Sonia Caporossi - Erotomaculae - Algra Editore, 2016

L'amore non è più paegnia, giocattoli, figure, non oggi, non
di questi tempi, non in certe condizioni sociali e politiche e culturali
in cui tutto è da ri-conquistare, mai definitivamente acquisito, anche
in termini di identità personale, di libertà di. Non è più un
giocattolo, se mai lo è stato, una primazia del corpo in cui l'anima
abitava, era ospite nobile, ma non - come poi è stato - effigie a
somiglianza di, e quindi Sua messaggera e ambasciatrice. O forse non lo è
ancora, ancora non è tornato ad esserlo. Nel frattempo l'amore è una macula,
una traccia dai diversi contorni che si proietta sulla vita, ne invade
lo sguardo e che si tenta ossessivamente di mettere a fuoco. Nel
frattempo l'amore diventa identità e specchio. Entrambi molto fisici, molto corporei.
Questo ultimo libro di Sonia Caporossi è un canzoniere d'amore,
d'amore erotico o omoerotico per essere precisi, in cui l'autrice si
ritrova e si riconosce (lei è questa poesia, questo amore), ne individua le tracce, le evidenze materiali, le maculae, le psichedelie, e
lo definisce come elemento costitutivo della sua poesia, un elemento di
una grana fitta e di un peso specifico non indifferente. Un amore
descritto non come una serie diaristica di esperienze, ma come un unicum esistenziale
che trova la sua descrizione (e la sua estetica, che spesso il tipografismo nasconde) in un flusso compatto di sensazioni,
sensi, pelle, passaggi dall'epidermide al cuore e viceversa, fuso in un
impasto linguistico abile, colto, molto icastico, spesso sinestetico, e
da un punto di vista del lettore niente affatto epidermico.
La forma, in questo libro diviso in sei sezioni più un epilogo che
ripercorrono una storia (o forse più) amorosa, ha una sua invadente
preponderanza. Per forma non si intende niente di comunemente riferito
alla poesia, se non in precisi, limitati (e pressoché desueti) momenti
della sua storia. Come è possibile vedere nei testi che ho scelto, il
primo impatto che se ne riceve è totalmente tipografico, visivo, un
campo lungo che l'occhio, molto prima della mente, deve abbracciare.
Viene in mente, certo, Marinetti (che Giovanna Frene cita nella sua
prefazione), ma anche Apollinaire (ma senza "figure"), o il Luciano
Folgore di Magnesio, o certe cose di Giulia Niccolai o di
Liliana Ebalginelli. Gli esempi, vecchi e nuovi, non mancano. E' una
scrittura ardua da leggere, sulla quale ci si deve "arrampicare", come
dice Frene, ma mi pare che non voglia (o non pretenda di) avere una
particolare funzione visiva o grafica. Sebbene sembri provocare un urto
tra tradizione e innovazione, come afferma Frene, in realtà mi pare si
tratti di una poesia lineare, persino in molti punti decisamente lirica,
non meno di quanto lo sia un carme di Saffo (e anche qui sono d'accordo
con la prefatrice), con la dovuta distanza naturalmente. Una linearità,
anche sintattica e lessicale, en travesti, in un certo senso, con una veste cioè opposta alla voce, tanto che a volte ti chiedi se sia funzionale davvero. Ma in cui il grassetto, il bold,
le lettere grosse non hanno solo una funzione di enfasi o di esplosione
grafica, ma anche - come sanno i vecchi frequentatori di newsgroup -
sono segnale di un urlo, di una rabbia, di un alzare la voce per farsi
intendere, di una incazzatura. O di una forte passione. E certo è la
passione amorosa il motore principale di questo libro, espressa in una
concretezza di carne, di fluidi, di gesti erotici, di parole in
evidenza, a volte forse esibite, che alla fine costituiscono un'onda
lunga, una massa essa stessa corpo ("e sembra di attraversarlo, questo
corpo", cito ancora Frene), abbastanza vischiosa da non poter essere
semplicemente letta, da richiedere anche un confronto intellettuale,
forse razionale più che emotivo o empatico. Corpo che è segnale e
simbolo, come ho scritto altre volte, un topos della poesia femminile,
soprattutto in termini di riappropriazione ma anche, generalmente
parlando, come luogo di incrocio e snodo di problematiche diverse non
sempre ricomposte. Quindi anche corpo politico, di cui la poesia di
Caporossi vuole a mio avviso farsi interprete e voce, essere
poesia-bandiera, riconoscendo a sé stessa, come dice Sonia nella nota in
cui ringrazia l'editore per il suo "coraggio", di essere poesia forte.
Almeno quanto basta per colpire il lettore o per essere "perturbante",
come scrive ancora Frene con un termine scientificamente esatto. E
probabilmente per il lettore la cosa migliore è lasciarsene investire,
rimandando alla fine del libro ogni considerazione, ogni meditazione,
senza opporre ingiustificate resistenze agli attriti che questa poesia, a
differenza di tante altre, certo può generare. Gli attriti si dice generino calore e luce. (g. cerrai)
Estratto da "Sonia Caporossi - Erotomaculae"
(nota: tutti i caratteri, comprese le cancellazioni, sono originali)