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Paolo Valesio - Il servo rosso / The red servant

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Paolo Valesio - Il servo rosso / The red servant (Poesie scelte
Paolo Valesio - Il servo rosso / The red servant 1979-2002), con trad. in inglese di Michael Palma e Graziella Sidoli - Ed. Format Puntoacapo, 2016

Non ho una particolare predilezione per le antologie, comprese quelle tematiche. Forse perché sono selezioni di selezioni - una cosa che a mio avviso non ha altrettanto pregio dei superlativi assoluti ebraici (tipo il santo dei santi, per intenderci) - tanto più se la selezione è opera dello stesso autore, una autoantologia insomma. Che da una parte può certo aiutare il lettore, fornendo un fil rouge anche filologico o interpretativo (e in questo caso copre oltre venti anni di attività), dall'altra chiude l'opera, come potremmo dire travisando un pochino il pensiero di Eco, Barthes e compagnia bella (cosa a cui mi pare alluda anche Gian Maria Annovi in una delle note al libro). Nel senso almeno che il lavoro passa attraverso la distillazione, in primis, del senso estetico ed autocritico dell'autore. Che fa il punto della situazione e contemporaneamente - soprattutto se il libro è di una particolare compattezza tematica come questo - pone la tesi e l'ipotesi dimostrativa, l'espressione e la dichiarazione di un amor che ha attraversato quasi senza sosta il pensiero, l'atteggiamento etico, la vita dell'autore. E che attraversa questo libro.

Un amor che si sostanzia, al livello più evidente, in una manifestazione - anzi una professione - di fede, in un dialogo con una presenza trascendente e ubiqua, latente ed evocata, che permea l'urbe e la natura, e che è il Dio che si può nominare (e si nomina), non quello che si manifesta inannunciato in una qualche epifania di cui la poesia possa registrare la meraviglia, è il Dio che popola le preghiere, quello ricercato con la volontà della parola e con una continuità che richiama alla mente un esicasmo (qualcosa che assomiglia a una novena o a un rosario) però inquieto, non pacificante. Una lunga prece, attraverso le raccolte qui rappresentate, a cui la poesia dà forma e veste, anzi diciamo meglio, dà una forma pubblica e per ciò stesso non intima, poiché pregna sia di una volontà di rappresentazione artistica sia di una testimonianza morale; e insieme privata, non solo per i pensieri che esprime ma anche, in molte occasioni, per la privatezza del linguaggio, l'invenzione e l'uso e riuso delle parole, la selezione operata nel vasto bagaglio culturale dell'autore e la loro dispositio, per dirla in termini ciceroniani. Ed anche per un certo mettersi in discussione, a nudo, ad esempio scegliendo di riflettere su momenti critici della propria vita.

Scelta non facile, in questi tempi in cui non si può parlare di vera agnosi e forse nemmeno di vera laicità e il relativismo è alibi ancorché vuoto. Scelta che certo può risultare straniante e forse un tanto escludente, col suo ricorso ad una speculazione (usiamo per un attimo questo termine) poetica di questo tipo e tono, di questa qualità di scrittura che mi pare collocarsi (però altamente sublimandoli) fuori dalla storia e dal tempo (figurarsi poi dal cosiddetto mainstream), tonalità e scrittura che però forse assicurano al lettore una giusta distanza "classica" dalla difficile materia che è chiamato a condividere, risuonando esse a volte come  in una chiesa barocca a volte in una cella claustrale.

E' naturale che quella dell'autore non sia una mera meditazione sul metafisico o sul trascendentale. C'è innanzitutto in questi versi una forte coscienza della centralità dell'uomo, dell'essere, della sua capacità di articolare qui e ora un verbo autonomo, che non proviene da un Ente, ma che è espressione di una intima umanissima natura, tanto che a volte il dio e l'io si confondono ("orante io superorale", dice Annovi), una aferesi che rimanda direttamente a una "immagine e somiglianza" che, a pensarci bene, è insieme nucleo centrale della fede e pesante lascito e responsabilità per l'uomo. Meditazione sull'evento e la sua offerta a (o corrispondenza con) Dio, rispecchiamento nel divino o viceversa in quanto di divino contiene la vita, anche allorquando l'uomo riscontrasse una sua solitudine, una sua orfanezza da Dio medesimo. Anche allora, anche in quel dolore, mi pare dicano questi versi, rimarrebbe forse dubbiosa o incerta ma intatta la coscienza, l'intelletto (e forse l'orgoglio) dell'uomo di sé, dei suoi limiti ma anche delle proprie forze, anche nella dialettica costante con l'Altro, o con la propria anima, il proprio "servo rosso".

