Stelvio Di Spigno - Fermata del tempo - Marcos y Marcos, 2015
Di Spigno, come ad esempio De Lea (v.QUI
, - ma con altri esiti, altre tonalità, un diverso uso plastico della
lingua), è poeta in cui la scritturaè ricerca di rassicurazione e
identità. Lo è per diversi aspetti, a cominciare dal suo "sforzo di frenare
o addirittura di arrestare il flusso del tempo, di illuminarne una fermata" (Umberto Fiori in prefazione), il che mi pare significhi,
anche alla luce dei testi di questo libro, non solo una ricognizione per
momenti e luoghi topici della propria vita, ma anche la ricerca in essi del
proprio essere attuale. E' in altre parole un ragionato ritorno a casa
(dovunque in realtà essa sia), in cui però la nostalgia ha un'importanza
relativa, è più motivo lirico/elegiaco che epico o tragico, poiché mi pare
vi manchi un'eco lancinante, come se Di Spigno di quella "casa"
riconoscesse più la forza evocativa e identitaria che la sua mancanza.
Luogo che tuttavia certamente non "sembra proprio una casa qualunque e
indolore" (in La nudità, Pequod, 2010, v.QUI
), una specie di disperso, molteplice e personale "posto delle fragole" su
cui Di Spigno posa uno sguardo essenzialmente rivolto al passato, facendo
un po' il punto della propria vita. Se il tempo ha un senso, quindi, - e
qui sta parte della rassicurazione - , è per il suo essere storia e replica
(come rappresentazione) di eventi e luoghi (Roma, Gaeta, Napoli, Anzio, la
Calabria...) per così dire filogenetici, di cui cioè il poeta reca traccia
in sé. E poiché storia è narrazione di sé stessa e di chi
trascina con sé, ecco che ne consegue naturaliter la scrittura che
Stelvio ritiene più adatta, un flusso di cui avevo già parlato brevemente a
proposito de La nudità, appunto narrativo, a volte ipertrofico, a
volte predittivo, e in cui, come accennavo prima, trova talvolta il suo
spazio anche l'elegia pura, quasi foscoliana, come ad esempio in Faville, ma con un certo equilibrio (ha ragione ancora Fiori in
prefazione) e poco timore di lanciarvisi pur col rischio calcolato di
qualche sbandata, conoscendo come un pilota il suo mezzo, le sue parole. In
un certo senso Di Spigno cerca e trova un'altra rassicurazione proprio in
questa lingua in cui quel che devi dire e la forma in cui lo dici sono
indissolubili, nella quale cioè elemento fàtico e funzione poetica sono
così fusi che il carattere lirico/elegiaco vi trova la sua collocazione
naturale, non extra ordinaria. Ne è così convinto che a volte si allunga e
dilunga, come già avveniva ne La nudità, non è poeta che lavori
per sottrazione, tende semmai a non buttare via niente di quel che ha da
dire, fossero anche i nomi di persone e luoghi che risuonano, per ovvie
ragioni, solo per lui. Sia i luoghi che la scrittura sono per Di Spigno, a
mio avviso, spazi mentali o ricordi "affidabili", che è necessario in
qualche modo non tradire, omaggiando e rinovellando i primi con la seconda,
anche con una certa maestria lessicale, con una capacità connotativa e a
volte esornativa del "fatto" che tende a dare una certa aura "mitica"
all'oggetto del poetare, ma che crea in definitiva una tessitura di
rilievo. Quando Stelvio riesce ad allentare un po' la pressione
sull'acceleratore del dire, a favore di una emotività meno mediata,
consegue gli esiti più alti come quelli (v. Il distacco) contenuti nella sezione Generazione mortale, a mio avviso la migliore del libro insieme a Le radici sepolte.
A pensarci bene più che di nostalgia o di ritorno ai lari, di tratta di malinconia/rimpianto, spesso con uno schema classico e abbastanza ricorrente di enunciazione/ipotiposi del ricordo seguita da una ripresa attualizzante/riflessiva ("Eppure quando torno...", "E ora eccomi qua...","Ma intanto passano i treni...", "Qui ho vissuto tra gente...", "Ora io ti penso...", "L'alba ride come allora...", "Ecco cosa ripetono i miei anni...", "Li rivedo in lontananza...") con un andamento leopardiano, come ne La quiete o ne La vita solitaria per capirci, che si ritrova anche in un uso esteso del verso libero ipermetrico che già avevo notato a suo tempo, segnato più da spezzature che da enjambement significativi (ma vale la pena rimarcare anche qualche eco pasoliniana, come in Trastevere ore quindici). Tutto sommato quello di Di Spigno non è un mondo particolarmente complesso, perché non è particolarmente moderno (e nemmeno postmoderno), descrive - spesso molto bene - dinamiche intime su sfondi che, al di là della geografia, da un punto di vista lirico potrebbero essere ovunque, salta a pie' pari (per fortuna) tutti i mugugni della crisi dell'uomo di oggi di fronte al nulla, preferendo cantare le sfumature di un esistenzialismo semplice. Entro il quale, in una prospettiva ben definita, contenuta nelle due direttrici passato/presente che tendono a riprodursi (il presente è già un passato), l'individuo/poeta si pone come custode di una memoria che aspira ad essere"non per rimpiangere, piuttosto per sapere dove andare". Cioè una memoria non lapidaria, malleabile. Ma, dice l'autore, "siamo una specie senza predizione", cioè senza futuro, senza contare che "il tempo non avanza di un momento". Solo la poesia (ed è la fede di Stelvio) può sperare di risolvere una tale aporia. (g.cerrai)
il lago dove siamo stati congedati
dal sogno di una maniera di pace
fatto per uomini con gli occhi addolorati,
le acque che avremmo voluto dentro casa
nel tranquillo fluire del traffico cancellato dal mondo,
la completa fissità, l'essere corporalmente raggiunto,
vivere con gli amati e gli antenati, insieme nel puro silenzio,
per sempre nello stesso giorno
magari d'infanzia o adolescenza,
perché molto è il desiderio
di un paradiso abbarbicato al tutto
uniti con la faccia solo in questa terra,
senza dovere niente alla fatica e al lutto,
al mancare interno e al rischio dell'eterno.
