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Gianluca Spitalieri - Racconti di un'assenza

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Gianluca Spitalieri - Racconti di un'assenza - Transeuropa, 2016Gianluca Spitalieri - Racconti di un'assenza - Transeuropa, 2016

Che fare, si diceva qualche giorno fa con un amico, quando di un autore non sappiamo niente, non conosciamo nemmeno la faccia, non abbiamo la minima idea della sua vita o di come si sia costruito il suo bagaglio, la sua "ispirazione"? Non ci rimane che il testo. Per capire, ad esempio, di quale assenza voglia raccontare Spitalieri in questo libro abbastanza scarno (sono venticinque poesie) ma compatto nei suoi intendimenti e nel tema. Che è quello dell'amore, con i suoi immancabili dispiaceri, con la sue mancanze e lacerazioni, partenze e ritorni e patemi d'animo. L'assenza è dunque quella di chi non c'è, se ne è andato, manca all'appello, si fa aspettare. Ma è anche quella di tutti gli atti mancati, di appuntamenti andati a vuoto, e non solo quelli amorosi, del fallimento del confronto anche comunicativo con l'altro, chiunque esso sia. Dunque assenze molteplici e diverse, di cui l'amore, inteso sia come sentimento sia come densità corporea, finisce per diventare un grosso correlativo oggettivo, di qualcosa d'altro. E inoltre assenza come vuoto difficilmente risarcibile, poiché - come scrive Spitalieri - "chi parte non lascia niente".
Dunque il tema c'è, ed è noto, universale, antico come l'uomo. In ciò rischioso, nel senso che parlare d'amore è possibile solo se lo si fa in  un modo che consenta al lettore di scoprire qualcosa di nuovo sull'argomento, anche se fosse soltanto una diversa nuance di dire una cosa nota. Di scoprire, come diceva qualcuno, qualcosa che sa già. Qui ci sono intanto almeno due prospettive: una di chi parla d'amore parlando di qualcosa d'altro, foss'anche un melograno o bolle di sapone, con uno sguardo apparentemente ondivago che però nasconde un chiodo emotivo; l'altra esattamente contraria, in cui l'amore è esplicitato, e magari corporeo, ma è specchio di un mondo più vasto non sempre semplice da comprendere o da controllare (come l'amore stesso, del resto).
Il metodo di Spitalieri di affrontare la sua materia poetica è di distenderla in pennellate con almeno un paio di caratteristiche: sono lunghe, versi liberi ad andamento narrativo ma generalmente chiusi, cioè composti da frasi pressoché complete, che trovano il loro senso compiuto nell'ambito del verso stesso (ed essendo lunghe hanno lo scopo - o tentano - di dire più cose); e sono spesso contrapposte, di materiali, colori, registri, consistenze diverse (e talvolta anche di contenuti diversi, come un volontario saltare di palo in frasca - vedi ad esempio, qui sotto, in Attese, lo scarto tra la prima e la seconda strofa). L'effetto di questa stesura è la composizione di un testo (parlando in senso lato) che generi da una parte una attesa di qualcosa che gli accidenti della vita hanno momentaneamente sospeso ma che certo avrà un suo esito naturale, buono o cattivo che sia (una storia, un amore, una visione, un'idea ecc.); dall'altra una frustrazione di quella attesa, non tanto come risultato poetico quanto come negazione di un continuum, come affermazione del fatto che le cose vanno come vanno e sono sempre più complicate e meno lineari di quanto ci si possa aspettare. E' in questo senso che dicevo che il tema, amore o altro, poi veicola una visione del mondo più ampia, vestita di un pessimismo consapevole, di una aspettativa esistenziale liquida e insieme legata ad un hic et nunc, un certo qual "lascio fare al caso che poche volte invece / ha reagito bene alle insistenze del corpo". Il modo relativamente nuovo di parlare d'amore è quindi dire che l'amore è un accidente (un caso, appunto) della vita, qualcosa di intruso in quel magma ma con uno statuto speciale, che càpita, a volte è un incontro fortuito (anche, specie nel suo coté meramente erotico più che affettivo), ma incide, lascia un segno di cui ci si può illudere che sia una chiave di lettura dell'esistenza, a sua volta scarsamente proiettata verso il futuro, visto comunque come "un domani precario che si consuma / fra zuccheri e caramelle".
Poi naturalmente c'è altro, o forse ci sarà, qualcosa che si intravede nei due bei testi che chiudono il libro, qui riportati. Sono in fondo e lasciano in bocca un sapore diverso, come la promessa di un nuovo tema o addirittura di un nuovo stile, qualcosa che verrà. Più compatti, più limpidi, più comunicativi e, se posso dirlo, più importanti del resto dei testi qui presenti, perché diversamente orientati all'esterno, ad una riflessione sul mondo da un punto di vista meno egoisticamente (si fa per dire) soggettivo, più engagé, più maturo (per quanto questo aggettivo nasconda sempre un'insidia), e se vogliamo più lirico (ma lo dico come pura constatazione). E' un'impressione che ho avuto, non so dire se sia il preludio di qualcosa di diverso, non so nemmeno se siagiusto aspettarselo. Ma certo Spitalieri ha i mezzi, se vuole.  Staremo a vedere.  (g. cerrai)


