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Zhang Dalì, Meta-morphosis - Riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli

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Zhang Dalì, Meta-morphosis (a Palazzo Fava a Bologna)

E’ una storia di metamorfosi, di transizioni e ri-creazioni quella che l’artista cinese contemporaneo Zhang Dalì racconta nella mostra attualmente in corso a Bologna a Palazzo Fava, una storia in cui il senso di cambiamento è pervasivo e a diversi livelli: politico ed economico nella Cina globalizzata d’oggi, urbanistico nelle demolizioni e rifacimenti massici della capitale, poetico nella capacità dell’artista di dare voce e corpo alla transizione del paese verso una nuova forma di capitalismo globale con tutti i traumi e contraddizioni che in esso si riflettono. Il “realismo estremo” di Dalì esprime per l’artista la necessità di guardare alla realtà d’oggi del suo popolo, del suo paese, e riflettere, esaminare, dare voce a una coscienza critica, nella frattura anche tra realtà e individuo perché, come egli afferma: “l’arte ha il dovere di esprimere il proprio scetticismo verso la brutalità che esiste nel mondo reale”.

“Penso che l’artista contemporaneo senza una presa di posizione netta non possa creare nessuna grande opera. Deve prendere una posizione che gli permetta di distinguere tra bene e male e dare un giudizio di valore. La creazione artistica incarna un’ideologia così come un’umanità. Se non c’è compassione, amore ma solo l’idea di arte come giullare di corte allora l’artista sarà uno snob e uno speculatore”[1] .

L’arte contemporanea in Cina dal suo punto di vista può solo essere un’arte di ribellione, perché senza tale presa di posizione sarà l’interesse a condurre il gioco o la pura logica del profitto. L’artista, secondo Dalì, è colui che riesce a dare una voce, una coscienza critica e espressiva a quello che sente manifestarsi intorno a sè nel mondo nella società, nella vita che lo circonda e al quale i molti non possono dare voce. Di qui, la necessità di comunicare, condividere con la maggior parte o dare visibilità al massimo grado attraverso la fotografia, l’installazione o i graffiti in modo da rendere palese una verità o una visione che viene dal profondo senza incorrere in una mistificazione del reale che conduce a in un’arte elitaria, complessa o distaccata dalle persone.

“AK-47”, auto-ritratto

Il mio volto è questo ritratto espanso e reso attraverso una miriade di punti, unità luminose, pixel quasi dell’immagine elettronica nella litografia stampata. Ricoperto dal marchio indelebile di un nome, logo di un’arma da fuoco e cancellato dalla medesima come dall’ evidenza esposta di una violenza innegabile per quanto celata, dissimulata in maniera sottile o resa invisibile nella società d’oggi. Tuttavia, anche, è uno sguardo che penetra e attraversa la fitta maglia di questa rete densa e occlusiva per vedere attraverso e giungere, incisivo come un obiettivo al punto focale dell’immagine, tale lo sguardo dell’artista sul reale.



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