Anche la preghiera, se vogliamo, è un'invenzione dell'uomo, la creazione di un medium, di un linguaggio, di un canale di comunicazione (o comunione), di un sollievo. Invenzione non solo nel senso storico evangelico, ricordando che il Cristo ne ha insegnata e lasciata in legato una soltanto - e ricordando anche (tornando sui binomi pubblico/privato, preghiera/poesia) quel che dice Matteo (6.5-8): "quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto" (un discorso, appunto, di privatezza che la poesia non può né deve riconoscere); ma anche come artifizio retorico (sia detto senza nessuna connotazione negativa), esattamente come la poesia stessa, nel suo istituirsi come "voce" o canto che racchiude in sé la sua bellezza o il suo fine.

E la preghiera, nella necessità ancestrale dell'uomo, è anche comunicazione univoca, a cui non segue risposta, o ne segue per vie e manifestazioni ellittiche o forse non immediatamente percepibili. Ma Valesio, come tutti i credenti, non ha ragione di porsi il problema, la domanda viene formulata, o solo suggerita, e magari non è nemmeno una vera domanda ma una invocazione gettata in aria, ed è questo il senso della sezione del libro intitolata "Volano in cento (Poesie 1999-2001)", cento "dardi" scagliati verso l'alto, giaculatorie (di cui "dardo" è calco etimologico) con le quali l'invocazione si libra e che in sé esauriscono la loro funzione, si conchiudono come una dossologia, poiché "Se non mi dai risposta questo è il segno / che mi stai ascoltando". E' l'essenza della fede. Nessuna pretesa né sicurezza di riscontro, la preghiera (e anche la poesia, tutto sommato) non è "la formula che mondi possa aprirti": non lo è con certezza, e forse non lo è nemmeno per Valesio. Ma io credo che nel "contrasto" tra poesia e preghiera, nella sospensione del tempo che la preghiera assicura, nella sublimazione e annegamento mistico dentro la poesia e nella riformulazione della preghiera in quella, nel suo fondo, Valesio cerchi una sua personale sintesi. Una sua gnosi. (g.cerrai)


da IL DIALOGO DEL FALCO E DELL’AVVOLTOIO (1987)

 Alla figlia della sua giovinezza

Vedi, è quando io sono da solo
che siamo, noi due, insieme –
no, non nel senso
del trucco dialettico
o giuoco diabolistico dei contrari.
Quando io mi ritrovo da solo,
ma veramente solo, che vuol dire:
solo di fronte a un rischio, e sopra tutto
in faccia all’ incrinatura
fessa, della follìa – della scalmana,
vittima della mattana che mi astrae
in concretezza eccessiva
di capelli sudati sulla fronte
è in quel momento
che io non sono più figlio-creatura,
non più animale debole che possa
venire in traccia d’un suo genitore
per rifugiarsi, per succhiare aiuto;
è solamente, dunque, in quel momento
quando io non sono più figlio
che io posso pensare a cominciare.


da AVVENTURE DELL’UOMO E DEL FIGLIO (1996)