Assilli  

I mille sguardi dei morti lasciano un paese a pezzi
e rimangono solitarie le strade di notte senza asfalto.
Hai forse trovato riposo in uno dei tanti letti presi in affitto
in quel luogo desolato?
Ho gettato semi nel water questa notte, raccolti in contenitori di cellulosa
serbo speranze nell’uomo.
Riuscirebbe a ritrovare un figlio perduto in quelle strade solo dallo sguardo.
Serbare speranze gettare seme e raccogliere sguardi
sembrano propositi alti per un paese di morti.

Ti ho lasciato anche questa notte con un abbraccio forte
e mi mancava il fiato per la presa. Così lascio i miei amanti
mentre stringo le palle alla luna illudendomi.

Avresti preferito un lavoro decente e mille prestiti in banca
invece di una notte passata con me. Posso capirlo.
Sono un precario anch’io. Ma di amori. Quelli che restano in gola
e che non vanno giù nemmeno a morire.

Questa notte quel letto lo paghi tu però.



After a long trip to a shrine                                 

Anche se i doni sfuggono agli occhi con poche parole e intanto respiri
lo stesso e non smetti più,
non ha più sonno il mondo e non basto più a dare nomi alle cose, ad ogni cosa
che è altro alle ore d’estate e alle luci del maggio che luccica
come macchia di bosco all’ombra come siepe che nasconde.
E questo non basta nemmeno a ficcarti dentro alla testa che è finito.

Stanchi occhi rossi
                              e una pausa pranzo in più.

Già... sembra assenza di dio che non dovesse mai arrivare quel giorno.

Abbandono? Come lo chiamò il poeta che vide scivolare
l’amore in un bicchiere
di sangue!


Ora lasciami il numero... anzi lasciami

                                                                    … after a long trip to a shrine.



Granada     

Non sarebbe il primo viaggio pieno di vittorie
senza marmitta truccata in moto chi lascia la propria terra.
Al mattino con un grumo di cavallette in testa e quello che resta d’un giorno
ci si affida al ricordo della madre coi capelli lunghi
e a quella sepolta dietro un sorriso.
Lascio le vittorie agli altri, mamma, e vado.
Anche se riuscissi a togliere mille denti in un solo colpo
so che a nulla servirebbe. Se non a lasciarsi senza dolore
come se tu fossi priva di quella ridicola calzamaglia che ti ostini ad indossare.
Tutte le sere.
Le stesse sere in cui tornava a casa e pisciava sul letto
e diceva che era colpa dell’acqua fredda.
Abbandono la memoria del corpo una volta per tutte e vado.

Abbandono la memoria della casa, quella degli spiriti veri e fasulli
con cui si gioca da piccoli e si cresce anche.

E intanto raggiungo il melograno.



Attese

Si fa presto a godersi dietro l’angolo
d’una strada,
quando invece uno sguardo sta ancora riposando
sul davanzale d’una finestra.
Dall’alto si sente poco e sembra più strano il gioco
se a mancare è il desiderio.

Questa mattina ho spedito tutti gli auguri di Natale.
Un quotidiano impegno di resistenza al tempo.

Dall’altra finestra si segue il passo di chi vuol perdersi
ed io lascio fare al caso che poche volte invece
ha reagito bene alle insistenze del corpo.

