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Ivano Mugnaini - La creta indocile

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Ivano Mugnaini - La creta indocile - Oèdipus, 2018 Ivano Mugnaini - La creta indocile - Oèdipus, 2018

Avevo già cominciato a parlare brevemente di questo libro, o almeno di ciò che sarebbe diventato, quando Mugnaini mi mandò alcuni inediti che di questa raccolta avrebbero dovuto far parte (v. QUI ). Il titolo era in pratica definitivo, ed in stampa è stato confermato; mentre solo cinque delle quattordici poesie che avevo letto hanno trovato la loro collocazione definitiva. Non è più tempo di farne un discorso filologico, nell'era del digitale, della videoscrittura, di varianti disperse in qualche hard disk, ma qualcosa vorrà dire di certo. Quanto meno della cura e della disciplina con cui Ivano tratta la sua materia poetica, e con essa il discorso che vuole portare avanti. E di quanto sia fedele alla sua idea di fare poesia che tende innanzitutto a stabilire una continuità di stile e di tonalità che è parte integrante di quanto intende comunicare, in altre parole del suo "carattere", anzi - meglio - del carattere persuasivo della sua scrittura. Riguardo al quale confermo quanto scrissi riguardo sia a quanto avevo letto degli inediti sia al suo libro del 2010, Il tempo salvato, (v.QUI ). Che cioè consiste, il suo convincere placidamente, non solo nel trovare la parola ancora serena, come ricorda Ivan Fedeli nella postfazione, ovvero la continua ricerca di un livello comunicativo "medio" (ma non mediocre) con poco da parafrasare e quindi confortante per il lettore; ma anche nel riportare il suo mondo complessamente semplice all'interno di una cerchia per così dire "domestica", e quindi comune all'uomo, e perciò capace di creare un genius loci, un ambiente quasi esorcizzante il mondo stesso. Che è semplice e complesso nello stesso tempo, come si diceva, fatto di quella creta indocile dell'esistere che Ivano tenta di plasmare ad arte, in sé complessa, ma che si manifesta per fenomeni, oggetti, evenienze in sé semplici, linguisticamente decifrabili per quanto possibile, e tuttavia pregni di un'altra e diversa dimensione su cui il poeta è chiamato a riflettere, e da cui parte in riprese che a tratti mi rammentano Montale e altri ("Allora, felice di aver capito senza avere / compreso...", "Eppure non tutto è perfetto, c'è un brandello..."). Riflettere e sviluppare un pensiero pacatamente, partendo da una salda fiducia nelle scrittura e nelle radici anche culturali, stilistiche, robustamente novecentesche di essa (*); è questo il registro principale di Mugnaini, una osservazione anche dolorosa ma senza drammi (niente di esistenzialista) a cui il poeta fornisce una trama dialettica nella quale gli accadimenti, i sentimenti, lo scambio con la natura, la ricerca delle affettività trovano una giustificazione di senso, non solo loro ma anche di quel esserci dell'uomo. A questo si aggiunge un sentimento del tempo, generalmente inteso, quel tempo che già avevo chiamato "il non domesticabile per eccellenza", il tempo lineare in cui ogni momento, trascorrendo, diventa subito memoria e quindi identità del vissuto. Mugnaini è poeta che parla molto del tempo e - in un certo senso - fuori dal tempo si pone, in quelle parcelle di tempo "salvato" - che poi è la poesia stessa al suo meglio - che gli assicurano, come avevo scritto, "un'enclave psicologica e di ethos". Nella quale il mondo si affaccia ed è nello stesso tempo escluso, o almeno tenuto alla distanza, o forse non combattuto perché inutile farlo, perché "è muto l'alfabeto del mondo", perché tanto le cose che contano, ci dice Ivano, sono veramente poche ed essenziali, come ad esempio l'amore di cui scrive pur sapendo che "scrivere d'amore non è più possibile, non ora, / non qui" se son si affronta, di questo tempo/mondo, "il niente (...) che lasciamo trionfare, becero, sguaiato", e magari "la salvezza è nel riso rubato alla ragione", il mondo è esorcizzabile "lasciando che il sole / entri negli occhi e nella mente a petto nudo". C'è in Ivano spesso un richiamo a puri elementi naturali che lo riconnettono con la naturalità della vita, c'è un elemento spirituale, come avevo già detto, una pietas anche autoriferita che tende a superare, poeticamente, anche inevitabili contraddizioni, ad esempio tra il mondo muto e il mondo decifrabile che parla attraverso sprazzi di sole, visioni di donne, colori , incontri, oggetti o "cose" tuttavia non inanimati, che sono lì per "qualcosa". In molti sensi la realtà di Ivano è tutt'altro che complessa, e se c'è un dolore alla fine è quello basico, fondamentale e quindi "semplice" ma insidioso del pavesiano mestiere di vivere. Contro il quale Mugnaini non grida, ma sul quale medita, non escludendo niente in verità di quello che è concesso osservare, e quindi vivere con in fondo una certa gratitudine, come scrissi, verso la plastica indocilità di quella creta. (g. cerrai)

(*) Cultura non esibita, con quella certa timidezza che, conoscendolo, gli somiglia ma non lo condiziona. Un indizio: la mancanza di note al testo, pur essendo diversi i richiami. Una specie di ritrosia a mostrare cultura (ad es. un insospettato, insolito, Alfredo Giuliani dei Versi e non versi in Un'altra siepe di spine)



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