeta, anche gli aspetti più criptici
della poesia di Leronni si illuminano di lampi, e l'interesse che ne emergeè proprio l'"intravisto", una sorta di "vuoto che fruscia // lampo su
lampo, scossa dopo scossa", poiché anche "il vuoto più distante dispone /
del favo che lo rischiara". E spesso, proprio nell'economia della parola,
della sua "libera" circonvoluzione intorno al "ciglio", è l'uso di potenti
artifici come metafore, analogie, similitudini, accostamenti dinamici e
creativi (talvolta un po' forzati) tra soggetti e/o oggetti e predicati
(gli esempi sono moltissimi) ecc., che conferisce al testo un'autorevolezza
di "senso", per quanto ellittico esso possa essere. Un libro complesso,
come lo era Le dimore, in cui si intravedono sviluppi forse più di
stile che di temi (e le cose di gran lunga migliori in entrambi i sensi mi paiono nella sezione Una verità impensabile), e in cui mi pare
permanga ciò che allora avevo definito come "una poesia 'percettiva'
orientata sui riverberi degli eventi sulla psiche", alimentata "da un
pensiero analitico insonne e a volte impietoso, da uno spirito tutt'altro
che 'assente'". (g. cerrai)
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