La nona giornata della Novena di Santa Teresa di Lisieux

Ieri notte
gli è sembrato di stare ritto in piedi
ad essi rivolto, e di dire:
« O sorelle e fratelli dell’acquario –
in questa chiesa grande di Saint Mary
che (lo ha detto un parroco invidioso)
‘ha le pretese di una cattedrale’–
lo sentite anche voi
che l’aria del mattino è come acqua
filtrata dall’ampie vetrate
ricamate di piombo e di colori?
Nàutili dello spirito
o palombari condannati,
galleggiamo sospesi
(non c’è nessuno
con cui verificare la realtà).
Siamo pochi a quest’ora – una ventina –
ed ognuno di noi ha un lungo banco
tutto per sé.
Al momento del segno della pace
non ci serriamo le mani,
ma ci salutiamo da lungi
leviamo leggera la destra
con un gesto che nasce
da un certo qual languore e sonnolenza
ma che finisce
con il diventare solenne.
Non siamo
affamigliati insieme
non scorrono tra noi
fili di amicizia
o rivoli di sangue.
Siamo soltanto un piccolo
popolo dentro a un cuore.
A ogni alba parliamo con qualcuno
che mai risponde
(così che in certi momenti
ora l’una ora l’altro di noi
si sente stupido e bruto)
ma che pure non cessa di ascoltarci.
E questa sua perfetta equidistanza
questa
indifferenza stupenda
come la superficie di un gioiello
abbraccia l’universo
e valica al di là dell’universo.
Così, faccia a faccia
con l’equanime forza che ci schiaccia,
quanto ci può aiutare
questa santa che parla di rose?
Sotto l’ombra gettata
dalla croce patibolare
le rose incominciano a tremare.
Il tremito dei fiori ci contagia;
in silenzio
ognuno tra di noi chiede soccorso
per la sua povera
anima crudele» .


da ANNIVERSARI (1999)


Il servo rosso

Stamattina ha cavato fuori l’anima.
Era prima del sole
                        (se non si desta nel vibrar del buio
                        perde il suo appuntamento con l’alba).
Ha affondato pian piano la mano
dentro la gola
per alcuni minuti: dolore
(gli sembrava di mordersi la gola
con i suoi stessi denti),
e ha posato il minuscolo uomo
rosso come lacca
(era unto di sangue)
sul tavolo; l’ha ripulito,
quasi fosse cornice d’argento,
con un lembo di pelle di camoscio.
Al momento di riporlo,
le mani hanno un poco tremato:
se non avesse più trovato il posto?

25 gennaio 1995


da PIAZZA DELLE PREGHIERE MASSACRATE (1999)


Sperso

Quello-in-croce che lei gli ha regalato
                        (di ottone rosso: un torbido antiquario
                        l’ha venduto con mani un po’ tremanti)
e che sta appeso al vertice, al triangolo
del soffitto di legno:
lui si sente incitato, nel silenzio,
a rivolgersi ad esso
e quasi corre in camera
e si piega giù ai piedi del letto.
È l’ora blu-morente del crepuscolo,
e già la cosa non si vede più
la parete è soltanto una macchia
di buio che calmo s’addensa –
un colpo di pennello dietro l’altro –
e lui resta insicuro
che ci sia veramente,
quel patibolo piccolo lassù.



La tentazione

Forse passai la vita respirando,
giornata dopo giornata,
gli odori di un’alba non mia.
Viene sopra di me la tentazione
della disperazione:
io e la vita mia,
mai ci siamo incontrati. Ma poi penso:
queste albe, qualcuno le ha mandate;
queste albe, qualcuno
le deve accogliere.


da VOLANO IN CENTO (2002)


Dardo 7: Contra Platonem

(Simposio, 203b)

Se Eros nasce dalle furtive nozze
di Povertà e Ingegno in giardino
quale mai dio scugnizzo e fosco
(dio-demone della mia vita)
nasce dal congiugnimento
del Silenzio e la nuda dei boschi,
la Nulla?



Dardo 9: Contra Lucretium

Con gemiti, la natura
genera senza voce la preghiera:
i cespugli e gli alberi qui fuori
sudano trasudano
                       (contagiando l’interno della stanza
                       dove il legno ha profumo di selvatico
                       come un’ascella)
dopo la pioggia.



Dardo 19

Io prego e non comprendo
che cosa sia preghiera.
Polimorfa richiesta indifesa
per cui pregare vuol dire
vincere la vergogna
che si annida in ogni petizione?
O è afferrare la corda che salva,
la monistica supplica di unione?



Dardo 65

Nei rari momenti (ad esempio
nello specchio abbrumato di un motel)
in cui lo sguardo declina
verso il corpo in sua povertà
(defoliato dagli anni) e nudità
intorcigliato intorno all’indifeso
oscuro pene contro
il pallore del ventre
dunque in disperata purità
là dove la miseria
escludendo vergogna
è la modesta via maestra
verso la dignità –
ecco io allora scorgo il corpo di Gesù.