Tracce di ferro e cemento steso male
fanno da confine all'aria angolata. Poi c'è l'orto che da sempre
s'incanta col pinete, e un mucchietto di utilitarie
che stanno in silenzio, perché la loro stagione,
nel regime di viali e isolati gialli e bianchi,
non è ancora arrivata. Qui ho vissuto
tra gente che smuove la terra non per fare arazzi
per poeti ma per vivere di foglie verdi come il mare
ai confini del quartiere, quando era ancora gentile
domandare quando sarebbe stata la partenza
per un mondo migliore. Ho fatto la mia parte
e ho visto i roghi che accoglievano gennaio: bruciavamo
vecchie scope, cartoni e materassi
per sapere cosa avrebbe sopportato l'anno nuovo . Nessuno
in casa ha un camino, e chi ce l'ha lo ha murato,
metafora perfetta di chi troppe disgrazie ha sopportato.
Troppo chiaro di luna in tutte le parole. Non si può
dire nulla a chi è partito e saggia a memoria le cose
di un tempo che non sa se rivedrà. Qui sono nato,
tra le prime parabole che mettevano allegria
e il maschio vigore del fuoco che scorre
nei muscoli di chi sa che vivere non è baldoria.
non trova né una donna né un luogo migliore
per dare tutta se stessa al silenzio finale dei vecchi.
La compagnia dei fiori di campo mi farà
da corteo funebre e l'Irpinia, lontana e senza foschia,
intonerà un concerto come solo il vento,
incastonato tra i rami dei pini e i trifogli argentati,
sa fischiare tra i corridoi immensi delle case,
anche se preferirei il fuoco delle stoppie
per capire se Dio mi è stato amico negli anni di vigilia.
Quando eravate nostri, lo rivedo nei sogni,
nel pallido di qualche luogo sconosciuto,
mai siete stati della terra per intero. Eravate
principi di un reame straniero, capitati qui
per fare bottino del mio bene e vostro amore.
Vissuti in periferia. O in una villa tra due strade.
Sempre pronti a scappare. Dalle montagne al mare,
dalle scarpate ai pendii. Sempre in vacanza, in bilico,
benché lavoraste alacremente. Essere senza essere
è la grazia di chi regge il timore. Come in una reggia
tutto si diceva ma con parole errate, statiche di rabbia.
Mio nonno, il comandante, dilaniava i giardini.
Dava fuoco all'aurora, piano piano si spartiva
dalla umana, orrenda compagnia. A ruota tutti gli altri
facevano merenda con merluzzo e uova.
In silenzio, al plurale, con nessuna meta cui arrivare.
Sempre in mezzo alle cose e quasi fuori.
Se mi chiedono perché io taccio in sirventese.
Di tutto avete fatto, per rimanere puri. Anche vivere male,
con disamina animale difenderò l'errore. Tanto il mondo
non s'imbraca con me. Farò io la parte del demonio
se qualcuno mi chiama a testimonio.
Come vi ho rimediati,
e di rimedi non ce n'è, nelle tare
della terra e del cielo, santi morti e sacro passato,
in orbita breve ma stellare
ci siamo ritrovati per poco
a camminare, annusare la stessa aria,
ragazzi fermi alla fermata della scuola,
mendicanti che hanno dato al nulla il loro stato,
abbiamo la stessa forma, le stesse ossa,
ma non cadremo nella stessa fossa, le date non coincidono,
ci assomigliamo ma qualcosa ci divide,
e questa cosa è la parola che invece condivide
e che io non conosco
come vi riconosce il giorno aperto,
le stelle scese dal pendio,
la vita quando ancora era vita,
e tra angiporti e navi e battelli,
e sovrimpressioni e avverbi,
e automobili e puntali,
e cataratte e impossibili treni e frane,
qualcosa ha spostato dalla nostra parte la sorte,
mare sincronizzato, apertura di braccia,
ognuno ha lottato perché durasse
il singolo attimo del fuoco in gola,
molto il tempo ha portato via,
quando è stato il momento di partire.