Si può mostrare di essere a casa in attesa
anche per un paio d’ore
col fiato strangolato da un colpo di mano
ma io non sono quel tipo lì...



Tra zuccheri e caramelle            

Lei si guardava distratta in quel buco d’ombre
la notte come facevano tutte in piedi tra gli sguardi
del Metrò.
Pochi attimi e sarebbe ritornata quella strana luce
cobalto ad illuminare il pavimento e
finalmente si sarebbero riconosciute nello spazio
chiuso d’un colore che un po’ in verità soffocava...
… avevano fatto l’amore con gli occhi mille volte
quella sera e nulla confessavano ora gli ultimi sguardi
che si perdevano prima di andar via da quel tocco di bicchieri.
Tutto si lascia alle spalle in quelle circostanze
ad un domani precario che si consuma
tra zuccheri e caramelle.



Alla fiera imbonitora

Quando dissi che quel letto vischioso forse andava buttato
pensavo alla mia memoria che fa acqua da tutte le parti
un intoppo fuori dalle cose
                                       che puzza di vita di cinguettii notturni
   che si riconoscono dal ballatoio di casa mia.
La chiami processione di corpi quella che nessuno ama e nessuno tocca
perché argillosa
e dovresti saperlo tu che vomiti sesso e che inzuppi briciole nel vino
quelle sere quando ci si sente soli e ti scappa una parola sporca
perché Così Fan Tutte
nel termitaio dove maschi e femmine si fecondano nutrendosi.

C’era amore vero sul davanzale che strizzava
sottane per uomini:
ce ne è per tutti i gusti alla fiera imbonitora.
Perché so che cammini e non ti curi di essere guardato?

malato il corpo
malato il frutto
malato il sogno

ieri ho rovistato tra gli armadi di casa mia
                                                                 se domani avrai voglia tu
                                                                 basta una botta.



La rosa di montagna              

Non c’è alcun vantaggio
nel fare strada a piedi dove l’aria
spezza la lingua
e si sente dischiusa a tratti una parte del cielo più chiaro,
con l’altra fitta di rose rugose dai margini seghettati e incompiuti,
lasciando che muti il colore la rosa di montagna
dal verde al giallo dal rosso all’arancione
alla fine di un inverno che non risparmia coltre d’ovatta
e s’affloscia bavoso sul sentiero.
Dal basso tutto appare più difficile
e s’allunga l’edera che ricopre muri a specchio:
non c’eri quando raccoglievano le bombe dimenticate sul campo
e nemmeno quando filtrava una nuova stagione che spegneva
la precedente.

Non ci sono vantaggi nel ricercare buoni motivi
fottendo la vita in nome della poesia.



Luoghi di afa

Inabissa il peso dell’acqua in mezzo alle terre
che da Zaura solleva fra le palme suoi edifici
fra una folla di corpi di donne e bambini e gli uomini
anziani sono muraglie di fango in quelle terre di guerra.

Si scivola via sopra i letti del mare e non c’è nulla da sognare
dove la storia non ammette futuro in quel mondo d’Occidente
ove silente nasconde colpe ed essicca memoria.

Vorrei trovare un luogo che non sia solo luogo
una terra che non sia solo terra.

Vorrei attraversare un mare che non sia solo mare
e vorrei aggrapparmi sui fianchi della terra
e risalire dove le spighe raggiungono il cielo.

Ora dove il buio è l’eco della storia dei popoli del mare
l’abisso racconta le nostre storie e dove brilla la resina
si inabissano popoli di città ormai sommerse.



Mesi di dormienza

Strattonano le gemme di faggio purpureo
durante i mesi di dormienza.
Una stagione anomala che ispessisce i tronchi
delle latifoglie. Che ritarda il gelo sulle foglie
che scava sulle cortecce ridotte e che sfronda
all’essenziale.
È una stagione che delimita lo spazio
e che ci separa e ci definisce e ci avvantaggia
nella cernita in un inverno fittizio ed effimero.
E nell’illusione che basti il caldo alla crescita
portiamo anche noi
le nostre sacche di sementi, bacche rosse
esposti al cimento della vita.
E come le piante senza riposo invernale
affidiamo alle stagioni la fiducia
di una nuova corsa
tra le colline del moscato.
In anticipo corre la stagione dei ciliegi.



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