Dardo 78: Phoné

O mio tesoro
ardente e oscuro:
sei la fotografia
spietata come tutte
(ma maggiormente incide la spietà
là dove il suo oggetto è più vitale)
dei solchi brutti
nell’anima mia.
Io la vorrei più bella, questa anima,
perché tu scintillassi di tutte le più belle
sonorità.

“Teatro del Fontanone”, Roma



Dardo 86

L’unico modo, a questa
altezza di vita,
per riconciliarsi con la notte:
l’estenuazione – dentro cui scavare
una nicchia o covile
come un letto di foglie dentro un bosco.



Dardo 96: Autunno

Per Graziella Sidoli

Arriva un momento
non già di freddo, ma di lucentezza:
tutti i fiori son morti ma sono morti bene
il mondo è come un rotolo di seta
o una grande scultura di ceramica;
i castelli più veri
non son quelli degli alberi cùprei
sull’altra sponda del lago
bensì i loro riflessi dentro l’acqua.


da OGNI MERIGGIO PUÒ ARRESTARE IL MONDO - TRENTA SONETTI 1987–2000


Figuraltra

Assai rado mi miro nello specchio
per schermire bruciante delusione:
che non è quella di vedermi vecchio
ma quella di non scorger la visione,

dentro il vetro, del vólto del Rabbino
(prima di trasformarsi in Giardiniere)
solcato dal dolore e: ora acclino,
ora vòlto a un superno Belvedere.

La faccia che mi affronta nel miraglio
rivela una vita ammorbidente.
Dunque, di fronte a Lui sono uno sbaglio?

No. Perché, se mi tuffo nel mio interno
e dico « Uomo », sento in me presente
la figura del Giovane eterno.

Brooklyn-New Haven, 16-18 aprile 2000



Le labbra

Labbra nude: ecco quello che rammento.
Tagliavano il mio volto, od altri visi?
Poco importa. La vita è un corrivento
ed è finito il tempo dei narcisi.

Solo il silenzio fa accompagnamento
a questa estate priva di sorrisi
in cui mi addentro (e provo smarrimento)
nel ricordo dei falsi paradisi.

Quando sto soccombendo alla vendetta
del passato, e al suo peso suicidario,
risorge entro di me la benedetta

frenesia del presente, a cui soggetta
è la storia e il suo sforzo extra-ordinario.
Labbra chiuse: io resto di vedetta.



Ritratto in concerto

Per Alfredo de Palchi

O vïolina in fondo all’emiciclo
(nastro viola e capelli color tè),
il tuo viso è di quelli che Cosmè
Tura incideva agli orli del suo ciclo.

Il muro alle tue spalle è trasparente:
dietro il fiocco ch’è in tinta dei tuoi occhi
cadono i fiocchi estenüatamente
della neve (l’inverno è agli sbocchi).

Impazientita verso la sottana
tu ti sfoderi in pantaloni neri.
Il tuo viso d’argilla padana

è ombrato sotto gli zigomi seri.
È l’ombra dove io cerco quella tana
da cui nasce la mia vita emiliana.

“Filarmonici di Bologna”
(Aula Absidale di Santa Lucia)




L’antico amante

“Quant l’aura doussa s’amarzis”
Cercamon

Quando la dolce aura s’inamara
dicono che è l’inizio dell’inverno.
Chi sa? Più non conosci le stagioni
ma soltanto le ossa e il loro gelo.

Quando un umano esulta e s’innamora
può scendere il sentiero dell’inferno;
o esaltarsi più in alto dei cicloni
svelandosi a se stessa, e al rosso zelo.

Quando più tardi scivola il momento
degli anni pesanti e il braccio è stanco
al risvegliarsi, come un’ala infranta,

prega che non vi sia un cedimento
ma invece un abbandono ardente e bianco,
nutrimento di voce che canta.



Venerdì Santo

Qual è la prospettiva della Croce?
Lento strisciare a un termine lontano
giocando a fare da assistente al boia
(portiamo in spalla quello che ci uccide).

Qual è la prospettiva dalla Croce?
È un volo poco alto, non sovrano
che plana sopra il mondo senza gioia
(traversando il non-tempo che gli arride).

Ecco perché il mondo oggi è promosso
a creazione, per qualche momento.
Chi oggi discenda alla città dal colle,

trova il selciato silenzioso, e molle
di rugiada; ogni passo è fondo e lento,
la nuda vita è stretta al legno e all’osso.




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