Io mi alzo da questo tavolo a Trastevere,
gli occhi vedono qua e là turisti e auto
coi quali trasbordare, poi c'è via Nazionale
e il tempo, aperto come un bulbo,
che finirà per tutti è stato, per noi lattanti,
vostro e mio, consensuale e attiguo
al frangersi delle case nei poveri occhi cavi,
una fitta nel corpo, a caso, ovunque, come un tuono.
a T.C.
Hai coperto bene la paura con l'assenso,
il bruciore di un osso con una cavità entrante
e mancante nella mente, mentre spiegavi
e rispiegavi che non era il tempo, quello, buono
per l'innamoramento e intorno c'era già fruscio
di ricci e castagne e foglie di platino adamantine,
su tutta la strada ragionammo su come salvare
un amore che voleva cominciare, in mezzo
alla plastica e al niente io vedevo il tuo vestito,
il suo colore di rifiuto, le mezze scuse, le mani
che battono sul volante, e tu mi chiedevi
di uscire, di non farti del male, ma da una
vastissima distanza, una danzante valle distesa
ormai tra due silenzi, tra una fine decisa, tutta
di metallo, sentivo il freddo delle tue parole
dall'anima fino alle gengive, e questo solo
è il mio ricordo: non hai portato via niente.
Quanti fascicoli di luce, quanti sguardi innevati,
e mattine il cui carico è dolore dovrà attraversare
questo corpo corale di tutte
le gioie distrutte, i disamori, le cadute,
prima che il tempo di ognuno anche per me
si esaurisca, sulla soglia di casa, o rinculando
con montagne di parole nella mente, guardando
solo il cielo, facile da vedere qui da Anzio,
quando, per non odiare gli uomini, storci il collo,
distrai gli occhi, punti a caso dentro una stradetta
senza uscita,
e i lavori in corso sono la sola certezza
che tutto si riabitua e si riabita,
ma non saremo noi a goderla, la felicità promessa.
Fuoco nell'aria mista a sale e a corpi terrestri
e incostanti. Pedalare, camminare, sterzare con l'auto
per Gaeta, Formia, Minturno. Una curva presa male
e ti ritrovi a Napoli o su una croce. Tutto sa di altro.
Ovunque luoghi troppo cari per passarci l'estate.
Troppo inutile l'estate per passarci la vita.
Dove i miei cari pendevano verso il fresco del mare
ora negozietti e rental car. Fine delle trasmissioni,
con la camicia sbottonata, cerco di essere
invisibile come loro, ma la parete della morte
non si fa attraversare. Loro sono oltre, io dall'altra
parte, non so se partire, restare, pregare
per una vita breve. Estate benedetta, che mi riporti
dove tutto è cominciato. Agosto torrenziale,
che mi fai vedere a figura intera i volti, i templi,
i tempi in cui tutto si è interrotto. Fuoco per ogni dove,
fuoco su di me. Sparate pure, non mi prenderete.
Non ancora, tra le rotonde e le spiagge con nomi
californiani, anche la fine perde l'orientamento.
a Mina De Simone
Torno a scuola sul litorale, animato
verso il cielo. Il bofonchiare rapido del
cancello, il registro di classe nella sacca
da lavoro. Volevo questo? Volevo altro? Volevo,
volevo, volevo sempre troppo.
Il mare è un profilo di detriti. La mia casa
è distrutta, o di certo abbandonata, volano
aerei che mi guardano con malocchio,
scrutano la pupilla delusa, sanno
che non dovrei essere qui.
Ho sognato di scriverti, svelando
ogni suono della mente nella sosta
tra la speranza e lo spot che le somiglia.
Se nessun messaggero ti è arrivato
è questo che devi sapere: ogni viadotto
del tempo, se non porta veloce a un'altra vita,
in noi si compie come un vortice
incallito, come il guaire di cani alla catena
che all'aperta campagna deplorano
il ritorno del freddo crudele dopo agosto
e la stagione a noi più prossima al digiuno.
Forma semplificata della mente
dovrebbe essere Forte Sangallo
coi suoi bastioni arcuati e il terrapieno,
le valli intorno di provincia romana,
la fredda pancia del cielo a chiudere,
sul litorale, la carnagione, secca, di sconfitta,
simile alla campata di una caverna infernale.
Proprio qui, mille anni fa, si muoveva
un mio pari, un essere dalle corte braccia
che conquistava armato di sangue e bava.
E ciò bastava a fare di questo luogo
una costa civile. Anzio, Nettuno, Fregene.
Spiagge viziate, granulose di voglie,
con auto di lusso tra le grate
di un carcere troppo duro da supporre.
Sempre meglio la fuga, tra onde frenetiche,
verso il tremito di un'isola al confino:
la certezza legnosa della nave,
l'addio che si sente a mille miglia,
il corpo svuotato da stanchezza,
cataratte, cervelli di fango e le cellule
di un antico io dall'odore bestiale
che affiora a cavallo di una guerra totale.